Autore Topic: SEBASTIANO FANTE ITALIANO  (Letto 57914 volte)

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Offline leomeddix

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Re:SEBASTIANO FANTE ITALIANO
« Risposta #220 : Venerdì 28 Settembre 2018, 23:11:38 »
Un  brunch a Ville Scorcieuse mi attizza beaucoup. :P

Ingordi di tutto il mondo, uniamoci! :icon_biggrin:
È GIÀ SETTEMBRE ? NON CI POSSO CREDERE! LA MIA VITA STA PASSANDO TROPPO VELOCE. LA MIA UNICA SPERANZA È CHE SI VADA AI TEMPI SUPPLEMENTARI. (CHARLES M. SCHULZ)

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Re:SEBASTIANO FANTE ITALIANO
« Risposta #221 : Sabato 29 Settembre 2018, 22:24:39 »
Evvabbè, abbiamo perso il derby. Ma siccome io sono sì come "... quell’antico
                                                                                       brahamino del Pattarsy
                                                                                       che per racconsolarsi
                                                                                       si fissa l’umbilico", 
le vittorie mi lasciano gaudioso a lungo, mentre le sconfitte mi abbacchiano per pochissimo tempo.
Ed infatti l' incazzatura, non tanto per i tre fischioni subiti quanto per l' inadeguatezza del tecnico e le mollezza dei chierichetti che sono scesi in campo, m' è già passata, torno a bearmi della tranquillità di hodesto loco ed a postare quanto promesso all' amico Arch davanti al lago di Bolsena, e cioè a raccontare quel che accadde a Marfisa (se non ricordate chi è andate a rileggervi l' Orlando Furioso o quello Innamorato, scordarelli che altro non siete) fra la foresta di Blackrock ed il castello di Swords.
Cosa di cui non troverete traccia né nel Boiardo né nell' Ariosto per l' unica ragione che non venne in testa a loro, ma al sottoscritto (a quei tempi pressoché imberbe) Frusta nella lontanissima metà degli anni settanta, quando, cioè, incautamente rispose "obbedisco" all' invito di andare a lavorare presso la filiale irlandese (per quasi solo tre mesi, eh, massimo quattro o cinque, diciamo sei, và, insomma, non più di sette o otto...) di Sua Inoppugnabilità l' Azienda cui avrebbe risposto sempre "obbedisco" fino alla pensione.
Per onestà va detto che l' Irlanda di quegli anni non era il luogo fighetto, snobbino ed attrattivo che è diventato un pò con le canzonette alla Mannoia e molto per quelle degli U2, ma era ancora l' Hibernia sfanculata dai romani duemila anni prima e l' isola terrona guardata dall' altro in basso e con la puzza sotto al naso da tutti, rigorosamente tutti, gli ariani del nord.
Il povero Frusta, penalizzato dal fatto che la puzza della carne di pecora je fa schifo e, da astemio, la Guinness je da 'ntesta e la pioggia gli scolorisce l' umore, trascorse lì i mesi più plumbei della sua ancor giovine vita.
Ed invece di martellarsi i coglioni come avrebbe fatto adesso ch'è diventato un saggio vegliardo, si mise a scrivere le "Avventure irlandesi di Marfisa".
Unica alternativa all' abbiocco davanti ad una tv in bianco e nero che trasmetteva film in irish gaeilge coi sottotitoli in inglese, o viceversa.
Ravanando fra i miei ricordi cartacei ne ho ritrovate due, che, bando alle chiacchiere, vado a postarvi qui.

 ;D Dovessi ritrovarne altre (è una minaccia) ve le riposto.


1) Lìa Fail

"... il regno delle fate e degli spiriti è molto più resistente dei sogni che gli uomini gli dedicano. Forse rimarrà sempre sul punto di scomparire e non scomparirà mai." (Thado)

Non è molto lontano il castello di Swords dalle colline di Monkstown: due, al massimo tre giorni di cavallo se il cavallo è giovane ed il cavaliere non ha una armatura troppo pesante.
Si attraversa la foresta di Blackrock, si scende verso Dun Laoghaire, si prosegue lungo la spiaggia dove il mare è nero anche di giorno e non è mai più alto di un palmo e se non si fanno brutti incontri si può stare alle pendici di "fairy hill" Tara all'imbrunire.
Se poi si ha il cuore di affrontare di notte il guado di Dub Lin si può arrivare a Baile Atha Cliath prima dell'alba e poi da lì con meno di un giorno di torbiera...
Era già notte quando Marfisa legò il suo cavallo alla radice sporgente di un hawthorn, il biancospino del Tara sidhe, e distese il mantello sotto i suoi rami.
Re Murtag le aveva dato l'incarico di scoprire quale tra le pietre di Tara fosse la Lìa Fail, la pietra del destino, il passaggio tra questo mondo e l'ignoto, la pietra che avrebbe dato l'immortalità alla corona di chi l'avesse posseduta e lei era giunta fin là per trovarla.
"NIL SE 'NA LA, NIL SE 'NA LA!!! Non è ancora giorno, cosa ci fai tu qui? Questa è la notte di Samhuin e solo il fairy folk, il nostro popolo, ha il diritto di stare qui dopo il tramonto. Chi sei? Uno dei soliti scherani di re Murtag che ogni anno nella notte di Samhuin prova a portarci via la nostra Lìa Fail?"
Un leprechaun si era affacciato da una minuscola apertura apparsa all'improvviso sul muschio che ricopriva una piccola pietra scura incastrata fra le radici del biancospino e fissava Marfisa con aria di sfida. Dietro di lui una miriade di elfi e di piccole fairies con le ali trasparenti.
Marfisa si tolse l'elmo, scosse i capelli al chiarore della luna piena e si inginocchiò sull'erba "Ohhhh! ma sei una donna!" L'omino verde sembrò rasserenarsi: "Immagino perchè sei qui questa notte. La Lìa Fail è l'unico varco che esiste al mondo tra la realtà e la fantasia, portandocela via renderai immortale il regno di Murtag ma porrai fine al nostro. Qualsiasi cosa il re ti abbia promesso pensi che valga di più?"
Era ancora notte quando Marfisa attraversò il guado di Dub Lin ed era ancora giorno quando attraversò il ponte levatoio del castello di Swords. Era lei e nessun altro che aveva un regno da salvare.
Tra le pietre di Tara sidhe ne aveva vista una di granito bianco: alta, solenne e lucidata da millenni di pioggia: la Lìa Fail ideale da consegnare a re Murtag.





