Autore Topic: SEBASTIANO FANTE ITALIANO  (Letto 57814 volte)

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Re:SEBASTIANO FANTE ITALIANO
« Risposta #460 : Venerdì 27 Marzo 2020, 19:51:15 »
¿Dónde está Oesterheld?



Héctor Oesterheld, geologo per caso e visionario per vocazione, scomparve il 21 aprile del 1977 a La Plata, lo prelevarono la notte del 21 aprile del 77 gli sgherri di Videla e di lui non si seppe più nulla. 
Alla fine di giugno dell' anno precedente erano divenute desaparecidas le sue prime due figlie Beatriz e Diana. La terza, Marina, scomparve a novembre del 77. Il il cadavere di Estrela, la più piccola, fu ritrovato insieme a quello del marito un mese dopo.
Chi non conosce Oesterheld può informarsi in rete, chi lo conosce sa cosa abbiamo perso.
In questi giorni di arresti domiciliari mi è capitata fra le mani la sceneggiatura dell' ultimo capitolo di Mort Cinder, forse il più bello di tutta la saga.
E' solo una piccola parte di un capolavoro http://www.slumberland.it/contenuto.php?id=144 che arrivò in Italia grazie a quel genio assoluto della divulgazione che si chiamava Oreste del Buono.
Ve la posto qui  :) fatene quel che volete.

Lazio, ti amo con tutta la feniletilamina, l’ossitocina, la dopamina e la serotonina che mi circolano nel cervello, che rendono il mio pensiero poco logico e che mi procurano strane sensazioni in tutta l’anatomia e battiti sconclusionati nell’organo principale del mio apparato circolatorio.

Offline Frusta

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Re:SEBASTIANO FANTE ITALIANO
« Risposta #461 : Venerdì 27 Marzo 2020, 19:53:02 »
N.B.
Non fate caso ai puntini di sospensione, alla ridondanza della punteggiatura ed ai capoversi arbitrari; nella sceneggiatura di un fumetto sono le indicazioni che l'autore, per la successione delle vignette, dà al disegnatore, Alberto Breccia in questo caso, per me uno dei cinque migliori di tutti i tempi.

LE TERMOPILI
   

"Anche se pensandoci bene, nell' impeto della lotta la morte cessava di essere morte. Si, fu bello essere lì alle Termopili"

Mort Cinder, l' uomo dalle mille e una morte, iniziò a raccontare...

-Ora la notizia è certa, l' esercito di Serse è a una giornata di marcia.

E' Lamo, un soldato focese, a portarci la notizia. Un pastore ha visto dall' alto delle montagne il grande esercito persiano.

-I persiani coprono tutta la terra, sono come una nube immensa! hanno innumerevoli cavalli e strani animali con due schiene, e carri da guerra... La polvere che sollevano cancella l' orizzonte! Il sole stesso è impallidito!"
-Ripeto quanto ho già detto: ritirarsi davanti a un nemico superiore non è disonorevole. Se restiamo qui, saremo massacrati. Io e i miei tebani proponiamo di ritirarci a sud.
-Hai detto bene, tebano. Cosa possono fare quattromila greci contro due milioni o più di persiani?
-Chiedi cosa potremmo fare in quattromila contro due milioni? Ti rispondo io: morire!
-Noi spartani ci impegnamo a difendere il passo delle Termopili. E lo faremo anche se ci lasciate da soli!
-Hai detto bene, re Leonida, noi spartani siamo trecento, ma siamo tutti con te.

Si, io, Mort Cinder, fui uno di coloro che difesero il passo delle Termopili. Fu nell' anno 480 avanti Cristo. Il mio nome allora era Dionigi, con me c' era Alfeo, ed eravamo entrambi opliti.

-Gli uomini di Tespi combatteranno accanto a quelli di Sparta
-Anche noi di Micene, resteremo tutti.
-Leonida, vorrei avere anche io la tua fede. Ma l' esercito del Gran Re è enorme. E porta con sé gli "immortali", la sua truppa scelta. Tutte le città dell' Asia gli hanno aperto le porte...
-E' il mondo intero che ci attacca. Quando i persiani punteranno i loro archi contro di noi, le frecce saranno così tante che oscureranno il cielo.
-Meglio. Combatteremo all' ombra.
-Tu si che parli spartano, Dionigi. Tu invece, Alfeo, parli senza nerbo, come un ateniese. Questo perché leggi ciò che non dovresti, perché ti occupi di cose indegne di uno spartano!

Alfeo. Il mio amico Alfeo, forse l' unico spartano capace di recitare Omero. Perché a Sparta leggere poesia o qualunque altra cosa era considerato un delitto. La Patria voleva guerrieri, non filosofi. Alfeo mi recitava gli antichi versi di nascosto. Io non sempre li capivo, ma era un amico.

-Leonida, laggiù c' è un cavaliere. Deve essere una spia del Gran Re! Gli tiro una freccia?
-No! Lascialo che vada a raccontare a Serse quanta paura ci fa il suo esercito...
-Vattene sciacallo, prima che ti scaldiamo la coda!

Nell' affanno di fuggire, il persiano quasi cadde. Era bello ridere tutti insieme. Rise anche Alfeo. Anche se sapevamo che le nostre ore erano contate, che non c' era più filo per noi sul gran telaio delle Parche.
Il grande esercito ci mise tre giorni per ammassarsi di fronte a noi...

-Il pastore diceva bene. Sono milioni!
-Non importa... Il passo è stretto e potrenno combattere solo poche centinaia alla volta...
-Il vantaggio è nostro, saranno solo tre persiani contro uno spartano... Povero re Serse, quanta pena mi fa!
-Sarà bello averti a fianco, Dionigi, moriremo, ma ridendo!

Lo sterminato esercito continuava ad avanzare come aveva previsto Leonida. Il passo così stretto li obbligava ad attaccare su un piccolo fronte.
Le prime frecce...
Eravamo ben protetti. Frecce e pietre non ci recavano più danno di un nugolo di insetti ronzanti, così ci preparammo allo scontro urlante.
Se ci stancavamo della lancia, la affidavamo all' ilota, all' ausiliare. Poi combattevamo con la spada. I persiani andavano all' attacco pazzi di paura, i loro movimenti erano maldestri.

-Sembra di battersi...
-Sembra di battersi contro delle vecchie!
Si vede che sei giovane e scapolo, Dionigi... cosa ne sai di come combattono le vecchie?

Un' ondata dopo l'altra di guerrieri persiani. Attaccavano mentre alle loro spalle li spingevano contro le nostre spade con lance e scudisci.
Usammo di nuovo le lance... Poi tornammo alle spade, finché non suonarono le trombe e l' attacco cessò.

-Se ne vanno! Alfeo, hai visto che non era poi così difficile?
-Torneranno, Dionigi. E, a proposito, sai che c' è un passaggio segreto fra le montagne? Se i persiani lo trovano ci attaccheranno alle spalle...
-Che notizia! Il passo è ben custodito dai nostri alleati focesi... Cosa fa Leonida?
-Guardate! Il grande Serse sta perdendo la pazienza. Ci manda i suoi "immortali". Avanti, mortali contro "immortali"!

Lasciammo il muro, avanzando scudo contro scudo, le lance spianate...
Lo scontro non fu più duro dei precedenti. Gli "immortali" cadevano davanti a noi a cataste.
Cercavano di stancarci, la pagarono cara.

-Ehi, Leonida, ci sono troppi caduti, avanziamo un po'?
No! Arretrare su tutta la linea!

Eravamo opliti, eravamo spartani... Obbedimmo. I persiani ci videro cedere. Ripresero vigore: vedevano la vittoria a portata di spada...

-E adesso avanti! All' attacco!

La voce imperiosa di Leonida trasformò la ritirata in un' avanzata sempre più  impetuosa. Le cataste di caduti crescevano. Ripetemmo la manovra: prima cedevamo, poi ritornavamo ad attaccare. I morti ormai erano a migliaia.
Il Gran Re assisteva al combattimento da una altura. Dovette abbandonare il suo trono due o tre volte, tale era l' orrore per quanto vedeva. I suoi "immortali" fatti a pezzi dalle nostre corte, instancabili spade.

-Lo avevo detto! Povero Gran Re Serse, pov...

Non terminai la battuta... Un colpo secco mi mozzò il fiato. Credevo che il cuore smettesse di battere.

