Autore Topic: SEBASTIANO FANTE ITALIANO  (Letto 57855 volte)

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Offline Ataru

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Re:SEBASTIANO FANTE ITALIANO
« Risposta #140 : Mercoledì 19 Settembre 2018, 09:52:38 »
E poi, dovendolo pagare, gli ho fornito il link che segue: www.biancocelesti.org

 :P Sappiatemi dire.

ho appena cacciato una pensando che fosse una testimone di geova... postare prima no, eh?
osa c'è da psicolo propriono capisco.
qui sono un esempio di civilità e non solo per molti

Panzabianca

Re:SEBASTIANO FANTE ITALIANO
« Risposta #141 : Mercoledì 19 Settembre 2018, 09:56:44 »
"...Da secoli l' umanità si è fatta le seghe mentali più strampalate sul sesso degli angeli e mai nessuno che si sia chiesto qualcosa su quello dei diavoli".

ah ah ah ah. Vero.

Surreale, onirico, non conforme, divertente. (ho intercalato con degli ah ah ah).
Quanto alla scrittura, bè, godo pure io nel leggerti.

Panzabianca

Re:SEBASTIANO FANTE ITALIANO
« Risposta #142 : Mercoledì 19 Settembre 2018, 09:58:31 »
ho appena cacciato una pensando che fosse una testimone di geova... postare prima no, eh?

 :lol:

Offline Arch

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Re:SEBASTIANO FANTE ITALIANO
« Risposta #143 : Mercoledì 19 Settembre 2018, 10:35:38 »
Mi state facendo strippare!  Solfurei, criptici, saturnei e tutti godibili. Bravi amici. Per quel che riguarda la trascrizione della lingua romana mi permetto di consigliarvi i romanzi di Giovanni Ricciardi. Egli, professore di greco e latino, ha compiuto lunghi e dottissimi studi sull'argomento e i risultati li ha applicati, appunto, nei suoi libri. Sono noir originali e colti e fuori dei canoni consueti. Diventeranno una serie televisiva. Ve li consiglio caldamente.

Panzabianca

Re:SEBASTIANO FANTE ITALIANO
« Risposta #144 : Mercoledì 19 Settembre 2018, 11:50:48 »
P.N.R.
Prima parte

Era l'alba del '71 quando Jack, nome in codice: J-a-c-k Bravo Quebec Quebec Chissà Chissà, atterrava nel mare della tranquillità insieme ai compagni, John, nome in codice: J-o-h-n Se va, Se va, Alpha Charlie, e Tom, nome in codice: Chrysler, i.e. Vendesi 127 usata prezzo modico. La loro era una missione segreta, no Mercury, no Gemini, no Apollo. La loro era una missione senza nome. Qualcuno in Florida, forse gli esuli cubani, gli stessi della Baia dei Porci, aveva sussurrato che i Russi potessero essere andati sulla luna per rubare la bandiera. Già, un vecchio gioco tipico della guerra fredda. A quell'epoca, anche in Italia, da Rimini a Castellammare, c'erano campi di addestramento ovunque. Dal Controllo Missione muoveva i fili la donna delle pulizie che per motivi di sicurezza nazionale non li chiamava mai per nome. Un "ehi voi lassù" o un laconico "oh" era il massimo che Jack, John e Tom potessero aspettarsi, pietrificati solo all’idea che lei spingesse qualche bottone. Quei tre dovevano andare e tornare con le loro forze. A Houston c'era solo un registratore che ripeteva a loop: "ragazzi, it’s ok, l'ultimo che esce spegne tutto" E lassù niente Lem, niente trabiccolo lunare, niente bandiera e nessuna telefonata del Presidente. Solo la gestione dello stupor muto e del conseguente ritorno nell'anonimato. Avrebbero passeggiato sulla Luna senza poterlo dire a nessuno. "A differenza di Apollo 13, le cose sono andate meravigliosamente…" così il bruscolinaro di Cape Kennedy. E, in effetti, la bandiera yankee non c'era più, al suo posto però non già la bandiera sovietica ma uno strano vessillo con su scritto "Fiaschetteria palle d'oro. Panini ignoranti e vino. Ordina e ti raggiungeremo ovunque". Jack non si scompose e ordinò. Voleva andare in fondo a questa storia. E poi era stufo di barrette energetiche ed alimenti liofilizzati del suo 'secret moon kit cat'. Sembra impossibile ma da lì a 10 min. da un cratere spuntó uno strano individuo su una sponsorizzatissima bicicletta Graziella. Pancia ad anfora greca, volto istoriato, occhi insonni e sigaretta anti-gravità, il tizio, disinvolto, cominciò a distribuire: "Allora, tonno e cipolla?"

(La seconda parte non c’è, o meglio, c’è ma me vergogno  :sdent:).

Offline Holly

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Re:SEBASTIANO FANTE ITALIANO
« Risposta #145 : Mercoledì 19 Settembre 2018, 13:36:59 »
Per quel che riguarda la trascrizione della lingua romana mi permetto di consigliarvi i romanzi di Giovanni Ricciardi. Egli, professore di greco e latino, ha compiuto lunghi e dottissimi studi sull'argomento e i risultati li ha applicati, appunto, nei suoi libri. Sono noir originali e colti e fuori dei canoni consueti. Diventeranno una serie televisiva. Ve li consiglio caldamente.

Cosa mi hai ricordato Arch  O:-)
Incontrai il commissario Ponzetti ormai 10 anni fa nel libro d'esordio "I gatti lo sapranno", attirata inevitabilmente dal titolo  ;D

Mi piacque (c'è qualcosa di gaddiano nella prosa, ma più colloquiale, più informale, seppure con la stessa modalità di indagine tramite i risvolti psicologici che emergono dai colloqui con i potenziali colpevoli) ma non diedi seguito alle letture uscite successivamente, cercherò di rimediare.