2) GU

Non sono molto lontane le colline di Monkstown dal castello di Swords: due, al massimo tre giorni di cavallo se il cavallo è giovane ed il cavaliere non ha un’armatura troppo pesante.
Se si parte all’alba si può arrivare a Baile Atha Cliath con meno di un giorno di torbiera.
Se poi si ha il cuore di affrontare di notte il guado di Dub Lin si possono toccare le pendici di “Fairy hill” Tara prima dell’alba e da lì, proseguendo lungo la spiaggia dove il mare è nero anche di giorno, se non si fanno brutti incontri si può arrivare a Dun Laoghaire prima dell’imbrunire.
Lì però è necessario fermarsi per far riposare il cavallo e perché nessuno attraverserebbe di notte la foresta di Blackrock…
Era ancora giorno quando la marea cominciò a salire tra gli zoccoli del cavallo e Marfisa voltò a destra tra le darkcaves ai piedi di Dun Laoghaire.
“Gu…”
Non era un lamento quello che proveniva dalla grotta, sembrava piuttosto una presa d’atto dolente e disperata. Nessun irish entrerebbe mai in una darkcave dopo il tramonto a meno che non sia condannato a farlo: la marea invade il fondo della grotta, ne copre l’imbocco ed uscirne vivi sarebbe impensabile.
Marfisa aveva sentito parlare di questa condanna riservata ai folli o agli assassini: si diceva che lo spirito malvagio che li possedeva venisse disperso nell’oceano dal riflusso della marea e non potesse così contagiare le persone sane.
“Gu!”
In ginocchio, con i polsi legati alle caviglie, con lo sguardo struggente e rassegnato da bue orfano ed il mare che ormai gli stava entrando in bocca c’ era l’essere più gigantesco che Marfisa avesse mai visto.
“Ghhu... ”
“E’ Angus, è un mostro alto più di sette piedi e pesa quattrocento libbre. La prigione di Kilmainham non ha celle abbastanza grosse per ospitarlo ed il conte di Killiney ha deciso di condannarlo senza processo. D’altra parte non potrebbe nemmeno scagionarsi, sa dire solo gu ed a nessuno verrebbe in mente di contraddire il conte per difendere un idiota.”
Cominciava a far freddo e i due uomini di guardia alla grotta sembrava non aspettassero altro che la marea finisse di salire per poter tornare a casa. Quello che stava tentando di sbarrare la strada a Marfisa aveva un aspetto da guerriero improponibile, una spada troppo pesante per le sue mani ed una cotta di maglia fuori misura.
“Di cosa è accusato?”
“E’ successo durante la notte di Samhuin sulla strada di Tara sidhe. Ha assalito il carro con le tasse della contea di Killiney destinate a re Murtag ed ha massacrato le cinque guardie che lo scortavano. Nessuno saprà mai dove ha nascosto l’oro, il conte lo ha fatto torturare per ore ma quel bestione non sa dire altro che gu.”
“E chi dice che sia stato lui?”
“Nessun altro è così forte da affrontare cinque uomini da solo e nessun altro è così folle da aggirarsi da solo per Tara side la notte di Samhuin.”
“Chissà quanti uomini ci saranno voluti per catturare un criminale così pericoloso!”
“Solo noi due, ci è bastato puntargli una spada alla gola perché ci seguisse docile come un agnellino. E’ stato facile dividerci la taglia di trenta monete di bronzo che il conte aveva messo sulla sua testa. ”
“Quindi non vi sarà difficile impedirmi di liberarlo.”
I due rimasero a bocca aperta mentre quello strano cavaliere si toglieva l’elmo e scuoteva i capelli all’ultima luce del tramonto: era una donna! E da come stava maneggiando la spada per liberare i polsi e le caviglie del gigante era fin troppo evidente che sarebbe stata altrettanto capace di usarla contro chi avesse cercato di impedirglielo.
“Vieni, Angus, si torna al castello di Swords. Re Murtag è così sensibile quando gli si sfiorano i forzieri! E poi sa benissimo chi c'era sulla strada di Tara sidhe la notte di Samhuin e chissà come sarà curioso di conoscere la versione del conte di Killiney sulla scomparsa delle tasse dell’ultimo anno di quella contea!"
Era buio e camminavano già da un’ ora quando Marfisa sentì una mano pesante come una macina da mulino sfiorarle una spalla.
“Gu...”
“Dimmi, Angus.”
“Gu.”
“Di niente, Angus, di niente…”


Lazio, ti amo con tutta la feniletilamina, l’ossitocina, la dopamina e la serotonina che mi circolano nel cervello, che rendono il mio pensiero poco logico e che mi procurano strane sensazioni in tutta l’anatomia e battiti sconclusionati nell’organo principale del mio apparato circolatorio.

Offline leomeddix

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Re:SEBASTIANO FANTE ITALIANO
« Risposta #222 : Sabato 29 Settembre 2018, 23:07:11 »
Grande Frusta, m'hai fatto passà lo sconforto post-derby con il tuo viaggio nel fatato mondo irlandese.
Però non esiste che sei astemio. Redimiti!  :birra:
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Re:SEBASTIANO FANTE ITALIANO
« Risposta #223 : Lunedì 1 Ottobre 2018, 00:34:48 »
...evvabbè, visto che c'è un momento di pausa, vi posto un altro contributo filmico.
E' un video-racconto che parla delle lotte contadine nel "triangolo rosso" della bassa emiliana durante il secondo dopoguerra.
Voglio rassicurare soprattutto Frusta :risa:: questo documentario è "di parte", però ho cercato di mantenere una certa "obbiettività storica" raccontando dei morti in entrambe le fazioni contrapposte.
Per cui siate comprensivi e non sparate sul regista  :icon_biggrin:


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Re:SEBASTIANO FANTE ITALIANO
« Risposta #224 : Lunedì 1 Ottobre 2018, 08:33:33 »
Grande Leo. "Nessuno si senta offeso" quando la Nottola di Minerva dirada le tenebre con la sua "azzurra luce".
Lazio, ti amo con tutta la feniletilamina, l’ossitocina, la dopamina e la serotonina che mi circolano nel cervello, che rendono il mio pensiero poco logico e che mi procurano strane sensazioni in tutta l’anatomia e battiti sconclusionati nell’organo principale del mio apparato circolatorio.

Offline Arch

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Re:SEBASTIANO FANTE ITALIANO
« Risposta #225 : Lunedì 1 Ottobre 2018, 10:33:53 »
Vi ammiro straordinariamente, cari amici dello SFI. I dadaisti del 1917 trasferitisi a Zurigo nel 1917 per sfuggire alla guerra scrivevano: "Svizzera, isola felice in un oceano di sangue". Io penso che lo SFI sia: "isola di calma in un oceano di rabbia".

Panzabianca

Re:SEBASTIANO FANTE ITALIANO
« Risposta #226 : Lunedì 1 Ottobre 2018, 10:38:14 »
SFI terra di lieta serenità.