-Portalo indietro, dall' altra parte del muro!

Prima Alfeo, poi l' ilota, mi allontanarono dalla battaglia.
Non ero l' unico ferito. L' augure Megisto fungeva da medico. Mi tolse la freccia e unse di mirra gli orli della ferita.
Mi sentivo meglio. Vidi tornare gruppi di spartani. Gli alleati tespiesi ci sostituirono. Vidi Lania, Cirofonte, tutto il mio plotone era stato rimpiazzato, ma...

-E Alfeo?
-Non l' ho visto.
-Credevo fosse con te, Cirofonte.
-Alfeo...
-Sarà rimasto indietro...

-Alfeo... Alfeo...

Nessuna ferita poteva bruciare così tanto. Era tanta l' ansia che dimenticai di mettermi l' elmo...

-Alfeo!!!
-Alfeo!!!


Il mio corpo non aveva più ferite, aveva più energie che mai. Ma i persiani erano molti e mi circondarono...

Siamo qui, Dionigi... C' è anche Alfeo con noi...

Un' altra volta sulla linea mentre il combattimento indietreggiava, e arrivammo al muro...
Avevo trascurato troppo a lungo la mia ferita, e mi si piegarono le ginocchia...

-Alfeo... Alfeo...
-Dionigi, sei spartano? Da quando in qua uno spartano piange un morto?
-Da quando, dico io, uno spartano piange un vivo?
-E' stata una fiondata alla tempia... Sei stato molto fortunato, Alfeo... La pietra aveva poca forza...

Alfeo rideva, Cercai di ricordare qualche antico verso per citarglielo ma non me ne venne in mente nessuno...
La notte cominciava ad accumularsi a valle in lenti squarci. La battaglia si spense... Brillavano le migliaia di fuochi nel campo persiano. Potevamo riposare...
Notte sulle Termopili. Le "porte calde" le chiamavano per le loro fonti termali.

-Pirati fenici... Li attaccammo... gli togliemmo le due donne che avevano rapito... Ricordi?
-Come potrei scordarmelo?... Ti prendesti la più alta, ti ho odiato per questo. Ma poi mipassò...


Notte sulle Termopili. Qualche ferito si lamentava... Per gridare così doveva essere persiano.
Le parche filavano, ridendo  perché non avevano quasi più filo... Erano tante le vite che sarebbero finite prestissimo...
Ma io ignoravo ancora che il filo delle parche era molto corto. Avevo occhi solo per la somma bellezza della notte...

-Oggi è stato un giorno perfetto. Abbiamo tenuto in scacco un nemico dieci volte più numeroso ... Giorno di vittoria... Giorno spartano...
-Anche la notte è perfetta... Domani torneremo a combattere insieme. Spalla contro spalla... Torneremo a vincere...

Guardai Alfeo. Dormiva sereno, con il sorriso sulle labbra... Come se avesse appena recitato Esiodo. Alfeo, amico mio...
Lo ignoravo, ma avevo una benda sugli occhi... Sarebbe caduta presto, troppo presto.
Chi era che camminava a lenti passi tra gli uomini addormentati? Lo riconobbi... Era l' indovino...

-Megisto, non dormi?

Si fermò, tardò a voltarsi... Finalmente mi guardò negli occhi... Nei suoi occhi c' era tutta la notte...

-Avremo tanto tempo per dormire, tutta l' eternità... E a proposito, strano che sia proprio tu a vegliare, Dionigi, mentre tutti gli altri dormono... Dovrebbe essere il contrario...
-Non capisco... Cosa dici?
Niente, Dionigi, non farci caso... Altri tre giorni e capirai... Godiamoci la notte e le stelle, che ci resta tanto poco...

La voce di Megisto, l' indovino, era calma, ma molto triste. Cosa vedeva nel futuro?

-Il vento che soffia è Borea... Viene da spiagge remote e sconosciute... E va verso sud, verso l' Africa, e oltre, verso l' ignoto... come noi...
-A te, Dionigi, posso dirlo... sei un uomo valoroso e sei spartano. Il nostro filo sul telaio delle Parche è quasi terminato... Nessuno di noi tornerà mai a Sparta... E' finita anche per Leonida e i suoi guerrieri...
-Tutti lo ignorano ma hanno baciato i loro figli per l' ultima volta. Non più mense piene di gioia per Leonida e i suoi guerrieri... Ombre, siamo già ombre.


Megisto si allontanò. Io non dissi nulla...
...Perché sapevo che era inutile. La benda mi era caduta dagli occhi... All' improvviso vedevo che avevo combattuto senza accorgermi di quanto accadeva. Avevo creduto fino ad allora che quella fosse una battaglia fra tante, una gloriosa avventura da raccontare poi fra una coppa e l' altra di vino rosso...

-Alfeo...

Sussurrai appena il nome tanto caro. Avrei dovuto svegliarlo. Raccontargli quanto aveva detto Megisto. Ma presto lo avrebbe saputo... Che continuasse a sognare di cavalcare in riva al mare il suo bianco destriero. Sabbia dorata, schiuma, gabbiani...

-Melas

Melas, colui che mi aveva salvato dai barbari. Faceva rumore perfino dormendo. Era grande, rozzo, brutale. Ed era un mio amico. Si ricordava Melas di quando avevamo acceso anfore d' olio nel tempio di Afrodite come se fossero lucerne? Avevamo ballato, ubriachi, fra le risate delle sacerdotesse. Ma poi le facemmo tornare serie...

-Ormos

Avevo combattuto spesso con Ormos... Quando voleva punire gli iloti non li uccideva, gli cuciva le mani alle orecchie, li faceva ballare e li spingeva nel fuoco... I vecchi applaudivano... Dicevano che era il più spartano di tutti. Alfeo e io lo odiavamo, ma fu lui a salvarci quando cademmo nell' imboscata del monte Eurismo. Ormos in battaglia è una belva, però di lui ci si può fidare...

-Safnia

Safnia era stato re di Sparta. Aveva una bellissima moglie che aveva cercato di farlo ammalare con delle erbe perché non partisse con Leonida, ma Safnia se ne accorse, la picchiò e la rinchiuse con gli iloti...
Li guardavo tutti come se non li avessi mai visti... Megisto non aveva mai sbagliato. Uno, due giorni, e per noi sarebbe tutto finito. Tutto è diverso quando si guarda con gli occhi da moribondo....

-Rus

Il mio ilota... Perfino un ilota sembrava diverso... dopotutto è un uomo anche lui... Molto più di un cavallo o un cane...
Ora che ci penso, Rus è un buon ilota, il migliore. Mi è sempre accanto, ovunque, anche nel folto della mischia. L' hanno ferito spesso... Ora che ci penso avrei dovuto premiarlo... So cosa farò...

-Rus, andrai a casa. Porterai un messaggio a Ilirio, mio fratello...
-E la battaglia?


Dirò a Ilirio che prenda Rus al suo servizio... Così lo salverò dalla morte... Perché dovrebbe morire con me?

-Ma tu, signore, hai bisogno di me...
-Non mi servi più, vattene subito. Rus, il messaggio è urgente... Mostra la tavoletta alla sentinella e vattene....

Aprì la bocca ma non disse nulla, gli occhi gli si riempirono di lacrime. Mi baciò la spada, la lama che aveva affilato tante volte e se ne andò. Perché non lo resi libero seduta stante? Perché non mi venne in mente?
Mi sdraiai a riposare. Un buon guerriero sa usare il riposo quanto la lancia. Mi addormentai... Accanto a me la fedele sposa di sempre, la spada...
Sonno senza sogni. Credetti di sentire un clamore lontano. Doveva essere il mare. Ma all' improvviso sentii il sole alto negli occhi e urla che mi rimbombavano nelle orecchie.
Quanto tempo ho dormito? Non mi hanno svegliato! Non mi era mai successo. Presi le armi, e corsi in prima linea...

-Alfeo, perché non mi hai chiamato? Ho congedato Rus...
-Ti abbiamo visto dormire così bene. E poi per quello che servo in battaglia...
-Senti un po' chi parla, la spada più molle di Sparta!
-A che serve la più affilata delle spade se resta addormentata?