E comunque il mio cervello ha fatto subito l'associazione (nome + genere) con il commissario Ricciardi, che è il protagonista di alcuni romanzi di Maurizio De Giovanni, ottimo giallista napoletano, più conosciuto per la saga dei Bastardi di Pizzofalcone, che con le storie di Ricciardi non c'entra nulla. Bellissima figura di poliziotto anche questa, e già che siamo in vena di consigli... lo consiglio  :)

Offline Arch

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Re:SEBASTIANO FANTE ITALIANO
« Risposta #146 : Mercoledì 19 Settembre 2018, 14:40:49 »
Ebbene cara Holly, Giovanni Ricciardi ha scritto altri 7 romanzi, con protagonista il commissario Ponzetti, di qualità superba. Ha vinto un'infinità di premi e leggerlo arricchisce l'anima. Vorrei non dirlo ma l'ispiratore di diverse sue storie sono indegnamente io (mi cita sempre nei ringraziamenti). È il mio più  caro amico e se vuoi possiamo andare a prenderci, naturalmente con il tuo strisciato,☺ una pizza.

Panzabianca

Re:SEBASTIANO FANTE ITALIANO
« Risposta #147 : Mercoledì 19 Settembre 2018, 14:48:48 »
...Vorrei non dirlo ma l'ispiratore di diverse sue storie sono indegnamente io (mi cita sempre nei ringraziamenti).

Mitico. Prima o poi famola sta cena


Offline Arch

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Re:SEBASTIANO FANTE ITALIANO
« Risposta #148 : Mercoledì 19 Settembre 2018, 14:56:14 »
E famosela!!😊

Offline leomeddix

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Re:SEBASTIANO FANTE ITALIANO
« Risposta #149 : Mercoledì 19 Settembre 2018, 18:16:05 »
Io sono amico del Commissario Arch :chapeau:.
È GIÀ SETTEMBRE ? NON CI POSSO CREDERE! LA MIA VITA STA PASSANDO TROPPO VELOCE. LA MIA UNICA SPERANZA È CHE SI VADA AI TEMPI SUPPLEMENTARI. (CHARLES M. SCHULZ)

Offline Arch

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Re:SEBASTIANO FANTE ITALIANO
« Risposta #150 : Mercoledì 19 Settembre 2018, 18:22:27 »
No, Leo, non gli ho ispirato il personaggio, ma le atmosfere e i luoghi :)
E adesso sorbitevi una storia inerente i sentimenti, la memoria e le emozioni. I cinici sono autorizzati a ignorare :'(.


IL GIRO DELLE RONDINI.

La guerra non era finita da molto, ma quei bambini nati subito dopo il conflitto non si rendevano conto della tragedia che il mondo, l’Italia, Roma avevano vissuto. Le loro giornate scivolavano serene tra la scuola, lo studio e i giochi pomeridiani per strada. Partite di pallone sui lucidi e grigi sampietrini, nascondino, corse intorno ai palazzi, battaglie con le spade di legno. Pochi i soldi in famiglia, latte e pane per colazione, pasta per pranzo, uova e verdura per cena. La carne solo la domenica. Per bere attingevano la fresca acqua dalla fontanella all’angolo della via, che per essi era come la Fons Bandusia per Orazio. Rigorosa assenza di frigorifero e lavatrice nelle abitazioni.

  Ma non ci si lamentava di certo. Le ginocchia sempre sbucciate per le frequenti cadute, un codice dell’amicizia che non ammetteva deroghe od omissioni. Lealtà e sincerità regolavano i rapporti tra quei piccoli scalmanati. Quei ragazzini erano nel pieno della loro pubertà, diversa da quella “Pubertät” che il grande Munch ci ha scagliato dritta nel cuore come una coltellata, ma pur sempre un’età di incertezze, timori, ansie, inquietudini. Si stava lasciando il territorio incontaminato della fanciullezza per giungere alla consapevolezza che un’età stava per concludersi definitivamente. I problemi veri si palesavano con maggiore evidenza, la scuola diventava più impegnativa, qualcuno sapeva che presto sarebbe andato a lavorare, qualche nonno moriva e le automobili cominciavano a essere troppe per giocare tranquillamente al calcio nella strada. Si incontravano ormai soltanto la sera e spesso solo per andare a comprare insieme il latte al baretto dietro l’angolo. Poi a casa ascoltavano la radio perché nessuno possedeva la TV.
 
Poi un pomeriggio di primavera, poteva essere il 1959 o il 1960, mentre sui due programmi della radio imperversavano Only you dei Platters e What a sky di Nico Fidenco, una fanciullina biondo- varechina con il viso da gatta e gli occhi blu di Persia, fece la sua comparsa nella via. Mai vista prima. Ma chi sarà? Da dove viene? Perché va a comprare il latte con un gattino bianco tra le mani? Come si permette di passare nella nostra strada?
La decisione fu immediata.  Con voce ferma: come ti chiami? Dove abiti? Quanti anni hai? Perché parli male l’italiano? Mi chiamo Cecilia, abito in quel palazzo all’ultimo piano, 10 anni, sono della Norvegia.
Fu così che Cecilia divenne amica di Giacomo, Corrado, Luciano, Fabio. Aspettavano con ansia che uscisse di casa per accompagnarla dal lattaio e le facevano mille domande. Il suo essere straniera li incuriosiva. Il suo austero papà incuteva soggezione e poi possedeva una Lancia Appia  blu 3^ serie bellissima. Anche i due fratelli, altissimi, di Cecilia erano percepiti come custodi-dioscuri implacabili. Ragazzini di strada di San Giovanni avevano la loro “Principessa” da scortare e proteggere. La facevano vincere nei giochi e si avevano verso di lei mille riguardi.  Sui quaderni di scuola ognuno di loro disegnava la bandiera rossa, con una croce asimmetrica azzurra bordata in bianco.

Nessuna gelosia tra i quattro ragazzini e lei era interessata a loro come insieme e mai singolarmente. Le malizie dei grandi erano loro ignote. Evitavano, in sua presenza, persino di dire le parolacce, che costituivano il 50% del loro vocabolario. La riempivano di doni: coltellini dal manico smaltato, figurine degli animali, biglie. Persino uno scudettino della loro comune squadra del cuore: la Lazio. E questa fu decisamente la rinuncia più dolorosa, ma certamente più significativa.