(Mo leggo tutto).

Offline Arch

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Re:SEBASTIANO FANTE ITALIANO
« Risposta #227 : Lunedì 1 Ottobre 2018, 10:51:01 »
Scusatemi, ho scritto due volte "del 1917".

Offline leomeddix

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Re:SEBASTIANO FANTE ITALIANO
« Risposta #228 : Lunedì 1 Ottobre 2018, 11:02:31 »
Io penso che lo SFI sia: "isola di calma in un oceano di rabbia".

Io aggiungerei anche: Sempre Forza Incommensurabilelazio

(Buondì a tutti i membri e i simpatizzanti dello SFI. Veniamo da una brutto fine settimana, ma non dobbiamo perderci d'animo: quando la notte è più scura significa che l'alba sta per arrivare  :icon_biggrin:)
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Panzabianca

Re:SEBASTIANO FANTE ITALIANO
« Risposta #229 : Lunedì 1 Ottobre 2018, 12:04:35 »
Vi ammiro straordinariamente, cari amici dello SFI. I dadaisti del 1917 trasferitisi a Zurigo nel 1917 per sfuggire alla guerra scrivevano: "Svizzera, isola felice in un oceano di sangue". Io penso che lo SFI sia: "isola di calma in un oceano di rabbia".

vero, giusta definizione

Io aggiungerei anche: Sempre Forza Incommensurabilelazio

(...quando la notte è più scura significa che l'alba sta per arrivare  :icon_biggrin:)

Vero. La passione per la Lazio è altro da quel che si è letto, è vero, pur dopo un'incazzatura come quella che ti può dare un derby perso.

Offline Arch

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Re:SEBASTIANO FANTE ITALIANO
« Risposta #230 : Lunedì 1 Ottobre 2018, 14:29:57 »
GIULIO LEFEVRE - UNO DEI NOVE.

I luoghi dell’anima, i luoghi della memoria.
 
Marcello Lefevre, ingegnere urbanista in pensione, è nato a Roma nel 1936. Nipote diretto di uno dei nove Fondatori della S.P. Lazio, Giulio Lefevre, Marcello è un uomo colto, elegante e pieno di interessi. Porta magnificamente i suoi 75 anni, con leggerezza e disincanto.

Marcello svolge un ruolo importante per la comprensione di certe vicende legate alla genesi della Lazio. Con quasi assoluta certezza, ma LazioWiki seguita ad indagare, è l’unico nipote vivente fra tutti quelli dei Fondatori e ha frequentato suo nonno paterno Giulio, deceduto nel 1953, fino all’età di 17 anni. I suoi ricordi, quindi, sono chiari e consapevoli anche se, naturalmente, non del tutto completi.

Giulio Lefevre  nasce a Roma il 31 marzo 1876, figlio di Luigi e Rosa Andreani. Insieme ai fratelli Angelo, Guglielmo, Ferdinando e Zenaide è residente alla nascita in Via Bocca della Verità, in pieno centro storico. Percorrendo a ritroso le generazioni si risale all’ascendenza francese dei Lefevre. Il capostipite Pietro, francese di Limoges, nel 1793 giunse in Italia al seguito del generale Gioacchino Murat e si stabilì a Napoli quale capotornante della Reale Fabbrica di porcellane. Successivamente la famiglia si trasferì a Roma, dove si dedicò alla manifattura artistica di vasellame pregiato e all’arte orafa. Giulio diviene geometra nel 1895 e inizia a lavorare al Catasto di Roma. E’ uno dei tanti giovani che, influenzati dalle gare delle prime Olimpiadi moderne di Atene 1896, si dedica allo sport con passione e dinamismo. Sulle sponde del Tevere si cimenta in gare di nuoto, ma è il podismo ad interessarlo particolarmente e si allena su varie distanze prendendo spunti e suggerimenti dai numerosi testi, soprattutto francesi e inglesi, che vengono pubblicati in quegli anni. Nel frattempo si era trasferito con la famiglia in Via Montesanto e abitava in un villino che fu poi demolito in una fase successiva di urbanizzazione del rione Prati. La sua abitazione era situata ai margini della Piazza D’Armi che fu luogo d’eccellenza per la pratica sportiva a Roma.

Il 31 ottobre 1898 è chiamato alle armi come allievo ufficiale nel X Reggimento dei Bersaglieri,  diviene sottotenente di complemento al Deposito Bersaglieri di Roma e assegnato al V Reggimento. In seguito raggiungerà il grado di capitano.

Tornato alla vita civile , si accentua il suo amore per lo sport. Sulle sponde del Tevere, in Piazza d’Armi, negli ampi spazi liberi che saranno poi occupati dai grandi caseggiati di Prati, i giovani si ritrovano per dare vita a gare polisportive di ogni tipo. Si gioca anche al foot-ball, un nuovo sport di squadra importato a Roma da un italo-francese, Bruto Seghettini. Giulio fa amicizia con i fratelli Luigi e Giacomo Bigiarelli. Il primo è un Bersagliere, scampato al massacro di Adua, che si distingue per carisma e vigore atletico. Insieme ad essi e con altri sei valorosi sportivi, Venier, Balestrieri, Aloisi, Mesones, Grifoni e Massa, Giulio forma una nuova società sportiva dai colori biancocelesti: la S.P. Lazio. E’ il 9 gennaio 1900. Tutti i giovani fondatori, cui nel giro di poco tempo si uniranno un gran numero di atleti attratti dall’organizzazione e dalla serietà di intenti, sono accomunati dal desiderio di migliorare le loro qualità fisiche e morali. Essi sono diversi per ceto sociale e cultura, ma la visione egualitaria dell’etica sportiva consente loro di essere amici e leali compagni di squadra, tesi soltanto a far trionfare i colori sociali nelle tante gare organizzate a Roma e nel Lazio. La prima corsa ufficiale a cui partecipano podisti della Lazio si disputa a Roma l’11 marzo 1900, in occasione dell’inaugurazione del monumento al re Carlo Alberto. Vince la gara il campione torinese Gila che precede il concittadino Cerutti. Al terzo posto arriva Giulio Lefevre che precede tutti i concorrenti romani e i suoi stessi compagni. La S.P. Lazio, grazie al piazzamento dei suoi atleti, vince la Coppa di S.M. il Re a squadre. Il destino fa di Giulio colui che, primo in assoluto, maggiormente contribuisce al successo della S.P. Lazio in una competizione.