Era bello combattere a fianco di Alfeo. Era bello colpire il bersaglio giusto con la spada... A fianco di Cirofonte e di Ermes uccidevo un colpo dopo l' altro, ma non riuscivo a pensare alla morte. Non si è mai più vivi di quando si uccide. Megisto doveva aver sbagliato le sue profezie... come potevamo soccombere...

-Fuggono di nuovo!

...Se i barbari si scoraggiavano, se si stancavano di morire e ripiegavano ancora una volta? Durante tutto il giorno non avevano fatto altro che morire. Io ero...
...Esausto. Non potevo quasi sostenere la spada. Di nuovo cadde la notte. Non mi interessavano più le ombre, né Megisto e le sue profezie. Pensavo solo a dormire. E dormivo. A notte fonda mi svegliò la mano di Alfeo...
[
i]-Sveglia, Dionigi, c' è qualcosa...
-Questo focese porta cattive notizie... Non per niente hanno svegliato Leonida
-I persiani, re Leonida, vengono dal passaggio tra le montagne! Fra poco ti attaccheranno alle spalle!

-Non siamo riusciti a fermare i persiani, erano troppi.
-Il pianto non ha mai frenato un esercito. Ciò che è fatto è fatto.
-Bisogna fuggire dalle termopili finché siamo in tempo.[/i]
-Sparta ha ordinato di difendere le termopili, e questo faremo noi spartani. Gli alleati sono liberi di andarsene, se vogliono.

Perché fare nomi da consegnare alla vergogna? Meglio far nomi per la gloria. Non dirò gli alleati che se ne andarono. Dirò solo quelli che sono rimasti.

-Sapevo che potevamo contare sui tespiesi fino all' ultimo, Demofilo.
-Degli spartani e dei tespiesi sarà la gloria di salvare la Grecia, re Leonida.


Si, rimasero solo itespiesi. E i tebani, ma questi ultimi per punizione, perché avevano trattato con i persiani, allo spuntare del sole già marciavano contro gli invasori.

-Megisto, cosa ci fai qui? Ti avevo ordinato di tornare a Sparta. Il tuo mestiere è la profezia, non la guerra.
-La profezia e la guerra si incontrano nella morte, re Leonida, io resto.


Non aspettammo i barbari, attaccammo un' altra volta. Saremmo morti uccidendo!
I persiani caddero a centinaia, a migliaia, finché una freccia...
... Non colpì a morte re Leonida.
I barbari volevano impadronirsi del corpo. Lo difendemmo, mentre la morte scatenava la sua orgia. Il corpo di Leonida rimase a noi....
...Per pugnalare un principe barbaro...
...Citofonte ricevette un feroce colpo d' ascia alla nuca...
...Ferita atroce che lacerò i nervi. Braccia e gambe gli si contrassero violentemente. Saltava come una grande marionetta disarticolata...
Una lancia lo inchiodò a terra. Finalmente cessò di agitarsi. I barbari erano sempre di più. Dovevano sapere che presto saremmo stati attaccati alle spalle. Ripiegammo...
Faticavamo perfino a sostenere la spada, ma continuavamo a combattere. Una lancia cercò, trovandolo, il fianco di Alfeo.

-Alfeo!
-Lasciami, Dionigi, per me è finita...
-No, Alfeo, no...

Ma sapevo bene che la lancia era penetrata troppo a fondo. La punta aveva lacerato le interiora.

-Non parlare di morire, Alfeo! E' la vittoria, guarda quelle navi, sono navi di Atene! Hanno sconfitto la flotta persiana, Alfeo, abbiamo vinto!
-Alfeo torneremo a Sparta, faremo sacrifici nel tempio di Afrodite. Avrai per te le cosce di rame delle prigioniere più belle, e...

Morte spartana: un pugnale amico alla base del cranio che risparmiava il dolore. Parole gioiose che promettevano piacere...
Morto Alfeo che posso raccontare ancora? Arrivò l' attacco alle spalle. Ci incalzavano e noi cadevamo, fianco a fianco, spartani e tespiesi.
Ormos, Melas, Safni, quello con la bella sposa, tutti finirono per soccombere, sempre combattendo, benché le armi fossero ormai rotte, con le mani, coi denti.
Io, Dionigi, fui l' ultimo a soccombere. Tutti gli uomini mandati da Sparta a difendere le Termopili avevano obbedito agli ordini. Insieme ai loro alleati per tutta l' eternità, i tespiesi.
Mi risvegliai in un anfratto della montagna. Per farmi riprendere i sensi mi sfegarono un carbone acceso sul petto. Mi trascinarono fuori, al sole. La collera del Gran Re doveva essere enorme. Aveva fatto a pezzi il corpo di re Leonida.

-Spartano, ti pentirai di essere l' unico prigioniero.
-Domani ti farò tagliare la mani... Ti strapperò la lingua... Ti farò scoppiare gli occhi... Ma non ti castrerò, perché la tua stessa carne ti tormenti.


Mi lasciarono lì, legato ad una roccia, a riempirmi gli occhi, per l' ultima volta, di mare, e montagne, e cielo, e stelle, e del rosso e del porpora dell' alba.

-Cominceremo dalla mano destra, la mano della spada.

Guardai il cielo azzurro, gli uccelli.
Quando mi avrebbero bruciato gli occhi, avrei spinto in avanti la testa, i ferri sarebbero entrati nel cervello e sarebbe stata la morte istantanea, ero deciso.

-E allora che aspetti, Gran Re, che aspetti a dare l' ordine? Il giorno sta invecchiando.

Il sole ardeva sul pugnale di bronzo lavorato e sulla lama di ferro incandescente. Il Gran Re sembrava vecchio di secoli.

-Che genere di uomo sei, spartano?
-L'hai detto tu stesso, uno spartano.


Lo guardai negli occhi stanchi. Il Gran Re, ormai senza più la collera della battaglia, era un piccolo uomo che per una volta almeno avrebbe voluto sentirsi spartano.

-Vattene, uomo di Sparta. Tu sei più re di me, sei re di te stesso... Vattene.

Camminai verso il nord, i sentieri del sud mi erano vietati. Tre iloti fuggitivi si unirono a me. Andavamo versola scoscesa Tracia, non mi importava dove, qualsiasi luogo era lo stesso. Il vento fra gli alberi era sempre uguale, e sapeva sospirare un solo nome: Alfeo. Io, amico, sono stato alle Termopili. Tanti morti pesano, ma uno spartano non piange.
Lazio, ti amo con tutta la feniletilamina, l’ossitocina, la dopamina e la serotonina che mi circolano nel cervello, che rendono il mio pensiero poco logico e che mi procurano strane sensazioni in tutta l’anatomia e battiti sconclusionati nell’organo principale del mio apparato circolatorio.

Panzabianca

Re:SEBASTIANO FANTE ITALIANO
« Risposta #462 : Giovedì 10 Settembre 2020, 09:44:45 »
E' ora di ripartire!


Ragazzo spazzola

Una storia vera

Parte prima

Italia 1945. Quadro salentino. Provo a immaginare. Una guerra finita da poco e tanto da fare o rifare. Dai suoi occhi verdi di bambino, Nicola si riempie lo sguardo da parte a parte nell’orizzonte. È un balcone a scivolo la sua fantasia dove tutto è possibile.

Nicola sente il profumo della vita che sboccia e vola irraggiungibile sulla sua bici tra lecceti e muri a secco. Nel sole della campagna pugliese i sogni di un bambino crescono limpidi e beati. Certo, però, Nicola ha già le idee chiare: a 11 anni lui vuole fare il barbiere. Quinto di sette figli, Nicola vuole fare proprio questo, perché è la barberia da Nino il posto del paese dove si viaggia e, se vogliamo, si sogna di più.

Le storie che si raccontano lì lui non le aveva mai sentite da nessuna altra parte ed è proprio lì che lui vuole stare. Si, il barbiere, che però non basta. Nino il titolare, arriva a bottega sempre tardi. Le prime ore del mattino le trascorre a bordo della sua bicicletta coi freni a bacchetta, di casa in casa a prendere le pagnotte lievitate, ma ancora da cuocere, per portarle poi al forno comunale.

Nino carica il pane su una lunga palanca di legno, quindi sulla testa, e poi, come un equilibrista, via sul pedale. Nicola lo ammira, arriva prima a bottega e la tiene in ordine come ogni buon 'ragazzo-spazzola' avrebbe detto qualcuno. Nicola guarda, ascolta e impara. Bambino vispo con ancora la guerra negli occhi, lui ha la mano delicata e aspetta la sua occasione che, come ogni occasione, un giorno finalmente arriva.