Tutto questo  durò per poco, purtroppo. La bambina sparì improvvisamente ed essi non seppero mai dove fosse andata. La fine di un sogno. La fine di un periodo felice. Rimase il ricordo della sua grazia vivace e dell’amicizia che aveva concesso. La sua partenza segnò il discrimine tra la fanciullezza e la piena adolescenza.

Via San Quintino divenne più triste nonostante si sentissero i primi effetti di quel miracolo economico che prometteva benessere e che attenuò negli adulti il terribile ricordo della guerra. Qualcuno cambiò casa andando nelle abitazioni più comode e confortevoli della periferia, ma infinitamente più anonime, prive di anima e senza le rondini che tutta l’estate giravano incessantemente intorno a quei graziosi villini costruiti nel 1925 e  che costituivano la tipologia abitativa prevalente di quella piccola via.
 
Presero la vita di petto. Non c’era tempo per farsi troppi problemi. Le loro famiglie erano modeste ed essi dovevano impegnarsi per progredire. Dopo le scuole medie il liceo e per qualcuno l’Università. Per altri il lavoro. Corrado divenne un assicuratore, Luciano venditore in una concessionaria di automobili, Fabio architetto, Giacomo, piccolo e surreale genio della matematica, si laureò in ingegneria.

 Non si rividero più. Si pensarono sempre.

Per essi Via San Quintino rimaneva per sempre il loro Eden. Quando più duri si presentavano i problemi, quando più i tormenti e i dolori esistenziali laceravano l’anima, ognuno di loro, ma questo se lo sono detti rincontrandosi su facebook molto più tardi, si recava lì. Una funzione catartica, capace di placare con la memoria di un’epoca gioiosa il dramma di essere uomini. Il caro ricordo dei volti e delle espressioni di chi non c’era più. I conti con se stessi e con la vita.

E nella mente, mentre si stava fermi a pensare nella macchina parcheggiata lungo quella via, si accalcavano episodi, persone, parole, luci, colori di sessanta anni prima. Immancabilmente riemergeva anche quella testina bionda con gli occhi blu.

Si dice che la vita scorre e non aspetta, mentre la storia compie innumerevoli giri nello spazio e nel tempo per poi tornare a noi per farci meditare sul senso delle cose. E spesso si rimane con i perché irrisolti e si prende atto che tutto accade senza che possa essere trovata una spiegazione razionale a certi misteri, a certe suggestioni. Si tenta allora di sollevare il coperchio che cela l'incognito non più con la logica, ma con i sensi, con le emozioni, con l'opera del cuore. Percepiamo così aliti di verità ma è come afferrare l'aria: la sentiamo fluire ma quando apriamo il pugno esso è vuoto.

Misteri e suggestioni, si diceva. Uno di quei ragazzini, come detto, divenne architetto restauratore di monumenti e l’attività professionale lo portò nell’estremo nord del Pakistan dove si recava con la Missione Archeologica Italiana a scavare le città alessandrine non ancora portate alla luce. Lavoro di una certa responsabilità che necessitava di accurato studio preliminare delle fonti letterarie e dei precedenti scavi. E sempre si palesava nei testi il nome del più celebre archeologo norvegese, il professor H. L., il severo padre di quella ragazzina. I suoi report di scavo sono stati di immenso aiuto per consentire agli studiosi italiani di recuperare le vestigia della favolosa e mitica città di V…...  E ogni volta che il nome del grande archeologo appariva era inevitabile per lui chiedersi dove fosse finita quella ragazzina.

Una delle cose più pesanti al ritorno di una campagna di scavo, è il grande numero di conferenze a cui si viene invitati per relazionare. Si ripetono sempre gli stessi cerimoniali e il tempo per sistemare l’immane mole di materiale grafico riportato in Italia è scarso. Le più solerti nell’organizzare convegni sono le Accademie estere. Villa Borghese ne è piena: Romania, Svezia, Gran Bretagna, Belgio, Francia ecc.

Un giorno giunse all’architetto un invito dell’Istituto di cultura norvegese. Quell’appartato villino situato nella parte più panoramica del Gianicolo, ospitò l’abituale conferenza. Non poté mancare, al termine, un breve ricordo del professor L., scomparso negli anni ’80. E lì proruppe, istintiva, la domanda dell’architetto a un suo collega scandinavo: io conoscevo la figlia. Che fine avrà fatto?
Questi squadrò sorpreso l’autore della domanda: architetto, era seduta accanto a lei durante la sua esposizione.


Offline Arch

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Re:SEBASTIANO FANTE ITALIANO
« Risposta #151 : Mercoledì 19 Settembre 2018, 18:26:46 »
Si dice che gli architetti non siano fisionomisti in quanto attratti più dalle cose che dalle persone. Nel caso in questione tale affermazione era ancor più vera, collocandosi il soggetto al limite estremo di questo assunto. Eppure era lei che aveva presentato i relatori e, inoltre, il “cavaliere” pur con la scritta rivolta verso la sala, portava un nome che lo sbadato architetto aveva cercato di leggere in trasparenza, restandogli tuttavia anonimo. Un E……K…… che nulla evocava.
 Cercò conferme: sì, la signora è la figlia del professor H. L.. Ma forse ha una sorella? No, ha due fratelli che vivono in Norvegia. La dottoressa è Responsabile del…….. .

L’architetto è timido, ma come tutti i timidi in certe particolari situazioni può scadere nella sfacciataggine. Si recò al tavolo dove la signora ancora sedeva con l’irruenza di un rugbysta trequarti-ala:  ciao Cecilia. Un sorriso, uno sguardo interrogativo e un agghiacciante: mi chiamo E...

L’architetto confuse la goccia di sudore che gelida e veloce attraversò la sua schiena con una lama di coltello. Non era possibile tentare di riconoscere nel volto di una donna di almeno 67 anni, quello, sbiadito, di una bambina di 10. Sì, gli occhi erano blu, ma trovate un norvegese che li abbia scuri, la faccia da gatta mal si adattava a una anziana signora e il gatto bianco di allora doveva probabilmente essere deceduto, sebbene posseggano sette vite.