Le gare si susseguono a ritmo continuo e Lefevre è sempre tra i protagonisti. Il rione Prati segna territorialmente e sentimentalmente la vicenda umana e sportiva di Giulio. E’ un rapporto inscindibile con un tessuto urbano che ha come segno distintivo la presenza di maglie biancocelesti. Posto tra Tevere e collina di Monte Mario, delimitato da Ponte Milvio e San Pietro, ha sempre raccolto e accolto testimonianze di chi ha per colori sociali quelli del cielo.
Altri giovani formidabili accorrono, inarrestabili, per vestire quei colori: Masini, Bitetti, Ancherani, i fratelli Corelli e Saraceni, Coraggio, Consiglio, Bona, Fioranti, Mengarini, Dos Santos, Canalini, Tofini e mille altri ancora portano sempre più in alto il vessillo sociale. Storie di epiche imprese, strazianti sconfitte, magnifici risultati, brucianti disillusioni.

Giulio seguita a gareggiare con passione. Gli impegni lavorativi al Catasto sono pressanti. Un geometra, in quei tempi di grande sviluppo urbano, ha il suo daffare. Alterna pratica sportiva e lavoro. Nel 1906 si sposa con Giuseppina Torchio, sorella di due formidabili podisti e nuotatori della Lazio, Alfredo e Umberto Torchio. Il biancoceleste si infonde sempre più negli affetti più cari del fondatore. Nel 1907 nasce il primo figlio, Lamberto, nel 1909 il secondo, Carlo. Questi è il padre di Marcello, che narra a LazioWiki le imprese umane e sportive di Giulio Lefevre.

Pur seguendo con affetto le vicende della sua Lazio, progressivamente Giulio dirada le sue performances sportive. La famiglia, i figli, il lavoro, l’età non più verde, il dolore per la notizia della morte a Bruxelles nel 1908 del grande Luigi Bigiarelli, pongono infine termine all’impegno agonistico. Rimane il ricordo di anni esaltanti in cui il cuore sembrava battere in sintonia con la voglia di vivere, di vincere, di onorare quella maglia bellissima e sempre amata. Probabilmente Giulio collabora nell’organizzazione societaria e fa proselitismo. Altri giovani atleti si battono sui campi d’Italia in nome della Lazio. La società nata in Prati e propagatasi in tutta Roma, conosciuta e stimata in Italia e fuori.

Giulio è un uomo tranquillo, ottimo padre e marito, lavoratore onestissimo. La Lazio l’ha ben forgiato e del Laziale ha tutti i tratti morali. Eleganza, raffinatezza, educazione, lealtà, senso del dovere. Seguita a vivere nel rione Prati. Le sue strade e le piazze fanno tornare nella sua mente il ricordo di travolgenti vittorie, il clamore degli applausi, immani fatiche sportive. Eppure il quartiere è cambiato: Piazza d’Armi non esiste più, occupata ormai da caseggiati enormi che hanno preso il posto delle effimere costruzioni dell’Esposizione del 1911. Rimane il suo leggendario perimetro viario: Viale Carso, Lungotevere Oberdan, Viale delle Milizie, Viale Angelico. Tremilaottocentoottantaquattro metri che erano il luogo dell’allenamento, della gara, degli scherzi tra amici, dell’improvvisata e irriverente sfida. E mille precisi sono i metri dall’inizio di Viale delle Milizie a Viale Angelico. Ottima misura per testare tempi su questa classica distanza.

Dolci ricordi che vengono lacerati dalla brutalità della guerra. Giulio viene richiamato e spedito nelle trincee del micidiale Costone di San Michele. Niente di più tragico la mente può immaginare. Affetti lontani che si teme di perdere per sempre, il ricordo del placido e rassicurante Tevere che contrasta con il sanguinoso Isonzo. Il biancoceleste che sembra una bestemmia tra i colori della morte. Ma Giulio fa il suo dovere di soldato. Disegna mappe, partecipa agli assalti, decide il destino di uomini. Ma soprattutto si chiede il perché di un inquietante quesito che lo perseguita e lo angoscia. Perché quella sera nella casamatta del comando, mentre è in riunione con gli altri ufficiali, gli viene chiesto di andare a prendere una mappa e lui esce per cercarla? Si assenta per un minuto e in quei sessanta secondi una granata austriaca centra  il manufatto uccidendo tutti. Perché un suo parigrado gli consiglia un movimento in trincea per aiutarlo e viene centrato in fronte dal cecchino nemico? Perché durante l’assalto cadono i due suoi compagni a lui vicini e lui sopravvive? Perché la sera si raccolgono centinaia di morti e lui non è mai tra questi?

Si sente un miracolato, ma non sa darsi risposte. Arriva ad avere quasi un senso di colpa per essere sopravvissuto alla barbarie. Nei territori di guerra muoiono tanti atleti laziali, altri sono orribilmente feriti, altri ancora si ricoprono d’onore. Giulio si merita una Medaglia d’Argento al Valor Militare sul campo. Alla fine del conflitto, forse per un errore di trascrizione, gli viene tramutata in due Medaglie di Bronzo. La moglie Giuseppina va su tutte le furie per l’ingiusta decisione, Giulio non fa una piega, è stato un magnifico atleta e sa capire il senso delle cose e quindi anche dell’ingiustizia. Non è un simbolo che potrà consolarlo di un orrore durato tre lunghi anni. Dalla guerra Giulio ritorna con il tormento ricorrente di non saper spiegare perché lui viva ancora.

E’ un uomo sensibile che non riesce a dimenticare e che scoppia in pianti dirotti ad ogni passaggio dei Bersaglieri. Tutto il suo mondo precedente ha ormai i contorni labili, serrato dal filo spinato delle trincee. Troppo tremenda l’esperienza bellica. Appena finito il conflitto, Giulio viene mandato in Friuli per determinare dal punto di vista della tecnica catastale i danni subiti dalle proprietà dei civili per fatti di guerra. Visita luoghi stravolti dalle bombe, paesi distrutti, campi incendiati, foreste annichilite. Fa stime di danni materiali, ma sente di dover portare con sé testimonianze dei combattimenti. Comincia a raccogliere residui bellici: elmetti, armi, gavette, brandelli di divise, insegne dei reparti, bossoli, bombe inesplose. Deve avere la prova che il suo incubo è stato purtroppo reale. Quando torna a Roma dona tutto il materiale raccolto al Museo dei Bersaglieri di Porta Pia. Ancora oggi sui cartellini di molti oggetti esposti si legge  “Dono del Capitano Giulio Lefevre”.