C'è da andare a casa del signor Alfonso a fargli la barba. Un tempo, in certi posti, chi se lo poteva permettere non si spostava da casa manco per farsi la barba. Nino il titolare è in ritardo e la signora Luisa attende davanti alla bottega già da un po’. La donna ha e mette fretta. E allora: "dì un pó, Nicó, Tu la sai fare la barba?" fa con aria risoluta la donna al bambino. Nicola ha un attimo di incertezza.

A pensarci bene, lo sa anche un moccioso, radersi non è una cosa banale. Peggio ancora farsi radere. In un certo senso, quando ci si fa radere, si mette la propria vita nelle mani di un’altra persona. E’ un atto di fiducia estremo. E chi è mai quell’uomo che affiderebbe la propria incolumità alle malferme mani di un bambino? Nicola ci pensa ma non esita. Decide che è giunta l’ora di fare il salto, e accetta.

Così, presi gli arnesi del mestiere, inforca la bici e parte alla volta di Casa Leone, la dimora di Alfonso Leone, un ricco notabile del posto. Strada sterrata, qualche chilometro tra i campi di grano e gli ulivi, poi finalmente il vialone tra i muriccioli a secco dell'enorme bianchissima masseria. Nicola appoggia la bici subito prima dell’entrata, un grande arco in pietra sempre aperto, e si presenta: “buon giorno, Nicola sono, per la barba del signor Alfonso…” La signora Luisa è già lì, arrivata poco prima a bordo del suo veloce calesse.

Alla vista del luogo, Nicola resta impalato per qualche istante. Per lui è la prima volta. Un accecante bianco che balugina nei suoi occhi scuri socchiudendogliene uno. Quell’eterna, spietata battaglia tra luce e ombra, che trova pace solo nei finestroni di legno color verde bottiglia infissi negli stipiti di pietra viva di questa enorme casa bianca. La signora Luisa gli si fa incontro. Lei è la giovane moglie di Don Leone, la moglie di seconde nozze. E’ qui da qualche anno, viene da Reggio Calabria. Raramente si vede in paese, qui lei è straniera. Ma è bella: fisico filiforme, incarnato moro, sottili capelli lisci e castani sulle spalle, occhi scuri e profondi, viso dolce e affusolato da Madonna gotica, gesto elegante.

Oggi ha un abito fiorato chiaro che guarnisce con scialle di lino bianco dal delicato panneggio. “Vieni Nicó, ti accompagno da don Alfonso” fa al bambino seriosa la giovane signora prendendolo per mano. La donna lo conduce in un largo atrio senza tettoia con al centro un tavolino accompagnato da due sedie non uguali, tutto in un bianco senza fine. Il luogo è aperto ma curato dall’ombra di ristoro di un grande, gigantesco albero di fico. La masseria sembra essergli stata costruita attorno. Infine, delle larghe scale che costeggiano parte delle pareti e portano verso le stanze alte, quelle private.

Ma la signora si ferma all’inizio delle scale: “va Nicó, su troverai delle altre signore ed il signor Alfonso che ti aspetta” fa la donna accarezzandolo teneramente. Nicola le sorride e fa come lei dice. Poi, con due balzi sale verso la sommità e d’un baleno è già sulla porta appena abboccata. L’apre, si infila e trova un lungo, fresco corridoio. Un pavimento a quadri bianchi e neri, lucidissimo. Nicola avanza con cautela. Si sentono delle persone parlare, una signora fa capolino dalla porta di una delle grandi stanze che su quel corridoio si affacciano.

Poi lei si accorge della presenza del bambino. “Sono qui per la barba al signor Alfonso, Nicóla sono, il barbiere” l’anticipa lui. “Si, vieni vieni, Don Alfonso è qui” fa la signora più anziana uscendo dalla stanza in compagnia di un’altra giovanissima, una ragazza. “Tu fai, e quando è tutto a posto ci chiami che continuiamo a vestirlo… Intanto lui ha già l’asciugamano caldo sulla faccia. Sapevamo che eri a minuti…” conclude la signora anziana. La donna gli parla impalata insieme alla ragazza davanti la porta della stanza, velando sul resto lo sguardo curioso del bambino. Nicola riesce solo ad intravvede che sul letto c’è sdraiato un uomo in pigiama. Ma non capisce.

Le donne gli parlano mentre escono e Nicola rispettoso le ascolta e le segue con gli occhi mentre lui entra nella stanza voltando però le spalle a Don Alfonso. Un curioso balletto.
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Panzabianca

Re:SEBASTIANO FANTE ITALIANO
« Risposta #463 : Giovedì 10 Settembre 2020, 14:01:33 »
Ragazzo Spazzola

Una storia vera

Parte seconda

 
Poi le due se ne vanno chiudendosi dietro la porta della stanza, e Nicola rimane col signor Alfonso che dorme beato in pigiama a righe bianco e celesti, col viso avvolto nell’asciugamano fumante di vapore. “Eccellenza Vostra, buon giorno, Nicola, suo barbiere di fiducia per servirla, …dorme?” fa timidamente Nicola nel silenzio della stanza. “Non si deve preoccupare di nulla, signor Alfonso carissimo, ho una mano delicatissima e farò presto” continua il bambino, tuttavia, senza ottenere in cambio manco un'alzata di sopracciglio.

Ma il bambino non gli dà peso. Il padrone dorme profondamente e Nicola pensa che comunque non dovrà svegliarlo. Anzi, sicuramente il signor Alfonso gli sarà grato quanto più lui riuscirà a dormire senza fastidi, infine risvegliandosi gradevolmente sbarbato. E Nicola è vispo e operoso. Dopo tutto, lui è qui per far la barba a don Alfonso e dunque la barba comincia a fare.

Così, preso un cucchiaio di crema da barba ed impregnato il pennello nell’acqua calda lasciatagli dalle due donne sul comodino in una ciotola di rame, il giovane barbiere comincia e ruotarlo all’interno della sua tazza fino ad ottenere una schiuma bella densa. Poi toglie con cura l’asciugamani dal viso del signor Alfonso e, come gli ha insegnato il maestro Nino, gli applica la schiuma sul viso maneggiando dolcemente il pennello con movimenti rotatori, fino quasi a coprirne la faccia. Prim’ancora però ne osserva il viso: un viso lungo e cavallino, occhi forse grandi, una barba di tre, quattro giorni, una fossetta sul mento e, infine, la bocca che potrebbe celare un gran sorriso e che invece sembra serrata. A compendio, un’espressione di infinita pace.

Ma, ci siamo. Nicola inizia delicatamente a radere Don Alfonso ed usa la minor pressione possibile. Se preme, rischia di sfregiare la faccia al suo illustre primo cliente, e questo non deve avvenire. Il bambino è abile ed inclina la lama il più lontano possibile dalla faccia del signor Alfonso. Per evitare pressioni accidentali, con destrezza rara per un bambino, il piccolo barbiere mantiene nella mano il rasoio dalla punta del manico, gestendo la parte più difficile da gestire: l’angolazione del rasoio. Il manico dello strumento è perfettamente parallelo al pavimento.

Nicola abbassa lentamente l’impugnatura fino a quando la lama potrà tagliare la barba di Don Alfonso. E Nicola va. Assai abilmente taglia e rade la parte destra del viso del Signor Alfonso, quella più difficile perché inclinata verso il cuscino, senza però che questi accenni minimamente ad infastidirsi o peggio, a svegliarsi. Nicola gli alza e gli tira distendendola di volta in volta la parte di pelle interessata al suo lavoro. Friniscono le cicale su questo caldo pomeriggio salentino e tutto sembra filare liscio, il lavoro appare pulito pulito. La guancia destra del cliente, senza nemmeno il contropelo, è rasata alla perfezione, dalla basetta alla parte del collo-gozzo. Non rimane che concludere proseguendo con l’agile destrezza finora dimostrata.

E allora Nicola dolcemente accompagna il viso del signor Alfonso a poggiarsi dall’altra parte. Il cliente ne segue placido i movimenti. Il bimbo si alza giusto il tempo di asciugarsi il sudore per poi di seguito svelto ripartire. Però Il viso del signor Alfonso è tornato a stare come prima, ed impunito e candido espone la parte rasata invece di quella ancora da lavorare. Così Nicola il barbiere si riarma di pazienza e con nuovo, piumato tocco riporta il viso del Signor Alfonso nella posizione utile ad una completa rasatura. Ma no, al signor Alfonso piace stare nella posizione di partenza e la sua testa si gira ancora una volta.