Confuso, pensieroso, sconcertato e inquieto, rispose affermativamente alla richiesta di un tecnico che chiedeva il permesso di tenere per due-tre giorni le diapositive proiettate per duplicarle. Sarebbe stata loro cura restituirle all’architetto. Quest’ultimo ebbe il lampo di genio e con decisione disse che preferiva tornare lui stesso.
 Decise di non fare ricorso a nessuna strategia d’indagine, confidando nell’improvvisazione. Pensò anche che stuzzicare i ricordi a volte non paga. Essi stanno lì incisi sulla pietra e poco desiderano essere sfruculiati. Sono patrimonio di Mnemosine ed essendo costei figlia di Urano, il cielo, e di Gea, la terra,  è prudente non entrare in competizione con lei. L’hỳbris è grave peccato degli uomini e all’architetto fecero difetto saggezza e prudenza.
 
 Si trovò nella sala d’aspetto dell’Istituto Culturale norvegese in attesa di riavere le diapositive. Avutele, chiese di poter salutare la dottoressa E…K…. Era in ufficio e gli dissero di pazientare un momento.
Nei pochi minuti di attesa operò una sintesi: Cecilia non inizia con la lettera E e il suo cognome inizia con L e non con K. Se pure Cecilia fosse stato  un secondo nome, nel sentirsi chiamata non avrebbe avuto quell’espressione imperturbabile. L’architetto aveva, il giorno prima, chiesto conferma tramite facebook ai suoi antichi amici se quella bambina si chiamasse davvero Cecilia, se fosse norvegese, perché, al limite, quella storia ineffabile poteva essere uno di quei sogni scambiati per avvenimenti realmente accaduti per chi sa quali acrobatiche evoluzioni della psiche. Ne ebbe conferma: Cecilia, figlia dell’archeologo, con due fratelli.

Eccola entrare nel salone: magra, elegante nella semplicità, capelli di media lunghezza, occhi incredibilmente luminosi, raffinata nei modi. Qualche breve convenevole e poi l’invito a trasferirsi nel suo ufficio. Nel colloquio rigorosamente il “lei”. Apparentemente nessun disagio, gli occhi puntati sull’interlocutore,  garbata, attenta anche nell’ascoltare. Sì, il Pakistan, il fiume Swat, le zone tribali, l’Afghanistan insanguinato vicino, troppo vicino, i pericoli connessi ma anche la scoperta delle mura di V., il suo tessuto urbano, i suoi tanti strati archeologici, e poi quel frammento di ceramica con dipinta una Lambda greca che, insieme alla testa femminile in grandezza reale scolpita in giada con stilemi greci e lineamenti indiani, aveva provato la contaminazione ellenistica con l’arte locale nel sincretico linguaggio espressivo del Gandhara. E poi i complimenti per l’italiano perfetto della signora e la sua risposta serena con la quale informava di vivere in Italia da più di cinquanta anni. 1 a 0 per l’architetto. Poi la severità del padre nel farla studiare, pochi svaghi, nessuna amicizia. Ecco, si cominciava ad andare nel privato. Colpire adesso, colpire adesso, colpire adesso. Dove ha abitato a Roma? Sempre al Gianicolo? Sì, certamente, in un’ala dell’Istituto. 1 a 1 senza alcun dubbio. Rapido tentativo di contrattacco nel rivelare che lui era nato a San Giovanni, in via San Quintino. Nessuna reazione: 1 a 2. Frustrazione e panico e poi un patetico: ma perché il suo cognome è K… se suo padre si chiamava L…. . Domanda di chi, oltre a denotare ottusità, è ormai privo di risorse e che presuppone un rapido saluto e la certezza che non ci sarà alcun rivedersi: è il cognome di mio marito. 1 a 3.

 La donna si alzò e l’architetto pensò che per lui era il segnale di un rapido e salvifico congedo. Invece si diresse verso la finestra e  attraverso i vetri guardò una Roma struggente nel suo rosa, ocra e mattone. Tacque per alcuni lunghi minuti mentre l’architetto non sapeva cosa dire e cosa fare. Poi tornò a sedersi alla sua scrivania. Sorrise lievemente, ma lo sguardo era come intorbidito, aveva perso l’accecante lucentezza degli occhi. L’architetto ebbe la certezza che avesse pianto. Riprese a parlare con voce più morbida e confidò che suo marito era morto sei anni prima in un incidente stradale in Germania. L’architetto, bofonchiando parole di cordoglio, pensò alla sofferenza provata da quella donna che era arrivata a piangere, sia pur celandosi, in presenza di un estraneo.

 Ora non gli interessava più trovare una soluzione al mistero. Anzi, provò imbarazzo per la sua volgare curiosità. Tutto convergeva nel considerare la questione come frutto di moleste e casuali coincidenze non disgiunte da mistificanti suggestioni.

Ancora un momento di silenzio e poi, di scatto, la donna prese una fotografia incorniciata e gliela  porse.
Il primo a sinistra è mio marito. E’ una foto di quaranta anni fa. Poi dal più grande al più piccolo i miei quattro figli. L’architetto riconobbe sullo sfondo il teatro di Taormina e disse le solite parole che si pronunciano in questi casi: che bei ragazzi. Cosa fanno oggi?
Il più grande vive in Canada ed è ingegnere ferroviario, il secondo è professore universitario di Economia a Oslo, il terzo è fotografo professionista e il più piccolo è avvocato a Berna.
Complimenti, dottoressa! Le hanno dato belle soddisfazioni.

Sì, tutti e quattro. Agli ultimi tre ho voluto dare nomi di origine latina, al più grande uno tedesco. Si chiamano Corrado, Fabio, Luciano e Giacomo.

L’architetto rivide in un baleno la sua Roma di 57 anni prima, quella via immutabile, il verde dei piccoli giardini privati, il rumore del pallone che rimbalzava, le grida degli amici, i richiami di sua madre, la fontanella di Via Statilia.