Il dopoguerra serve a ritrovare un minimo di tranquillità. Il lavoro, i figli da crescere, la lettura. Il Fascismo lo trova indifferente. Una vita ordinata, serena esternamente, ma l’angoscia dei ricordi lo tormenta sempre. Nascono i nipoti, nasce Marcello nel 1936. L’uomo si addolcisce e si quieta. Poi la grande nefandezza della seconda guerra mondiale con i bombardamenti aerei, i lutti, la guerra civile, l’occupazione nazista. Di nuovo tutto finisce e si ricomincia daccapo facendo finta di dimenticare. Qualche anno di tranquillità e poi la malattia crudele, il morbo di Parkinson. La decadenza fisica progressiva, il tremore incontrollato e alla domanda del piccolo Marcello che chiede angosciato “nonno che hai?” la risposta è sempre uguale” in trincea sono stato per tre anni nel gelo e nel fango. Tutto deriva da ciò”. Nel frattempo si era trasferito in un altro quartiere, Monteverde. La morte lo coglierà in Via Giacinto Carini n. 66, il 30 aprile 1953.

Giulio riposa nella tomba di famiglia al Cimitero del Verano.

Marcello ricorda quando Giulio gli diceva “sai, insieme ad altri ho fondato la Lazio”. E c’era orgoglio nelle sue parole.
Marcello è Laziale. E’ sempre andato alle partite, accompagnato fin da bambino dallo zio Alfredo Torchio. Ricorda la Rondinella e ha visto il Grande Torino fermato allo stadio Nazionale da una splendida Lazio. Quando ci ha consegnato le foto inedite originali del nonno, nessuno possedeva una foto di Giulio e LazioWiki le ha pubblicate per prima in esclusiva, gli estensori di queste note hanno visto una piccola immagine a colori tra esse. Era una figurina della Lazio dello scudetto 1973/74. Marcello l’aveva conservata tra i ricordi più cari, le fotografie dell’amatissimo nonno Giulio. Quasi un segno di continuità perenne tra chi fondò quel miracolo chiamato Lazio e una splendida Lazio Campione d’Italia. L’ideale che non muore, insomma.

A proposito, Marcello Lefevre abita all’inizio di Viale delle Milizie. Non c’era alcun dubbio che il legame d’amore non si spezzasse. Ancora Prati, ancora il contorno di Piazza d’Armi, ancora il Tevere. La storia che si ripresenta, anche dopo centoundici anni. E chi dice che è un caso non sa niente di Lazio e della sua malia.
 “Nonno, raccontami qualche tua gara”. “E che ti devo raccontare? Una volta in Viale delle Milizie ero in testa nella gara di corsa. Vengo superato dal mio avversario in maglia giallorossa. Ma si stava facendo trasportare da un carretto a triciclo e ha vinto lui”. “Ma nonno, non lo hai detto ai giudici?”. “E a che serviva? Lui ha vinto la gara con l’inganno e stanotte non sarà contento. Io sono arrivato secondo con le mie forze e so chi è il più forte.”

 E qualcuno ancora nega l’esistenza di un particolare modo di vivere la vita e lo sport: la Lazialità.

Panzabianca

Re:SEBASTIANO FANTE ITALIANO
« Risposta #231 : Lunedì 1 Ottobre 2018, 14:36:55 »

E qualcuno ancora nega l’esistenza di un particolare modo di vivere la vita e lo sport: la Lazialità.

vince Arch per knock-out emozionale!

(chiudemo i giochi)  :lingua:

Offline Frusta

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Re:SEBASTIANO FANTE ITALIANO
« Risposta #232 : Lunedì 1 Ottobre 2018, 15:52:42 »
...ero in testa nella gara di corsa. Vengo superato dal mio avversario in maglia giallorossa. Ma si stava facendo trasportare da un carretto a triciclo...
 8) Un centesimo per ogni volta che si è ripetuta questa storia e la fame nel modo sarebbe un problema risolto.
Lazio, ti amo con tutta la feniletilamina, l’ossitocina, la dopamina e la serotonina che mi circolano nel cervello, che rendono il mio pensiero poco logico e che mi procurano strane sensazioni in tutta l’anatomia e battiti sconclusionati nell’organo principale del mio apparato circolatorio.

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Re:SEBASTIANO FANTE ITALIANO
« Risposta #233 : Lunedì 1 Ottobre 2018, 16:29:46 »
Grazie Arch, in questi giorni così turbolenti (si fa per dire) una boccata di vera Lazialità ci voleva proprio.
Ennamo!!!

 :asrmstend: :bandcap1:
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Re:SEBASTIANO FANTE ITALIANO
« Risposta #234 : Martedì 2 Ottobre 2018, 23:42:23 »
[Di come, dopo il dramma della seconda guerra mondiale e la caduta del fascismo, la gente tornò alla lotta di classe, a fare festa e ad amare]



I ‘baffoni’ contro quelli della Croce

L’Abruzzo che usciva dalla seconda guerra mondiale era una regione in ginocchio, con paesi ridotti in macerie, ponti distrutti e mancanza di energia elettrica. Nei nostri villaggi il colore più frequente era il nero delle donne in lutto, ed in mezzo a tale tragedia la provincia più disastrata era proprio quella di Chieti, coi suoi vigneti devastati e il bestiame quasi completamente distrutto .
Villa Scorciosa -come gran parte dei villaggi meridionali- somigliava al paese di “Pane amore e fantasia” (film realmente ispirato alla vita post-bellica di Palena, in provincia di Chieti) con la popolazione alla ricerca di normalità dopo tante sofferenze (1). I contadini tornarono a seminare gli orti nelle vallate, molte donne si avventurarono fino in Piemonte per lavorare nelle risaie, mentre quelle più capellute si guadagnavano qualche soldo vendendo i propri capelli a Giovanni lu cingiare, che li utilizzava per farne parrucche.
Qualche aiuto veniva dagli americani, che con le loro navi ci spedivano vestiti usati e prodotti alimentari (specialmente una terribile farina di piselli che gran parte degli scorciosani non ebbe mai il coraggio di mangiare), ma gli Stati Uniti furono chiari: quegli aiuti sarebbero cessati se gli italiani avessero votato i comunisti nelle imminenti elezioni politiche del 1948. Quell’anno a Villa Scorciosa la battaglia elettorale tra P.C.I e DC fu asprissima, quasi un duello tra il diavolo e l’acqua santa: i comunisti, chiamati ‘baffoni’ e guidati da Peppino di Fusille, raccoglievano le simpatie dei mezzadri e dei contadini più poveri; i democristiani (‘quelli della Croce’), con a capo Angiolino Brighella, avevano invece l’appoggio dei piccoli e medi proprietari, oltre di coloro –ed erano tanti- che votavano la “Croce’ per non dispiacere a Dio. Ma a Villa Scorciosa non mancavano neppure i nostalgici del vecchio regime, personaggi come zì Filippo Amoroso, di simpatie monarchiche, e Domenico di Pizzacalla, indomito fascista che disturbava i comizi urlando a tutta voce: “Meglio Mussolini e la Petacci che questa repubblica di pagliacci!” .
Nello scontro politico di quegli anni, a Villa Scorciosa ogni mezzo per distruggere la credibilità dell’avversario divenne lecito: i democristiani accusavano i comunisti di immoralità e durante un comizio il loro oratore arrivò a gridare: “Non votate Antonio Rotondo perché è un concubino!” (2). I toni apocalittici della propaganda creavano anche situazioni grottesche come nel caso di Giovannino di Fatarelle, nullatenente che viveva in una stamberga diroccata, e che ciò nonostante incitava gli scorciosani a votare D.C. “perché se vincono i comunisti ci portano via tutta la robba!”. In quanto ad esagerazioni, però, anche i simpatizzanti del P.C.I. non scherzavano: l’anziana e combattiva zà Menga assicurava che in caso di vittoria comunista sarebbe nata una specie di 'Repubblica sovietica scorciosana', nella quale i terreni di don Luigi Lotti sarebbero stati spartiti fra tutti i contadini.