Però a Nicola non manca la pazienza, e ritenta la manovra fino a quando il signor Alfonso pare accontentarlo ed accomoda placidamente la barbuta guancia a favore di rasoio. E invece no, ancora no. Don Alfonso reclina nuovamente il viso dall’altra parte e questa volta lo fa aprendo i grandi occhi azzurri. “Cazzo, l’ho svegliato! Ora mi rimprovera di sicuro” pensa subito il bambino. “Mi scusasse, Eccellentissimo, avevo bisogno che mi favorisse la guancia, sarò stato indelicato… mi perdoni, faccio mille scuse, non succederà più” fa Nicola, come sempre d’anticipo sulla reazione dell’interlocutore. Ma il signor Alfonso non risponde. No, lui non risponde più ed ha uno sguardo fisso, troppo fisso anche per un cliente incazzato.

E allora, d’improvviso come a causa di una stilettata, forsanche per un colpo di rasoio vibrato a tradimento sulla sua ingenuità, Nicola capisce tutto e di scatto si fa indietro. Vola il rasoio sul letto, per terra invece la tazza e il pennello. Terrorizzato, Nicola molla tutto e con un balzo ferino fa per scappare verso l’uscita. Ma la porta è chiusa, l’avevan chiusa quelle signore e lui l’ha dimenticato.

Si, la porta è chiusa ed è dura, inscalfibile anche al terrore di un fuggiasco. Lui l’ha dimenticato. Passano due ore e Nicola è ancora là, si risveglia con la faccia gonfia e la testa livida di un enorme bernoccolo. Meglio: passano due ore e Nicola si risveglia con la faccia gonfia e la testa livida di un enorme bernoccolo, sul letto. Anzi, no, meglio ancora: passano due ore e Nicola si risveglia con la faccia gonfia e la testa livida di un enorme bernoccolo, sul letto e accanto al morto. Ma prima di ritentare la fuga, Nicola sente stringere la sua mano. E’ la signora Luisa che gli sorride e lo accarezza.

E il bambino si rassicura. “Nicola, come posso farmi perdonare? Vuoi un po’ d’acqua, una gazzosa, del miele?” materna gli chiede la donna. “No no, quando ho la febbre il medico mi consiglia un bicchiere di vino rosso” risponde il bambino con un filo di voce. “Ok, ma poi mi prometti che finisci il tuo lavoro? ...” Nicola beve il suo bicchiere di vino e finisce la barba, deve. Poi di nuovo sulla sua bici vola verso casa, da qualche parte in quel tramonto salentino. Perché Nicola vuol fare il barbiere ed ogni lasciata è persa.
 

P.s. Nicola (nome di fantasia) ora è rinomato barbiere pugliese sulla Casilina che ormai da più di 50 anni taglia i capelli ai vivi, compreso me. Ma, certo, lui però cominciò col morto.
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Offline Arch

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Re:SEBASTIANO FANTE ITALIANO
« Risposta #464 : Giovedì 10 Settembre 2020, 20:47:18 »
Tremendo. Bello.

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Re:SEBASTIANO FANTE ITALIANO
« Risposta #465 : Martedì 15 Settembre 2020, 20:24:20 »
 :D Arch, la storia di Nicola Panza ce l' aveva wazzappata un bel po' di tempo fa, che nne te lo ricordi?
Qua ci limitiamo solo a rileggerla volentieri ed a promettere solennemente a Panza che uno di questi giorni andremo a farci belli with him nel salone del Figaro della Casilina.
Lazio, ti amo con tutta la feniletilamina, l’ossitocina, la dopamina e la serotonina che mi circolano nel cervello, che rendono il mio pensiero poco logico e che mi procurano strane sensazioni in tutta l’anatomia e battiti sconclusionati nell’organo principale del mio apparato circolatorio.

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Re:SEBASTIANO FANTE ITALIANO
« Risposta #466 : Mercoledì 16 Settembre 2020, 19:54:50 »
Io non ho uozzappe, Pa'. Ho sentito Leo. Ci aspetta. Annamo quando?

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Re:SEBASTIANO FANTE ITALIANO
« Risposta #467 : Mercoledì 16 Settembre 2020, 20:14:23 »
Pure subito.
In Brianza per ora non hanno bisogno di me, mò sto de notte a Paliano e de giorno a Colleferro a seguire i lavori di ristrutturazione della casa che mio figlio ha avuto in eredità dai nonni materni.
Lavori praticamente finiti, quindi se se tratta de fasse n' abbuffata scorciosana sono pronto. Anzi, deppiù :P
Lazio, ti amo con tutta la feniletilamina, l’ossitocina, la dopamina e la serotonina che mi circolano nel cervello, che rendono il mio pensiero poco logico e che mi procurano strane sensazioni in tutta l’anatomia e battiti sconclusionati nell’organo principale del mio apparato circolatorio.

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Re:SEBASTIANO FANTE ITALIANO
« Risposta #468 : Mercoledì 16 Settembre 2020, 20:32:59 »
Sentimose, chiamamolo, partimo.

Offline Jim Bowie

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Re:SEBASTIANO FANTE ITALIANO
« Risposta #469 : Mercoledì 16 Settembre 2020, 22:54:47 »
 :D Arch, la storia di Nicola Panza ce l' aveva wazzappata un bel po' di tempo fa, che nne te lo ricordi?
Qua ci limitiamo solo a rileggerla volentieri ed a promettere solennemente a Panza che uno di questi giorni andremo a farci belli with him nel salone del Figaro della Casilina.
Anfatti mi sono fermato dopo le prime righe. Non mi piacciono i rerun.


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Re:SEBASTIANO FANTE ITALIANO
« Risposta #470 : Mercoledì 16 Settembre 2020, 22:56:16 »
Pure subito.
In Brianza per ora non hanno bisogno di me, mò sto de notte a Paliano e de giorno a Colleferro a seguire i lavori di ristrutturazione della casa che mio figlio ha avuto in eredità dai nonni materni.
Lavori praticamente finiti, quindi se se tratta de fasse n' abbuffata scorciosana sono pronto. Anzi, deppiù :P
Annate ad abbuffavve ad Acuto.


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Re:SEBASTIANO FANTE ITALIANO
« Risposta #471 : Giovedì 17 Settembre 2020, 20:58:41 »
Lo faremo quando Leomeddix si trasferirà da quelle bande.  :D
Lazio, ti amo con tutta la feniletilamina, l’ossitocina, la dopamina e la serotonina che mi circolano nel cervello, che rendono il mio pensiero poco logico e che mi procurano strane sensazioni in tutta l’anatomia e battiti sconclusionati nell’organo principale del mio apparato circolatorio.

Panzabianca

Re:SEBASTIANO FANTE ITALIANO
« Risposta #472 : Lunedì 12 Ottobre 2020, 09:21:24 »

Cruise control
ROMA, 12/10/2020
Stamani, Via dei Fori Imperiali, assembramento di mezzi e uomini italo-americani, dispiegamento hollywoodiano: insomma 'na troupe cinematografica.
Vengo dal passetto al lato dei mercati Traianei. Chiedo ad un ragazzo intento su un pc e lui mi risponde in inglese. Capisco ma non mi basta. Un uomo corpulento con gli occhiali sul naso e la giacca fosforescente da pompiere mi si fa incontro. Credo sia alla ricerca di qualcuno. Penso io: è italiano.  Gli chiedo: cos'è sta cosa? E lui, molto cortesemente, mi fa:"è un film con Tom Cruise, nulla di preoccupante".
Grazie,
"Si figuri".
Poi, finalmente trova la persona che cercava, la tira per un braccio come per appartarsi e: "...senti, sta cazzo de scena caa motoretta..."
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Offline Frusta