Si disse che a volte è meglio non fare domande e meglio ancora sarebbe, a posteriori, imporsi di non voler capire.

Tutto, invece, gli fu chiaro in un attimo.

Quella donna gli aveva dato una lezione.

 Perché infrangere con la brutalità dell’oggi un ricordo dolcissimo condiviso anche da lei al punto di aver dato i loro nomi ai suoi figli?
Perché attualizzare atmosfere irripetibili ormai  fossilizzate nella dimensione incorrotta di un’età felice? Perché trasformare l’incanto in disincanto? Perché violare la memoria della bellezza antica con l’insulto devastante della vecchiaia?
Il rivelarsi poteva elidere la favola che lei, al pari di quei discoli, custodiva nel cuore. Il segreto era esclusivo patrimonio di cinque esistenze che, con sensibilità diverse, lo avevano conservato nell’animo per tanti decenni. Come nei rebus dove le immagini (i ricordi) sono metafisiche, mute, atemporali e aspaziali e, quindi, eterne. Lei aveva capito che era preferibile non arrivare alla soluzione del rebus perché ciò, temeva, ne  avrebbe fatto scemare l’interesse, mentre eliminare per scelta una chiave avrebbe significato tornarci sopra per tutta l’esistenza per tentare di risolverlo, pur sapendo che senza una chiave era impossibile venirne a capo ma rendendolo, pertanto, immortale.

Quel giorno il lungo peregrinare di un ricordo completò il suo giro. L’architetto uscì all’aperto in una Roma smagliante e trasparente, al contrario del suo stato d’animo. L’uomo sentì d’improvviso  l’enorme peso dei suoi tanti decenni, delle illusioni e delle disillusioni, dei dolori, delle scarse gioie di uomo inquieto e il suo cuore era squassato dalle tante emozioni. Tenerezza e rabbia convivevano in un precario equilibrio. Era consapevole di come quella donna con i fatti, i silenzi, le ambiguità, le false piste aveva creato un disordine spiazzante al solo fine di giungere ad una sintesi armonica di rara poesia. Era la riprova che il faustiano “eterno femminino” possiede una sensibilità che il genere maschile non ha nel suo patrimonio.

Cecilia, probabilmente un vezzo infantile inventato per gioco, era diventata E… ma la sua essenza femminile  di portatrice di gioia e madre del mistero era immutata. Una metafora dell’enigma della vita.

Si recò in Via San Quintino, lo scrigno della sua memoria. All’improvviso gli sembrò che la strada non avesse i consueti colori, tutto appariva più spento, i suoi fondali più indeterminati. Solo le rondini, come i ricordi, continuavano a girare intorno ai villini in un cielo blu di Persia.


Offline leomeddix

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Re:SEBASTIANO FANTE ITALIANO
« Risposta #152 : Mercoledì 19 Settembre 2018, 18:39:15 »
Si dice che gli architetti non siano fisionomisti...

Un Arch in stile lirico :aho:
 
 :clapcap:
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Offline Frusta

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Re:SEBASTIANO FANTE ITALIANO
« Risposta #153 : Mercoledì 19 Settembre 2018, 20:55:03 »
(La seconda parte non c’è, o meglio, c’è ma me vergogno  :sdent:).
Nonò, mo' tu la metti eccome.
 8) Sennò niente carbonara.
Lazio, ti amo con tutta la feniletilamina, l’ossitocina, la dopamina e la serotonina che mi circolano nel cervello, che rendono il mio pensiero poco logico e che mi procurano strane sensazioni in tutta l’anatomia e battiti sconclusionati nell’organo principale del mio apparato circolatorio.

Offline Frusta

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Re:SEBASTIANO FANTE ITALIANO
« Risposta #154 : Mercoledì 19 Settembre 2018, 21:11:59 »
Un matematico sa che due più due fa quattro.
Un architetto sa che due più due fa quattro, però un po' gli dispiace.
Mi piace pensare che sia diventato un Arch anche il Fabio nordico.


Lazio, ti amo con tutta la feniletilamina, l’ossitocina, la dopamina e la serotonina che mi circolano nel cervello, che rendono il mio pensiero poco logico e che mi procurano strane sensazioni in tutta l’anatomia e battiti sconclusionati nell’organo principale del mio apparato circolatorio.

Offline leomeddix

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Re:SEBASTIANO FANTE ITALIANO
« Risposta #155 : Giovedì 20 Settembre 2018, 00:34:04 »
[Del come e del perché nacque la balzana idea di cominciare a scrivere “La Tribù scorciosana –Viaggio nella storia e nella cultura materiale di una comunità abruzzese”, lavoro che se l’Autore non se dà ‘na mossa, è capace pure che esce postumo :risa:]










                                                                                                                               Quando la filosofia dipinge in chiaroscuro,
                                                                                                                               allora un aspetto della vita è diventato vecchio,
                                                                                                                               e dal chiaroscuro esso non si lascia ringiovanire,
                                                                                                                               ma soltanto riconoscere: la nottola di Minerva
                                                                                                                               inizia il suo volo sul far del crepuscolo.

                                                                                                                               (HEGHEL, Lineamenti di filosofia del diritto)




                                                                                             

UNA BREVE PREMESSA

L’idea di scrivere La tribù scorciosana mi è venuta alcuni anni fa – seduto al tavolo del Dopolavoro di Villa Scorciosa- ascoltando dagli anziani del paese i racconti delle loro vite trascorse sui campi della masseria o nel buio delle miniere francesi.
Tra le pieghe di quei racconti emergeva il ricordo di una sofferenza che il tempo non era riuscito a cancellare, ma anche uno straordinario patrimonio culturale fatto di leggende, rituali magici, modi di fare festa ma anche di affrontare collettivamente l’evento della morte. A Villa Scorciosa –causa un millenario isolamento geografico e sociale- tale patrimonio si è conservato più a lungo che altrove, rafforzando così l’identità culturale della sua comunità. E proprio per questa ragione, nel titolo del libro è stato utilizzato il termine ‘tribù’, inteso nel suo significato originario di “comunità etnicamente, linguisticamente e culturalmente omogenea”.
Ma a partire dagli anni ’70 –a Villa Scorciosa come in gran parte dell’Abruzzo- questa antica civiltà ha cominciato a disgregarsi sotto i colpi dell’industrializzazione, la più grande rivoluzione tecnologica dai tempi del Neolitico, che in poco meno di un ventennio ci ha trasportati dall’epoca dell’aratro a quella del computer. E perciò mi piace paragonare La Tribù scorciosana alla Nottola di Minerva, il mitico uccello che inizia il suo volo solo al crepuscolo, quando il sole è già sceso. In altre parole, questo libro vuole essere anche, e soprattutto, un affettuoso tributo alla millenaria civiltà contadina nel momento del suo definitivo tramonto.