Voglia di vivere

In questo clima politico infuocato, quando il 18 aprile 1948 si andò finalmente alle urne, gli ‘avvertimenti’ degli americani e le lacrime di tante Madonne -preoccupate per il pericolo comunista- convinsero gli scorciosani a votare in maggioranza per la Democrazia Cristiana. Le sinistre furono sconfitte alle elezioni, ma si presero una parziale rivincita conquistando una riforma agraria che migliorò i contratti dei mezzadri ed abolì l’odiosa consuetudine delle regalie ai padroni. Colpiti nei loro privilegi, molti proprietari preferirono allora vendere la terra ai propri socci, e così nell’arco di pochi anni il sistema della mezzadria tramontò definitivamente .
Ma in quel periodo –oltre alla passione politica- gli scorciosani riscoprirono anche la voglia di vivere e divertirsi: nel giorno di S. Antonio e a Carnevale la piazza diventava scenario per spettacoli in maschera o di duelli rusticani tra santi e demoni (3). Alcuni giovani con indole più artistica crearono pure una compagnia teatrale, che si esibiva con grande successo nella chiesa parrocchiale in opere come La Carmen o La Cieca di Sorrento. Nelle ricorrenze festive la voglia di vivere si manifestava anche a tavola dove –una volta tanto- la carne sostituiva il solito piatto di pizza e fuojie. Nel giorno di San Rocco il pranzo era seguito dalla cerimonia del ‘dono’, antichissimo rito di ringraziamento per la mietitura, nel corso del quale le vie del paese erano attraversate da un pittoresco corteo di donne con le loro conche piene di grano da offrire al Santo (4).
Ma la festa più popolare era sicuramente quella in onore della Madonna delle Grazie, che si svolgeva in aprile per propiziare un raccolto abbondante. Questa festa si apriva con la processione, a cui seguiva l’esibizione della banda musicale di Lanciano. Poi, nel pomeriggio, la piazza si riempiva di bancarelle, tra le quali non poteva mancare quelle di zà Teresa ‘la lupinara’ col suo tino traboccante di lupini, o quella di Lionello che offriva prelibati gelati fatti a mano. Il ballo serale avveniva in una piazza illuminata dalle mille lampadine della Casciarmonica, fantasmagorico palco a cupola sul quale si esibivano l’orchestra musicale e soubrette maliziosamente scosciate. Ed infine –quando arrivava mezzanotte- il cielo del paese veniva colorato da un meraviglioso fuoco pirotecnico che ipnotizzava i presenti ed annunciava la chiusura della festa (5).


Strani amori

Le feste di paese erano anche occasione per approcci amorosi tra ragazzi e giovinette, che avvenivano con timidi sguardi scambiati durante la messa. I corteggiamenti continuavano durante le feste organizzate nelle case private dove, con la complicità di un organetto, le coppie potevano fare qualche giro di ballo, ma senza stringersi troppo e sotto l’occhio vigile dei parenti (6). I ragazzi più romantici, per dichiarare il loro amore, donavano alle ragazze lu ramajette (un saccottino di vimini contenente fiori o un po’ di mentuccia profumata). I più audaci, invece, usavano il metodo del ‘tecchio’: di notte, l’innamorato lasciava un ciocco di legno davanti la casa della ragazza; la mattina dopo, trovato il ciocco davanti alla porta, il padre chiedeva in giro: “Chi ha ‘nticchiate la fija mé?”, e a quel punto lo spasimante era obbligato a dichiarare le proprie intenzioni alla famiglia dell’amata.
Come nei grandi romanzi d’amore, spesso queste storie erano ostacolate dai rancori tra famiglie o da pregiudizi sulla moralità della donna. E così, quando una ragazza era respinta nelle sue pretese amorose, esprimeva la sua rabbia con velenosi ‘canti a sospetto’ che prendevano di mira le indecisioni del moroso (“Chi va facenne s’ommine senza moje, mi pare n’asinell senza cappezza”) o le interferenze delle future suocere, che spesso anteponevano i calcoli economici alle esigenze dell’amore, ‘bocciando’ le ragazze con dote troppo povera. Ed in questi casi la fidanzata respinta cantava al ragazzo, perché suocera intendesse: “Vatt’a fa accide a te e alla robba te, mammete non ha piacere che tu pija a me”.
Di fronte all’opposizione dei genitori, l’unica soluzione era fare la ‘fuitina’ a cui seguivano le nozze riparatrici, celebrate non sull’altare ma in sagrestia, in segno di penitenza per il comportamento ‘immorale’ degli sposi. A Villa Scorciosa i preparativi del matrimonio erano lunghi e complicati: bisognava stabilire il numero degli invitati, la scelta dei compari di anello e –soprattutto- l’entità della dote femminile, che era oggetto di lunghe contrattazioni tra le famiglie degli sposi. Norme molto complicate regolavano anche la celebrazione delle nozze, che avvenivano secondo la tradizione del ‘matrimonio in due tempi’: prima si celebrava il rito civile, seguito da un lungo periodo –anche anni- in cui gli sposi potevano incontrarsi solo in presenza dei parenti. Alla fine si arrivava al rito religioso, e la coppia poteva finalmente andare a convivere e consumare il matrimonio . Questa usanza, che può apparire stravagante, in realtà serviva a garantire l’onorabilità delle donne perché spesso, dopo il rito civile, i mariti partivano per il servizio di leva o verso l’estero per lavorare, e si voleva evitare che la lontananza spingesse i maschi a qualche tentazione o addirittura ad un ripensamento. Per molte donne il matrimonio rappresentava solo il passaggio dalla soggezione al padre a quella del marito, ma nonostante ciò le ragazze si sposavano il prima possibile, perché rimanere zitelle era una vergogna che screditava tutta la famiglia (7). Per le scorciosane più sfortunate –quelle che a venti anni erano ancora senza marito- si ricorreva all’opera di Gasperino Camicia, un sensale capace di trovare rimedio pure per i casi più disperati. A queste ragazze Gasperino offriva possibilità di matrimonio con uomini dei paesi vicini ma anche del nord Italia, ed in questo caso le donne venivano ironicamente definite “piccioli pi ‘rritt” (cioè paragonate ai grappoli d’uva dritti nelle cassette che venivano esportate verso mercati lontani).
C’erano infine i casi drammatici di donne non sposate che rimanevano incinte, in un’epoca in cui la condizione di ragazza-madre era la più vergognosa fra tutte. Nel caso di Viola, ragazza molto orgogliosa, il dramma si trasformò in tragedia: l’uomo che l’aveva messa incinta, Cicco, rifiutava di sposarla e così la ragazza per salvare il proprio onore uccise l’amante con un colpo di pistola. Consumata la vendetta, Viola si consegnò ai Carabinieri, partorì in carcere e affrontò con grande dignità il processo, diventando così l’eroina ‘proto-femminista’ delle donne scorciosane.