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Re:SEBASTIANO FANTE ITALIANO
« Risposta #473 : Mercoledì 3 Febbraio 2021, 15:19:13 »
Dopo essermi consultato con Leo e Panza (con Arch no perché l' intenzione di questo post e di quelli che seguiranno è quella di fare una sorpesa al fanciullino pascoliano che in lui vive ed alberga) ho deciso che su Sebastiano ci stessero bene anche la favole che raccontavo a mia nipote quando era più piccola (tutte ambientate a Sgurgola, il favoloso reame in cui tutti si chiamano Giovanni) e che ora, ormai undicenne, ha chiesto per iscritto.
Ne mando una a lei e una a voi, cominciando da quella italocalviniana di:

GIOVANNI SENZAPAURA

Questa è la coraggiosa storia del coraggioso Giovanni Senzapaura, talmente coraggioso e senza paura che fu soprannominato Senzapaura perché era coraggioso e senza paura.
Nel regno di Sgurgola c’ era un castello in cui nessuno era mai entrato perché tutti quelli che avevano provato a farlo erano rimasti atterriti dalla paura ed erano scappati via a gambe levate, raccontando poi chi storie di mostri orribili, chi di orribili fantasmi e chi addirittura di fantasmi di mostri, e quindi doppiamente orribili.
Si diceva che dentro quel castello c’ era un tesoro, e chi fosse riuscito ad entrarvi non solo se ne sarebbe impossessato, ma sarebbe diventato padrone del castello, e, automaticamente, re di Sgurgola.
Ogni anno si sceglievano le tre persone più coraggiose del circondario e si faceva una gara per vedere chi riusciva nell’ impresa, ma in cento anni non c’ era riuscito mai nessuno.
Allo scadere del centesimo anno tutti speravano che finalmente qualcuno potesse farcela, soprattutto gli sgurgolani, che si erano stufati di stare cento anni senza re e che speravano che a vincere fosse uno di loro, perché di mettersi a fare i sudditi di qualcuno che veniva da un altro paese non se la sentivano proprio.
Dei tre concorrenti di quell’ anno, infatti, solo uno era sgurgolano, mentre gli altri due erano rispettivamente di Morolo e di Supino.
Il caso volle che si chiamassero tutti e tre Giovanni, e quindi, per distinguerli, il giudice chiese loro di dichiarare oltre al nome anche il soprannome.
Il primo veniva da Morolo, e dichiarò di chiamarsi Giovanni Schiaffarovella.
Lo avevano soprannominato così perché dimostrava il suo coraggio tirando schiaffi alle rovelle.
Diceva sempre:
“Io se incontro una rovella la prendo a schiaffi! E infatti stamattina, venendo a Sgurgola, ne ho incontrate due per strada e le ho talmente riempite di schiaffi che voglio proprio vedere se avranno il coraggio di ripresentarsi da queste parti!”
Tutti si chiedevano cosa fossero queste rovelle, dato che non ne avevano mai vista una, ma Giovanni Schiaffarovella diceva:
“E’ ovvio che non le avete viste: siccome hanno paura che le prenda a schiaffi, se hanno il minimo sospetto che ci possa essere io in giro mica si fanno vedere!”
Il secondo veniva da Supino, e dichiarò di chiamarsi Giovanni Pizzaecavoli.
Lo avevano soprannominato così perché dimostrava tutto il suo coraggio mangiando pizza e cavoli.
A Supino era considerato estremamente coraggioso, perché si sa che i supinesi hanno una paura tremenda della pizza con i cavoli, e infatti non se la mangiano nemmeno se li prendi a bastonate.
Questo perché tanti anni fa un supinese era andato a comprare la pizza con i cavoli e mentre attraversava la strada era finito sotto a un tram.
Ancora oggi, infatti, per paura di fare la stessa fine, ogni supinese, al solo sentir nominare la pizza con i cavoli, trema come una foglia.
Invece Giovanni Pizzaecavoli non solo non aveva paura di arrivare fino a Frosinone per andare a comprarla, ma ci faceva addirittura colazione inzuppandola nel cappuccino.
E tutti allora a dire:
“Perbacco che coraggio! Ci vuole solo il coraggio di uno come Giovanni Pizzaecavoli per mangiare una pizza coi cavoli inzuppata nel cappuccino!”
Il terzo lo conoscevano tutti: era Giovanni Senzapaura.
Era nativo di Sgurgola, era sempre nato a Sgurgola ed aveva intenzione di rinascere a Sgurgola ogni volta che sarebbe rinato, quindi ogni sgurgolano faceva tifo per lui perché da tutti veniva considerato uno sgurgolano al 100%.
Lo chiamavano Giovanni Senzapaura perché non aveva paura di niente.
E infatti se qualcuno gli si avvicinava zitto zitto alle spalle e gli faceva: “BU!”
Lui non solo non trasaliva, ma diceva:
“Hahà, non mi hai fatto paura per niente!”
Se per esempio vedeva una zanzara volare, non si metteva mica lì ad urlare oddioddio, oddiochepaura, aiutoaiutooo una zanzaraaa, ma si spruzzava addosso l’ Autan e diceva:
“Hahà, una zanzara, hahà ci vuole ben altro per mettere paura a me!
Se per esempio andava via la corrente, lui non è che si metteva a frignare per paura del buio e a balbettare oddioddio, ma prendeva la candela che per prudenza teneva sempre in tasca e l’ accendeva dicendo:
“Hahà, ma chi si crede di essere questo buio per mettere paura a me?”
Se per esempio di notte arrivava un temporale ed in cielo scoppiavano lampi, tuoni, fulmini e saette, lui, anche se tremava un po’, non si perdeva d’ animo, ma si ficcava sotto al letto, si tappava le orecchie, aspettava che finisse il temporale e poi usciva fuori dal suo nascondiglio e diceva:
“Hahà, non ho avuto paura per niente, a me i tuoni mi fanno un baffo!”
Insomma tutti gli sgurgolani facevano tifo per lui e speravano che diventasse il loro re perché da quelle parti non s’ era mai visto nessuno che  non avesse così paura di niente come lui.
Il giudice della gara tirò a sorte ed il primo estratto ad entrare nel castello fu Giovanni Schiaffarovella.
Il quale proprio davanti al cancello si trovò di fronte, per la prima volta in vita sua e in tutta la sua spaventosa possanza, una rovella in carne ed ossa.
Lui, anche se si era sempre spacciato per ardimentoso schiaffeggiatore di rovelle, in realtà non ne aveva mi vista nessuna, e vedendone finalmente una che gli si accostava con aria minacciosa, girò subito sui tacchi e si mise a correre a gambe levate inseguito dalla rovella che urlava:
“Fermati vigliacco, fermati codardo pusillanime che ti voglio riempire di schiaffi!”
La scena fu talmente veloce, e sia Giovanni Schiaffarvella che la  rovella che lo inseguiva scapparono così rapidamente, che in un attimo furono soltanto due puntini lontani all’ orizzonte.
E infatti se chiedete ad uno sgurgolano di descrivervi come era fatta la rovella non può, perché non aveva fatto in tempo ad inquadrarla che era già sparita.
Il secondo estratto fu Giovanni Pizzaecavoli, il quale attraversò la piazza davanti al cancello nel momento preciso in cui arrivava un tram, che gli passò sopra schiacciandolo e facendogli prendere la precisa forma di una pizza coi cavoli, con grande costernazione dei supinesi ai quali ora chi glielo leva più dalla testa che se mangi pizza e cavoli finisci sotto a un tram?
Rimaneva Giovanni Senzapaura, il quale, in realtà, anche se faceva lo spaccone, di paura ne aveva parecchia, e infatti ne aveva talmente tanta che, temendo l’ agguato di chissà quali spaventosi mostri, se la fece sotto proprio nel momento in cui varcava il cancello.
E fu la sua fortuna, perché nel cancello c’ era meccanismo che scattava quando uno tentava di aprirlo e che consisteva in una mannaia col manico fissato ad una molla: chi entrava faceva scattare la molla e la mannaia gli tagliava la testa.
Tutti quelli che fino ad allora avevano tentato l’ impresa avevano visto la mannaia e, temendo per la propria testa,  avevano prudentemente rinunciato a proseguire.
Poi, per non fare la figura dell’ inetto che non è capace nemmeno di disinnescare un semplice meccanismo a molla che quando attraversi un cancello ti fa saltare la testa, ognuno di loro s’ era inventato una storia diversa su quanto di terribile, inaudito ed incredibilmente spaventoso stesse in agguato all’ entrata del castello.
Giovanni Senzapaura invece, dato che se l’ era fatta addosso per la paura, aveva attraversato il cancello camminando con le ginocchia piegate nella classica andatura di chi si è appena cacato sotto proprio nel momento in cui era scattato il meccanismo, e la mannaia gli era passata ad un centimetro dalla testa senza nemmeno sfiorarlo.
E fu così che Giovanni Senzapaura, totalmente ignaro del pericolo appena scampato, entrò nel castello, ne divenne proprietario, si impadronì del tesoro e fu proclamato re di Sgurgola.
E soprattutto non seppe mai il motivo per cui lui aveva varcato il cancello senza problemi mentre tutti quelli che lo avevano preceduto non c’ erano riusciti.
Però siccome era pauroso ma non era fesso, raccontò a tutti che lì c’ era un mostro orribile che lui aveva fatto scappare con la sola sua presenza, e che non sarebbe più tornato per la paura di dover affrontare uno che si chiamava Giovanni Senzapaura.
Tutti gli credettero e ancora adesso se andate a Sgurgola e chiedete chi è l’ uomo più coraggioso che sia mai vissuto da quelle parti ti risponderanno in coro: Giovanni Senzapaura!