La vicenda storica di Villa Scorciosa è particolare, fin nelle origini, perché parliamo di un paese “nato due volte”: la prima volta verso l’anno Mille, intorno alla sua antica chiesa; la seconda verso la fine del XV secolo, quando Villa Scorciosa –dopo un terribile terremoto che distrusse tutto il villaggio- fu ripopolata da genti slave in fuga dai Turchi. Nel corso del tempo, questa ‘particolarità’ scorciosana si è intrecciata con le tante ‘particolarità’ d’Abruzzo, la regione forse più complicata d’Italia dal punto di vista ambientale, culturale e persino linguistico. Si può dire, anzi, che per tanti secoli siano esistiti non uno, ma molti Abruzzi: quello legato al mondo contadino e quello dei pastori; l’Abruzzo costiero, con le sue floride colline protese verso il mare, accanto ad un Abruzzo montano, dal paesaggio aspro e chiuso in se stesso.
Questi dualismi, figli della nostra storia e della nostra geografia, sembrano riflettersi anche nella psicologia ‘bipolare’ degli abruzzesi, gente tenace ma anche fatalista, visceralmente legata alla propria terra ma sempre pronta ad affrontare gli sconfinati Oceani in cerca di fortuna, di carattere mite ma capace pure di feroci rivolte, come insegna la storia del nostro brigantaggio. L’abruzzese è anche profondamente cattolico, devoto ai propri Santi, eppure per tanti secoli –e fino alla generazione dei nostri genitori- ha continuato a praticare riti magici di origine pagana.
Ma oltre questi dualismi, esiste alla fine un tratto culturale che accomuna tutti gli abruzzesi: la religione del lavoro. Da noi, la prima lezione che si impara dalla vita è che per sopravvivere bisogna lavorare, e l’abruzzese ha sempre lavorato con un furore quasi calvinista, alla ricerca di un riscatto economico -ma anche psicologico- dalla antica miseria.

Nel raccontare di tutto questo nel libro, mi sono premurato di ‘risciacquare i panni in Sangro’ :icon_biggrin:, ho cercato cioè di usare un linguaggio scorrevole (ma spero non banale) e legato alla vita reale, rinviando gli approfondimenti alle note a pie’ di pagina. Credo infatti che un testo di storia, soprattutto se di storia locale, debba risultare accessibile non solo per ristretti gruppi di ‘intellettuali’, ma anche per coloro che quella storia l’hanno fatta. E ciò vale soprattutto per comunità come Villa Scorciosa, dove per millenni la trasmissione della cultura è avvenuta solo in forma orale, mentre il ‘libro’ è sempre stato guardato con diffidenza, considerato quasi un simbolo della superiorità sociale dei ‘signori’.
Infine, a chiusura di questa premessa, è doverosa un’ultima precisazione: La tribù scorciosana è il frutto di un lavoro collettivo, che ha visto la generosa collaborazione di tanti paesani, miei veri e preziosi “consulenti storici”. Le loro testimonianze sono riportate nella seconda parte del libro, ed offrono un quadro intenso –e spesso commovente- del proprio piccolo mondo antico che va scomparendo. Per tale motivo, a tutti questi paesani va il mio sentito ringraziamento.
Ma ora bando a premesse, ringraziamenti e malinconie: la Nottola di Minerva ha spiccato il volo, e dunque per noi è arrivato il momento di iniziare il viaggio alla scoperta della straordinaria storia di Villa Scorciosa.




