Haftar, l'autoproclamato generale dell' Esercito nazionale libico [...] è sostenuto militarmente dalla Francia (la destabilizzazione della Libia è soprattutto opera francese e francesi sono le mire sui giacimenti libici) e poi da Russia, Egitto, Emirati Arabi ed Arabia Saudita
Unico appunto alla tua analisi, invertirei i fattori nell’elencare i sostenitori del generale.
Il quale, prima dell’attacco a Tripoli, si è effettivamente incontrato con un uomo politico: ma il Ministro della Difesa della Federazione Russa Sergej Šoigu, non Macron o uno dei suoi.
Il che aiuta a mettere ordine: Putin e Al-Sisi sono i suoi costruttori e primari sostenitori – da un punto di vista politico il primo; più direttamente logistico, anche per questioni di vicinanza geografica, il secondo – mentre l’immagine di Haftar scagnozzo dei francesi appartiene piuttosto ai desiderata di Parigi.
Non a caso i beneficiari della Legion d’Onore dalle nostre parti e i loro lacchè mediatici l’hanno più volte rilanciata.
Non a caso l’uomo forte della Cirenaica si è appoggiato occasionalmente alle forze d’Oltralpe prendendone, però, subito dopo le distanze.
Ricorda probabilmente non solo che la Francia rimane la principale responsabile nella destabilizzazione del suo Paese, ma anche che la pugnalata alla schiena di Gheddafi era stata preceduta da una lunga e lucrosa tresca con Sarkozy: alleato quantomai inaffidabile, insomma.
Senza contare che la strategia di Parigi è quella di gran lunga maggiormente basata sulla destabilizzazione, mentre da Haftar dipende – almeno al momento – l’unica opzione per stabilizzare l’ex
Jamāhīriyya: difficile immaginare qualcosa più di un’occasionale collaborazione tattica, come quelle cui si accennava, fra due istanze che si escludono a vicenda.
Ciò premesso, che fare da parte nostra per evitare un collasso di cui saremmo le prime vittime?
Le opzioni sul campo non lasciano spazio a grandi speranze:
1) un intervento militare diretto appare sproporzionato alle nostre forze, oltre a rischiare di impantanarci sine die in un potenziale Afghanistan sottocasa
2) Un coinvolgimento degli Usa, ammesso e non concesso che non abbiano di meglio da fare, imporrebbe pelose contropartite su fronti – ad esempio quello venezuelano o siriano – dove gli interessi di Washington non coincidono certo con quelli italiani
Un’uscita da questo vicolo cieco potrebbe passare per la messa in discussione del nostro peccato originale nel caos libico: l’appoggio unilaterale e incondizionato al governo tripolino di Al Serraj, imposto all’ONU da un’infelice scelta di Obama (strano, vero?) e docilmente avallato dal duca conte Gentiloni (stranissimo, vero?).
Tutto questo mentre l’unico Parlamento con un minimo di legittimità elettorale era quello insediato a Tobruk.
E col risultato di puntare tutto sull’Hamid Kazaj o sull’Ashraf Ghani di turno: vale a dire un corrottissimo proconsole puntellato dalle baionette occidentali, in grado di controllare a malapena la Capitale e, nel caso di Serraj, con l’aggravante di rapporti tutt’altro che chiari con varie componenti islamiste.
Oggi la resa dei conti sul campo non è fra il Bene e il Male o fra Italia e Francia: ma vede da un lato un governo rimasto allo stato embrionale e asserragliato nella sola Tripoli, tipo ultimi giorni di Costantinopoli; dall’altro una forza che ha bene o male riunificato il resto del Paese, oltre che dalla più credibile patente anti-terrorista.
Una resa rinviata dai calcoli di Haftar che, tramontata l’ipotesi di una vittoria-lampo, teme per il cronicizzarsi di un conflitto “caldo”.
Già si presenterebbe nella Capitale come uomo della Cirenaica, quindi un corpo estraneo in quanto proveniente da una realtà profondamente altra rispetto alla Tripolitania: dovesse farlo anche con le mani sporche di sangue fresco, il suo governo partirebbe con un piede sbagliatissimo.
La soluzione pacifica a questo stallo passerebbe per un passo indietro di Al Serraj, che consentirebbe al suo rivale di arrivare al traguardo ma in maniera incruenta e negoziata.
E qui l’Italia potrebbe riconvertire in un decisivo tesoretto un errore diplomatico, vale a dire l’eccessiva ed eccessivamente esclusiva consuetudine col leader (si fa per dire) di Tripoli.
Mettendo tutto il proprio peso nelle mediazione per garantirgli una dignitosa via d’uscita che ne salvaguardi incolumità e interessi essenziali.
Oppure, e non sarebbe nulla di sorprendente da quelle parti, lavorando per ricavargli uno strapontino all’interno dei nuovi equilibri.
Possibilmente valutando la posizione dei suoi sostenitori turchi, usciti furibondi dal precedente vertice internazionale di Palermo.
Mosse da acrobati senza rete, ma francamente con poche alternative.
E che, dovessero andare in porto, garantirebbero all’Italia l’imprimatur sull’incoronazione del nuovo raìs con tutta una serie di conseguenze favorevoli:
- stabilizzare un Paese per noi cruciale
- disinnescare la bomba umanitaria, con profughi e tutto il resto, legata a un’escalation del conflitto
- accontentare la Russia, dati i rapporti di collaborazione e la bassa concorrenzialità tra Eni e Rosneft
- accontentare l’Egitto, partner strategico dopo la scoperta dei giacimenti di Zohr da parte dell’Eni, col quale l’attuale Governo ha ricucito i rapporti dopo il caso Regeni e, non a caso, recentemente “attenzionato” dalla diplomazia parigina
- accontentare gli Usa, sospesi fra l’impossibilità di disinteressarsi della Libia e la volontà di sottrarsi a un impegno diretto: in fondo lascerebbero il Paese in mano a un loro cittadino (dopo un fallito golpe ai danni di Gheddafi nel 1990, Haftar è vissuto in Virginia e possiede un passaporto a stelle e strisce) e a un alleato tutto sommato affidabile e controllabile (Roma, appunto)
- accontentare gli Usa, ma compiendo ancora una volta, dopo il memorandum con la Cina, un passo in ambito internazionale almeno in parte fuori dal loro cono di penombra
- ottenere il peso e il riconoscimento necessari per chiedere una testa: quella degli interessi francesi in Libia
Sarebbe anche l’occasione per definire finalmente una strategia in Africa, dove i nostri obiettivi sembrano convergere almeno in parte con lo sfrenato attivismo cinese.
Al di là degli investimenti di Pechino, che possono avvalersi in più di un caso del contributo di aziende italiane, la RPC appare l’unica potenza con la forza e l’interesse diretto a vibrare un colpo mortale alla Françafrique.
Vale a dire, come confermato più volte da Mitterand, Chirac e altri pezzi da novanta, l’estremo trait d’union tra la Francia e un reale ruolo di potenza.