NOTE
1) Il film Pane amore e fantasia, diretto da Luigi Comencini, fu sceneggiato da Ettore Maria Margadonna, uno dei più grandi uomini di cinema italiani, nato a Palena nel 1893. E proprio alla vita post-bellica di Palena questo film è ispirato, anche se le riprese vennero girate nel paesino laziale di Castel S. Pietro. L’attività di sceneggiatore portò Margadonna a lavorare in molti altri film di successo, nel filone del ‘realismo rosa’. Tra questi film ricordiamo Pane amore e gelosia, Pane amore e Andalusia, Tuppe tuppe Marescià, Due soldi di speranza, La bella di Roma, Il viale della speranza. Nel 1952 Margadonna ottenne il Nastro d’argento alla migliore sceneggiatura con il film Due soldi di speranza, mentre nel 1955 fu candidato al premio oscar per la sceneggiatura di Pane, amore e fantasia.
2) Antonio Rotondo fu militante comunista e ricoprì il ruolo di segretario della sezione PCI di Villa Scorciosa (che aveva sede nei locali dell’attuale Dopolavoro) negli anni ’50 e ’60. L’episodio riportato avvenne in occasione della campagna elettorale del 1959: durante un comizio a Villa Scorciosa, il dirigente democristiano Nicola Toscano accusò Rotondo di concubinaggio perché il segretario comunista aveva sposato una donna di Villa Scorciosa, Concettina, la quale aveva il primo marito disperso durante la guerra d’Albania. Antonio Rotondo querelò Toscano, e la causa legale ebbe termine dopo qualche anno grazie ad un amnistia per quel tipo di reato.
3) Nel giorno di S. Antonio, nella piazza del paese avveniva la rappresentazione in maschera del duello tra il Santo e il Demonio. Dopo la rappresentazione, i partecipanti giravano per il paese chiedendo ad ogni famiglia un dono in cibo. Tale questua era una tradizione di origine molto antica, legata al fatto che fin dal medio evo per curare l’ergotismo (detto anche ‘fuoco di S. Antonio’), si usava spalmare grasso di maiale sul corpo dei malati. Ogni comunità allevava un maiale da cui si otteneva il grasso medicamentoso (oltre alla carne per fare un banchetto) e la questua era finalizzata proprio a raccogliere il cibo necessario al mantenimento di questo animale. (Cfr. L. GIANCRISTOFARO, Folklore abruzzese).
4) Fino dai tempi arcaici il ‘dono’ ha svolto un fondamentale ruolo per la coesione delle comunità contadine. Questo rito, infatti, aveva scopo propiziatorio o di ringraziamento verso le divinità per il raccolto agricolo. Lo scambio di doni avveniva anche tra parenti in occasione di battesimi, matrimoni e cerimonie funebri (con il consolo offerto alla famiglia del defunto). Una forma di dono può essere considerato pure lu lomme, cioè le parti del maiale che venivano regalate ai parenti quando si uccideva l’animale. Nelle comunità contadine contrassegnate dalla precarietà economica, lu lomme era un modo per rafforzare i vincoli di solidarietà parentale e comunitari. (Cfr. M. MAUSS, Saggio sul dono).
5) La Cassa armonica (‘casciarmonica’ in dialetto) era un palco rotondo sormontato da una cupola sul quale si esibiva una orchestra e che veniva montato nel giorno della festa. Spesso nelle feste di paese la musica dell’orchestra serviva da accompagnamento per i balli che si svolgevano in piazza. Riguardo all’usanza dei fuochi pirotecnici nelle feste di paese, essa deriva probabilmente dalla antica credenza che il rumore, incutendo terrore a streghe, spiriti e diavoli, avesse la capacità di allontanare il loro influsso maligno dalla comunità. (Cfr. L. GIANCRISTOFARO, Folklore abruzzese – dai modelli del passato alla postmodernità).
6) Nella cultura abruzzese i sentimenti d’amore sono sempre stati espressi con grande pudicizia e sobrietà. Nel nostro dialetto, ad esempio, non esiste il verbo ‘amare’, ma fra innamorati si usa dire: “Ti voje bbene”. All’interno delle società contadine l’ideale della bellezza femminile era rappresentato dalla donna “in carne”, e questo era dovuto al fatto che fin dall’antichità la donna ‘abbondante’ è stata il simbolo della fertilità procreativa e della capacità lavorativa. Le calorie accumulate in eccesso consentivano inoltre la sopravvivenza nei periodi di carestia, e i banchetti festivi servivano proprio per favorire questo accumulo di energie. (Cfr. M. HARRIS, La nostra specie).
7) Nelle comunità contadine, per le ragazze l’obbligo di sposarsi era un dovere ‘morale’, perché all’interno di quelle società esse avevano il compito fondamentale di riprodurre la forza-lavoro sfornando figli in continuazione, e per questo motivo rimanere zitelle o essere infeconde erano considerati una “colpa”.
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Offline Frusta

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Re:SEBASTIANO FANTE ITALIANO
« Risposta #235 : Mercoledì 3 Ottobre 2018, 23:27:09 »
Caro Leo questo profumo di anni cinquanta che sa di Peppone e don Camillo non puoi immaginare a cosa mi riporta.
Il mio nonno materno, come ho già detto altrove, è stato fra i fondatori della sezione del PCI di Acilia, e da ragazzino ricordo che lì dentro si respirava solidarietà, onestà, buonafede, desiderio di giustizia e di uguaglianza e di speranza sul fatto che un mondo migliore non solo ci potesse essere, ma ci DOVEVA essere.
Poi succede che il Potere si impadronisce di chi lo combatte, la lotta finisce lì, e o passi dalla parte opposta del Potere o diventi funzionale al medesimo, addirittura credendo di combatterlo.
Nel 1945, in solo 112 pagine, Orwell aveva profetizzato tutto quello che sarebbe accaduto nei 70 anni successivi.
Anzi, nei 73, dato che siamo nel 2018 :)

Lazio, ti amo con tutta la feniletilamina, l’ossitocina, la dopamina e la serotonina che mi circolano nel cervello, che rendono il mio pensiero poco logico e che mi procurano strane sensazioni in tutta l’anatomia e battiti sconclusionati nell’organo principale del mio apparato circolatorio.