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Offline leomeddix

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Re:SEBASTIANO FANTE ITALIANO
« Risposta #474 : Mercoledì 3 Febbraio 2021, 15:59:05 »
Grande Frusta! Con le tue bellissime storie anche noi vecchietti torniamo un po' bambini... :clapcap:

È GIÀ SETTEMBRE ? NON CI POSSO CREDERE! LA MIA VITA STA PASSANDO TROPPO VELOCE. LA MIA UNICA SPERANZA È CHE SI VADA AI TEMPI SUPPLEMENTARI. (CHARLES M. SCHULZ)

Offline Arch

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Re:SEBASTIANO FANTE ITALIANO
« Risposta #475 : Mercoledì 3 Febbraio 2021, 16:51:40 »
Grazie. Infatti più s'invecchia e più si torna fanciulli. E io lo sono. Letto con emozione e grande piacere. ;D

Panzabianca

Re:SEBASTIANO FANTE ITALIANO
« Risposta #476 : Mercoledì 3 Febbraio 2021, 17:02:52 »
vero. Io a 51 ciò* ancora la capoccia dei 20.

*forma froustiana

Offline Frusta

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Re:SEBASTIANO FANTE ITALIANO
« Risposta #477 : Giovedì 4 Febbraio 2021, 13:37:30 »
PILONETTO

Questa è l’ avventurosa ed eroica storia dell’ avventuroso ed eroico Giovanni Pilonetto, vissuto nel periodo in cui a Sgurgola, in onore di Giovanni Senzapaura si chiamavano tutti Giovanni, e famoso in tutta Sgurgola perché nessuno sapeva il motivo per cui lo avevano soprannominato così.
Dovete sapere che a Sgurgola tutti, ma proprio tutti, avevano un soprannome di cui vantarsi.
C’ era Giovanni Galeotto che si chiamava così perché si vantava di essere un avanzo di galera; c’ era Giovanni Trucchiasassi che si vantava di essere soprannominato così perché come sapeva trucchiare i sassi lui non li sapeva trucchiare nessuno; c’ era Giovanni Pallainpetto, che si vantava di essere soprannominato così perché quando giocava a pallone nel derby contro il Morolo e gli facevano un cross, nessuno meglio di lui sapeva stoppare la palla col petto; c’ era Giovanni Bombarolo, che si vantava di essere soprannominato così  perché era un noto pescatore di frodo e pescava buttando le bombe nel fiume Sacco,  c’ era Giovanni Scaricaseggiole, che se avevi una seggiola da scaricare bastava fargli un fischio che lui diceva “ecchemequà!” ed in un paio d’ ore, massimo tre, insomma non più di quattro te l’ aveva bella che scaricata; c’ ‘era Giovanni Piedistorti che era stato soprannominato così perché effettivamente aveva i piedi storti, anche se in questo caso tutti si chiedevano che scemenza di motivo per vantarsi fosse quello, ma sorvoliamo perché in fondo questi erano affari suoi …
Insomma tutti sapevano l’ origine di un soprannome di cui vantarsi, tranne il povero Giovanni Pilonetto, a cui nessuno aveva spiegato il motivo per cui lo avevano soprannominato Pilonetto.
Gli dicevano:” Tu sei Pilonetto e basta, prendere o lasciare!”
E lui, pur di non restare senza soprannome e correre il rischio di essere soprannominano Giovanni il senza soprannome, si era accontentato e si era tenuto quello.
Aveva pure maldestramente  tentato di dire che lo avevano soprannominato così perché quando era piccolo aveva partecipato al primo torneo delle sei nazioni di  rugby, e siccome era il più bravo di tutti  ed era il pilone centrale della squadra ma aveva solo quattro anni, lo avevano soprannominato Pilonetto, e che se la cosa gli fosse capitata da adulto sicuramente lo avrebbero chiamato Pilonone, ma non ci aveva creduto nessuno.
Del resto quando mai si è visto un bambino di 4 anni giocare nella squadra nazionale di rugby? E poi era una balla che non stava in piedi, dai! Come poteva Pilonetto che era nato nel 1848 avere 4 anni in un torneo che si si sarebbe svolto nel 2000, quando cioè di anni lui ne avrebbe avuti almeno 152?
Insomma, si era quasi rassegnato al fatto di dover sopportare di vivere con la vergogna di essere chiamato con un soprannome di cui non conosceva l’ origine quando ebbe un’ idea geniale: i soprannomi vengono dati in virtù di una caratteristica fisica o in seguito ad un qualche tipo di impresa; Pedistorti, ad esempio aveva avuto la fortuna di nascere con i piedi fatti  a banana, e lui se fosse nato senza una gamba si sarebbe potuto chiamare Gambadilegno, o Capitan Uncino se fosse nato senza un braccio, ma purtroppo era nato con tutti e quattro gli arti regolarmente al loro posto, e di tagliarsene uno per farsi dare un soprannome di cui fosse certa l’ origine a dire la verità non se la sentiva, quindi non gli restava altro da fare che compiere un’ impresa, possibilmente eroica e/o avventurosa, meglio se eroica ed avventurosa insieme.
Diceva fra sé: se per esempio uccido un drago mi potranno soprannominare Giovanni il Draghicida, che suona pure meglio di Pilonetto, oppure se salvo una principessa mi potranno soprannominare Giovanni il Salvaprincipesse, e così via.
Partì dunque all’ avventura verso il paese più vicino, che guarda caso, era Morolo, e chiese al primo morolense che incontrò se poteva presentarlo al ciambellano di quel paese, a cui avrebbe chiesto di essere presentato al re per vedere se aveva una qualche azione eroica ed ardimentosa da affidargli.
Quello gli rispose  che Morolo non era affatto un regno, non lo era mai stato e non lo sarebbe stato mai, perché l’ abitante di Morolo è geneticamente repubblicano e mai e poi mai avrebbe accettato di essere suddito di qualcuno, quindi non c’era né un re né tantomeno un ciambellano a cui chiedere di far da tramite per ottenere affidamenti di imprese eroiche ed avventurose.
E poi –aggiunse- a che ti serve diventare un eroe avventuroso? Non lo sai che su cento che ci provano al massimo ce ne riesce uno, due al massimo e tutti gli altri se gli va bene finiscono all’ ospedale e se gli va male al cimitero?
Ma non stai bene con le ossa sane?
E allora il povero Pilonetto gli confessò tutte le sue frustrazioni e tutto il disappunto che gli causava la mancata conoscenza dell’ origine del suo soprannome.
E concluse: Beato te che non hai questi problemi.  A te, per esempio, come t’ hanno soprannominato?
- Giovanni il Supinese.
- Perché vieni da Supino, immagino.
- Esatto! E ti dirò di più: io prima avevo esattamente il tuo stesso problema, ero soprannominato Giovanni Lacommare, ed era una cosa che non stava né in cielo né i terra, dato che io, essendo un uomo, non potevo essere la comare di nessuno.
Avevo, questa è la brutale realtà, un soprannome senza origine esattamente come il tuo, quindi immagina che popo’ di disperazione!
Ma l’ ho risolta stacosa eh, l’ ho risolta eccome: mi sono sposato con una morolense e sono venuto ad abitare qui, e siccome nessuno conosceva il mio soprannome, sapendo che venivo da Supino, mi hanno chiamato il Supinese.
- Geniale! Ammise Pilonetto, quindi se facessi come te cesserei automaticamente di essere Pilonetto, mi soprannominerebbero lo Surgolano ed avrei risolto il problema.
Ma dove la trovo una morolense che mi si sposa?
- Te la fornisco io! Ho giusto una figlia zitella che qua non se la sposano nemmeno se li prendi a nerbate, e chissà che farebbe per trovare marito.
Ti avverto però che non è tanto bella, anzi ad essere proprio sinceri più che ad una donna somiglia ad uno scaldabagno, però se proprio vai cercando un’ impresa veramente eroica ed ardimentosa questa è proprio l’ occasione giusta.
- Non fa niente che sembra uno scaldabagno  -disse Pilonetto- pur di conquistarmi un soprannome a denominazione d’ origine controllata sposerei un’ autobotte.
E così fece: da vero eroe si sacrificò sposando lo scaldabagno e con lei visse felice e contento ostentando con fierezza il suo nuovo soprannome: Giovanni lo Sgurgolano!
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Offline leomeddix