CAPITOLO UNO - La preistoria


Uno strano mammifero tra mammut, pantere e vulcani

Percorrendo la strada provinciale frentana che collega Lanciano alla Costa dei Trabocchi, svoltando verso nord dopo qualche chilometro, ci appare il profilo di un paese adagiato tra colline argillose e vallate profonde, in un paesaggio dominato dalla “trinità mediterranea” dell’ulivo, della vite e del grano. Questo paese, che conta settecento abitanti, due chiese e un vecchio ufficio postale, è Villa Scorciosa, borgo oggi legato al comune di Fossacesia ma custode di una propria, antichissima storia che qui vogliamo ripercorrere fin dalle origini.
Questo nostro viaggio parte da molto lontano, circa 700.000 anni fa, in piena età paleolitica, quando il paesaggio intorno a Scorciosa  era ben diverso da quello attuale: una grande savana si estendeva fino alla costa, circondata da foreste, laghi, piccoli vulcani fumanti, ed interrotta a nord dal fiume Po, che allora sfociava nel mare abruzzese(1). Passeggiando per questa savana, vicino ai corsi d’acqua avremmo potuto incontrare elefanti dalle zanne lunghissime, pantere, cervi giganti, bisonti, ma anche strani mammiferi che ad un primo sguardo apparivano simili a scimpanzé -ed effettivamente degli scimpanzé erano ‘parenti’ molto stretti, condividendone il 99% del patrimonio genetico. Ma, a differenza delle scimmie, questi mammiferi erano meno pelosi, camminavano con andatura eretta ed erano in possesso di un primitivo linguaggio . I maschi cacciavano bisonti con asce di pietra e bastoni appuntiti, e di certo di certo non conoscevano lo stress di noi moderni, perché la loro attività di caccia durava un paio d’ore al giorno, mentre il resto della giornata lo passavano curando le “relazioni sociali” -insomma chiacchierando- come ancora oggi fanno i Boscimani africani e gli Aborigeni australiani. Le femmine invece badavano ai cuccioli, raccoglievano dalla terra cibi prelibati come insetti commestibili, tuberi, radici, e si distinguevano dalle femmine degli altri mammiferi perché erano sessualmente disponibili durante tutto l’arco dell’anno. Per l’epoca, un vero scandalo(2).
Allora avremmo cominciato a capire: questi mammiferi dal comportamento un po’ strano non erano altro che esemplari di Homo Erectus, i primi rappresentanti del genere umano apparsi in Abruzzo(3). Ma ora che li abbiamo individuati, cerchiamo di conoscerli meglio: da dove erano arrivati questi “proto-Abruzzesi”? E soprattutto: come vivevano? 
L’Homo Erectus era originario dell’Africa orientale e, vivendo di caccia, man mano che le risorse finivano si spostava verso nuove terre. E così –dopo aver attraversato il Medio Oriente e il nord Europa- circa 700.000 anni fa raggiunse l’Abruzzo, arrivando a popolare anche il territorio di Villa Scorciosa, come testimoniato dai numerosi reperti (strumenti in pietra, coltelli di ossidiana, punte di freccia) rinvenuti nei dintorni del nostro villaggio .
La storia di questi ominidi ci interessa non solo perché sono i primi “abruzzesi” di cui abbiamo notizia, ma anche perché essi furono gli artefici di due tra le più importanti “invenzioni” dell’umanità, ovvero il linguaggio e il fuoco. Il linguaggio nacque come strumento di lavoro, perché l’attività di caccia richiedeva uno scambio di informazioni rapido ed efficace tra i membri del gruppo(4). Grazie all’ “invenzione” del fuoco, invece, l’Homo Erectus diventò capace non solo di combattere il freddo, cucinare e difendersi dagli altri animali, ma anche di sviluppare rapporti sociali(5). La sera, infatti, raccolti intorno ai falò che riscaldavano le loro grotte, questi primi esseri umani progettavano sofisticate strategie di caccia, risolvevano contrasti sorti nel gruppo, comunicavano sentimenti d’odio ma anche d’amore. I focolari accesi in quelle fredde notti di 700.000 anni annunciavano insomma l’alba del genere umano, la sua fuoriuscita dalla sfera puramente animale.




NOTE
1) Durante l’Era Paleolitica la parte settentrionale del bacino adriatico era prosciugata a causa delle glaciazioni, e al posto del mare si estendeva una grande pianura attraversata dal fiume Po che in quell’epoca sfociava all’altezza dell’attuale foce del fiume Vomano, nei pressi di Roseto degli Abruzzi. Il nostro territorio era anche circondato da vulcani, il più grande dei quali era situato a Monteroduni in provincia di Isernia, e da numerosi vulcanelli (alti pochi metri ed eruttanti gas, fango ed argilla) le cui tracce sono state rinvenute presso Pineto, Cellino Attanasio e Grasciano. (Cfr. A. MANZI, Storia dell’ambiente nell’Appennino centrale).
2) La “disinvoltura” sessuale delle nostre antenate non era indice –ovviamente- di scarsa moralità, ma era un comportamento funzionale alla sopravvivenza del gruppo. Infatti nelle femmine umane l’ovulo è ricettivo solo pochi giorni al mese, e perciò la Natura ha ideato un originale metodo per favorire la fecondazione, dotando gli esseri umani di impulsi sessuali molto forti, che li ‘costringono’ a desiderare rapporti sessuali per tutto l’arco dell’anno, diversamente dagli altri mammiferi. Inoltre, la disponibilità continua delle femmine umane, favorendo una attività sessuale regolare all’interno della coppia, riduceva la competizione sessuale tra i maschi ed evitava la dissoluzione del gruppo. A conferma di questa tesi c’è il fatto, quasi unico nel mondo animale, che i membri di quella specie non si accoppiavano “pubblicamente” ma solo in privato. Questa forma di privacy rendeva più chiari e stabili i rapporti di coppia, evitando così conflitti disgreganti. (Cfr. E. J. PFEIFFER, La nascita dell'uomo).
3) L’Homo Erectus fu il primo ominide apparso in Abruzzo ma non il primo apparso sul pianeta. Suoi progenitori nella scala evolutiva furono l’Homo Habilis (così chiamato perché abile ad usare utensili di pietra), e prima ancora l’Australopiteco, apparso circa 4 milioni di anni fa nelle savane africane. A sua volta l’Australopiteco era l’esito di un processo evolutivo iniziato 3,5 miliardi di anni fa nel “brodo primordiale” con le prime forme di vita di organismi proto-cellulari evolutisi prima in una minuscola creatura marina (denominata Pikaia), poi in esseri anfibi, per arrivare al Purgatorius, animale simile al topo apparso 70 milioni di anni fa e progenitore di tutte le scimmie e gli ominidi. (Cfr. Da cosa deriva l’uomo? Da un topo-ragno: il ‘Purgatorius’, a cura di E. SIGNORILE).
4) “Lo sviluppo del lavoro [nella preistoria] ebbe come necessaria conseguenza quella di avvicinare di più tra loro i membri della società, aumentando le occasioni in cui era necessario l'aiuto reciproco, la collaborazione, rendendo chiara a ogni singolo membro l'utilità di una tale collaborazione. Insomma: gli uomini in divenire giunsero al punto in cui avevano qualcosa da dirsi. Il bisogno sviluppò l'organo ad esso necessario: le corde vocali”. (F. ENGELS, Parte avuta dal lavoro nel processo di umanizzazione della scimmia). Riguardo invece alla nascita del linguaggio, essa fu favorita nell’uomo dalla posizione della laringe e dalla forma della base cranica (che nell’Homo Erectus era fornita di una curvatura che permetteva di produrre una gamma significativa di suoni). Lo studio della base cranica ha consentito ai paleontologi di fare anche una curiosa scoperta: l’Homo Erectus si esprimeva con una voce simile a quella dei bambini odierni. 
5) “Fu il cucinare ciò che determinò all’inizio il destino dell’essere umano, facendo dell’ominide un animale ‘autotrofo’ (che ottiene e prepara i suoi piatti mediante una serie di materie prime), un’attività che lo distacca da tutte le altre specie animali, che sono ‘eterotrofe’, ossia devono adattarsi al cibo prefigurato, al cibo così come di presenta ed è. La cucina diede anche origine alla parola, in quanto costrinse all’organizzazione e all’intercomunicazione dell’orda primitiva in cerca di cibo, e obbligò a vivere intorno al fuoco che dava calore e luce e proteggeva da altri animali”. (M. VAZQUEZ MONTALBAN, Contro i gourmet). 
È GIÀ SETTEMBRE ? NON CI POSSO CREDERE! LA MIA VITA STA PASSANDO TROPPO VELOCE. LA MIA UNICA SPERANZA È CHE SI VADA AI TEMPI SUPPLEMENTARI. (CHARLES M. SCHULZ)