Panzabianca

Re:SEBASTIANO FANTE ITALIANO
« Risposta #236 : Giovedì 4 Ottobre 2018, 09:17:34 »
Caro Leo questo profumo di anni cinquanta che sa di Peppone e don Camillo non puoi immaginare a cosa mi riporta.
Il mio nonno materno, come ho già detto altrove, è stato fra i fondatori della sezione del PCI di Acilia, e da ragazzino ricordo che lì dentro si respirava solidarietà, onestà, buonafede, desiderio di giustizia e di uguaglianza e di speranza sul fatto che un mondo migliore non solo ci potesse essere, ma ci DOVEVA essere.
Poi succede che il Potere si impadronisce di chi lo combatte, la lotta finisce lì, e o passi dalla parte opposta del Potere o diventi funzionale al medesimo, addirittura credendo di combatterlo.
Nel 1945, in solo 112 pagine, Orwell aveva profetizzato tutto quello che sarebbe accaduto nei 70 anni successivi.
Anzi, nei 73, dato che siamo nel 2018 :)

vero. Purtroppo vero

Offline leomeddix

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Re:SEBASTIANO FANTE ITALIANO
« Risposta #237 : Giovedì 4 Ottobre 2018, 09:48:06 »
Poi succede che il Potere si impadronisce di chi lo combatte, la lotta finisce lì, e o passi dalla parte opposta del Potere o diventi funzionale al medesimo, addirittura credendo di combatterlo.
Nel 1945, in solo 112 pagine, Orwell aveva profetizzato tutto quello che sarebbe accaduto nei 70 anni successivi.
Anzi, nei 73, dato che siamo nel 2018 :)

Caro Frusta, non solo Orwell, ma prima di lui tanti scrittori hanno elaborato una visione pessimistica dell'uomo e dei suoi rapporti col potere. Basti pensare a Simone Weil e al suo invito a "essere sempre pronti a mutare di parte come la giustizia, questa fuggiasca dal campo dei vincitori", oppure ad Ignazio Silone, secondo il quale chi veramente cerca giustizia non può stare dalla parte del Potere.
L'Uomo è un animale strano, capace di raggiungere le più alte vette intellettuali ma anche il grado maggiore di ferocia e di abiezione. La sua "volontà di vivere" (cioè, in fondo, di sopraffazione e di inganno) è connaturata al suo animo, e per raggiungere i suoi scopi è capace di rinnegare i suoi principi, vendere sua madre, tradire i suoi compagni di lotta. E nonostante su questo punto avesse ragione Schopenhauer, io continuo testardamente a restare marxista e a sperare che un giorno usciremo dal nostro stato di animalità, continuando a credere che un giorno arrivi "l’ora che all’uomo un aiuto sia l’uomo" (Brecht dixit).


P.s.
Proprio Silone, uno dei miei narratori preferiti (soprattutto perché molto abruzzesemente tiene legato le parole alle cose, evitando voli retorici che tendono ad ingannare) è uno degli esempi massimi dell'ambivalenza umana. Silone amava i cafoni di Fontamara, fu dirigente comunista di primo livello, eppure "tradì" i suoi cafoni e i suoi compagni di lotta, esercitando per molti anni il ruolo di informatore della Polizia. Anche lui, in fondo , era un uomo.
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Offline Arch

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Re:SEBASTIANO FANTE ITALIANO
« Risposta #238 : Giovedì 4 Ottobre 2018, 11:24:39 »
Quanto è vero ciò che scrivi, Leo. Mai stare dalla parte del Potere. Il potere applica le leggi, ma non la giustizia. Maximum ius maxima iniuria.
Tra i personaggi che avevano una visione pessimistica del rapporto uomo/potere mi piace ricordare anche Cesare Pavese.

Offline leomeddix

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Re:SEBASTIANO FANTE ITALIANO
« Risposta #239 : Giovedì 4 Ottobre 2018, 14:16:18 »
Tra i personaggi che avevano una visione pessimistica del rapporto uomo/potere mi piace ricordare anche Cesare Pavese.

Hai ragione Arch, anche Pavese. Forse vado OT, ma è giusto ricordare che l'Italia -con Machiavelli- può considerarsi la patria della moderna concezione scettica sull'uomo e sui suoi rapporti col potere. Machiavelli, finissimo conoscitore dell'animo umano, per primo distinse nettamente la politica della morale. Per lui gli uomini sono "ingrati, volubili, simulatori, cupidi di guadagno", spinti dall'ambizione e avidi di potere. Per cui, chiunque volesse reggere uno Stato, dovrebbe abbandonare ogni immagine ideale degli uomini perché, come più tardi sintetizzò il grande filosofo Giorgio Bracardi, "L'uomo è una bestia".




Torno un attimo sulle parole di Frusta:

Poi succede che il Potere si impadronisce di chi lo combatte, la lotta finisce lì, e o passi dalla parte opposta del Potere o diventi funzionale al medesimo, addirittura credendo di combatterlo.

E' vero quello che scrivi, ma la coscienza della capacità anestetica, rincoglionente, del Potere non deve significare rassegnazione o, peggio, incapacità di distinguere tra i vari tipi di potere. Oggi nel mondo Occidentale si vive una condizione di formale libertà, che non significa piena libertà, ma credo che nessuno di noi preferisca vivere come servo della gleba in qualche masseria feudale. Ecco perché continuo a predicare indulgenza verso chi, nel corso dei secoli, ha lottato contro il Potere (commettendo pure parecchi errori) e anche verso chi "ha creduto di combatterlo". La Storia è andata avanti anche pure grazie a loro.
(Che poi -se vogliamo essere scettici fino in fondo- dobbiamo anche valutare se il grado di "felicità" degli uomini sia veramente aumentato dal medioevo ad oggi, ma su questo me ne lavo le mani. In caso, chiedete chiarimenti a Schopenhauer  :D)

Scusate per l'OT. Oggi a Bologna non si lavora, è la festa del Patrono, San Petronio. Ho un po' di tempo libero e così ho pensato di molestare il gruppo SFI con qualche cazzata. Credo di esserci riuscito  :icon_biggrin:
 
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