Offline Holly

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Re:SEBASTIANO FANTE ITALIANO
« Risposta #156 : Giovedì 20 Settembre 2018, 10:01:09 »
Ebbene cara Holly, Giovanni Ricciardi ha scritto altri 7 romanzi, con protagonista il commissario Ponzetti, di qualità superba. Ha vinto un'infinità di premi e leggerlo arricchisce l'anima. Vorrei non dirlo ma l'ispiratore di diverse sue storie sono indegnamente io (mi cita sempre nei ringraziamenti). È il mio più  caro amico e se vuoi possiamo andare a prenderci, naturalmente con il tuo strisciato,☺ una pizza.

Magari!!!

Ma prima dammi il tempo di leggere almeno un altro romanzo, così mi preparo meglio  :P

Bellissimo il racconto con Cecilia e il suo gattino bianco, mi sono venuti i brividi

E un sentito grazie a tutti gli altri scrittori, sono letture che vado centellinando come un buon vino  :-*

Panzabianca

Re:SEBASTIANO FANTE ITALIANO
« Risposta #157 : Giovedì 20 Settembre 2018, 12:00:40 »
Abebe Bikila il bestemmiatore

Anno Domini MMXVIII, 4 gennaio, ore 8.12, arrivo in stazione; preso da irrisolti fremiti, solo in ultimo capisco e scatto verso un luogo fatale per il pendolare. Si tratta dello sportello adibito ai rinnovi degli abbonamenti ferrotranviari, quindi, della mia metrebus card – 3 zone. Euro 404,00 da dedicare alla rotaia. Arrivo nel punto della sanguinosa transazione e, nonostante l’ora, trovo una discreta fila di gente strappata al letto e al risparmio. Ho il n. 87 e gli sportelli hanno appena chiamato il 64. La fila sembra scorrere ma, mi illudo: il più classico degli impiegati ministeriali si fa avanti millantando sconti e vantaggi che la robotica impiegata dietro il vetro nega con decisione. Tutti capiamo presto che non sarà più accettato il magheggio con cui il distinto signore aveva sempre pagato un abbonamento annuale per tutta la famiglia come fosse per un nano destinato al vano bagagli. Mi spazientisco e rivoltoso capeggio un drappello di giaculanti sostenitori del tempo limite. Così, il ministeriale risolve finalmente la propria sordità pagando un solo abbonamento, il suo, e presto liberandoci da ogni male. Sono già in netto svantaggio sulla mia tabella di marcia ma non è tutto. Purtroppo, in un angolo della sala d’aspetto di questo sotterraneo anfratto, in silenziosa preghiera si nascondono 3 suore 3. La prima, sudamericana con una scarsissima padronanza dell’italiano, si presenta alla cassa sfoderando un consistente carteggio che con difficoltà inocula, ostruendolo, nel minimo pertugio unicamente disponibile al transito di documenti di riconoscimento e delle carte-bancomat; la seconda e la terza claudicano e tutti sinceramente crediamo che il rinnovo annuale sia proiezione a dir poco ottimistica ma, così è. Sembrano essere appena uscite dalla clausura. In genere, queste particolari religiose decidono di uscire alla luce del sole solo per due motivi, forse tre: 1- la rottura senza appello del motore del pulmino bianco, 2- la rinuncia all’eredità di un parente scapestrato, e 3- il rinnovo della tessera Metrebus che non useranno mai. Sono momenti delicati. Decido di farmi un giro a Istanbul per vedere il mosaico di Santa Sofia. Le tre suorine hanno calato la scure sul mio piano perfetto, ed io vago coi pensieri. Il cielo si incupisce, volano madonne, un impiegato si sfila dal collo un rosario brandendolo minaccioso come a capo di una crociata sedizione. Io, nel frattempo uscito dalla fila per dar retta al mio contapassi scassapalle, poi spento mi riaffaccio: le suorine sono ancora lì. In fila c’è pure il Cristo Pantocratore, ha il 99 e non sembra sereno. “Suore Mercedarie del SS Sacramento!” esclama con orgoglio una delle tre indomite. E’ il colpo di scena che queste uggiose mattinate cercano, a volte, brancolando tra i passanti. Ed io scosso, umile getto a terra una manciata di ceci e mi genufletto allegando un pur malfermo atto di dolore. Sono le mie suore! Ivi, ove, colà feci le elementari. Ed una selva di ricordi mi chiama alla raccolta funghi. Il gesto non le lascia insensibili. Compiuto il versamento, le tre si ricostituiscono in falange trilobata e tenere accolgono il mio “Cristo regni Madre” al quale come da etichetta rispondono “Sempre regni”…
…e da dietro: “…ah ’mbè”.

Offline Arch

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Re:SEBASTIANO FANTE ITALIANO
« Risposta #158 : Giovedì 20 Settembre 2018, 12:10:45 »
 :D :D :D Formidabile!

Panzabianca

Re:SEBASTIANO FANTE ITALIANO
« Risposta #159 : Giovedì 20 Settembre 2018, 12:30:54 »
Mi sono stampato gli ultimi componimenti tuoi e di Leo. Lun. vi dirò  ;)