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Re:SEBASTIANO FANTE ITALIANO
« Risposta #478 : Giovedì 4 Febbraio 2021, 20:56:45 »
Un applauso al grande Frusta, il nostro Italo Calvino (e un applauso anche al grande Pilonetto)  :clapcap:
È GIÀ SETTEMBRE ? NON CI POSSO CREDERE! LA MIA VITA STA PASSANDO TROPPO VELOCE. LA MIA UNICA SPERANZA È CHE SI VADA AI TEMPI SUPPLEMENTARI. (CHARLES M. SCHULZ)

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Re:SEBASTIANO FANTE ITALIANO
« Risposta #479 : Mercoledì 10 Febbraio 2021, 09:46:22 »
POETESSA DELLA POESIA GIOVANNI MARIA

Nei tempi in cui a Sgurgola regnava Giovanni Senzapaura, in suo onore tutti gli sgurgolani, che fossero maschi o femmine non importa, si chiamavano Giovanni.
Le donne comunque erano facilmente distinguibili dagli uomini perché di cognome si chiamavano tutte Maria.
Esattamente in quei tempi viveva Giovanni Maria, una bambina dalle idee chiarissime che fin dal primo giorno di scuola aveva deciso che, non appena avesse imparato a scrivere, sarebbe diventata una poetessa.
Ed infatti la prima cosa che scrisse fu l’ incipit di una poesia di cui, ancor prima di scriverla, aveva già in mente il titolo: IL PASTORELLO.
Quindi prese un foglio di carta e con una matita HB, cioè quella con la mina a morbidezza media che di solito usano i poeti, scrisse:

IL PASTORELLO
C’ era una volta un pastorello
che aveva dieci pecore e un agnello.


-Brava! -le disse la maestra- E poi?
-Ci sto pensando, e quando l’ avrò terminata ne scriverò delle altre, e poi altre ancora fino a riempire di poesie libri su libri, perché voglio diventare una poetessa.
-Bene! –disse la maestra- vuoi diventare una poetessa per diventare famosa?
-No –disse Giovanni Maria- voglio diventare una poetessa per…
Ma la maestra la interruppe:
-Vuoi diventare poetessa perché le tue poesie vengano riportate sui testi scolastici ed imparate a memoria da tutti gli scolari del mondo?
-No, voglio diventare una poetessa per…
La maestra la interruppe di nuovo:
-Vuoi diventare poetessa perché Gigi D’ Alessio metta in musica le tue poesie e le faccia cantare al festival di San Remo da Anna Tatangelo?
-No, voglio diventare una poetessa per…
La maestra la interruppe ancora:
-Vuoi diventare poetessa per vendere milioni di copie dei tuoi libri e coi diritti d’ autore pasteggiare a caviale e champagne conducendo una vita dispendiosa?
-No, voglio diventare una poetessa per…
-Ma insomma me lo vuoi dire o no perché vuoi diventare una poetessa?
-Se lei non mi interrompe glielo dico: voglio diventare una poetessa per fare quello che nella storia nessun poeta ha mai fatto, e cioè firmare la poesia con un verso che faccia rima col mio nome:

Poetessa della poesia
Giovanni Maria.


E così si mise subito al lavoro per terminarla, ma più rileggeva i primi due versi
C’ era una volta un pastorello
che aveva dieci pecore e un agnello

e meno le venivano le parole per aggiungercene altri.
Passò il primo anno delle elementari, poi il secondo, poi il terzo, ed ogni volta che la maestra le chiedeva se l’ avesse terminata, desolatamente rispondeva di no.
Agli esami di quinta elementare lasciò stupita la commissione d’ esame parlando della poesia come della forma d’arte più sublime, la meravigliò illustrando l’ importanza della metrica e della rima per la forma e di quella del sentimento per il contenuto ed infine la commosse concludendo fra gli applausi che la poesia sarebbe stata la ragione di tutta la sua futura esistenza.
Poi tornò trionfante a casa decisa a concludere in versi l’ avvincentissima storia del pastorello che aveva dieci pecore e un agnello.
Ma niente, proprio niente! Per quando si sforzasse non le veniva in mente nemmeno una parola che potesse allungare di un verso i due che aveva scritto ormai ben cinque anni prima.
Durante tutti e tre gli anni delle medie quel foglio di carta che riportava scritti in matita e in bella calligrafia i primi due versi del Pastorello passò da un diario all’ altro e da una cartella all’ altra senza che vi si aggiungesse un verso che fosse uno: dalla mattina alla sera Giovanni Maria pensava, pensava e pensava ma non le veniva in mente nulla.
Confidò questo suo dramma alla professoressa di lettere che, lungi dal dissuaderla, la incoraggiò ad insistere dicendole che quello che lei considerava un dramma era in realtà la prova dell’ autenticità della sua vocazione e la dimostrazione che quello di scrivere poesie fosse il suo vero destino, perché il suo non poter andare avanti dopo il secondo verso altro non era che il famoso blocco dello scrittore, cioè una cosa che può accadere solo ai veri scrittori e a nessun altro che non lo sia, infatti non accade ai farmacisti, per esempio, o ai notai, o calzolai, o agli idraulici, o agli arrotini, o ai pizzicagnoli, o ai barbieri, o agli spazzacamini, o ai direttori di banca o agli arcipreti.
E nemmeno ai venditori porta a porta di corde di contrabasso usate, per dire.
Forte di questo incoraggiamento Giovanni Maria non riuscì ad andare avanti né durante gli anni del liceo né in quelli dell’ università, dove si iscrisse alla facoltà di lettere e si laureò con trenta, lode e bacio accademico discutendo una tesi sulla storia della poesia dall’ uomo di Neanderthal all’ incipit della poesia che lei stessa stava per scrivere e che declamò con un’ enfasi tale da far spuntare le lacrime agli occhi non solo al bonario relatore, ma perfino al saccente correlatore, il quale si fece promettere che sarebbe stato il primo a ricevere il testo dell’ opera non appena fosse stata completata. 
Passarono gli anni, decine di anni che Giovanni Maria trascorse facendo incetta di master in poesia moderna nelle università più prestigiose del mondo.
Era ormai in grado di scrivere in tutte le lingue, dall’ italiano al cinese, dallo swahili al tanema delle Isole Salomone passando per tutte le altre lingue, vive o morte che fossero non importa, ma malgrado questo i due versi scritti a matita su quel foglio ormai ingiallito del suo quaderno di prima elementare stavano lì, tristi e soli soletti a ricordarle che mai e poi mai avrebbe avuto la soddisfazione di concludere la storia del pastorello che aveva dieci pecore e un agnello con i due versi che più le premeva di scrivere:
Poetessa della poesia
Giovanni Maria.

Passarono altri anni, Giovanni Maria era diventata una scrittrice famosa, aveva insegnato Poesia nelle università più famose, il suo saggio “Come diventare poeti” era stato per decenni in testa a tutte le classifiche, al suo romanzo “Il Poeta dalla a alla zeta” era stato assegnato il Nobel per la letteratura, ma non si sentiva né felice né appagata, dato che non era riuscita a fare quel che più le premeva: firmare una poesia con quei due versi.
Stava ormai per rinunciare al suo sogno ed era sul punto di rassegnarsi a ad una vecchiaia di rimpianti e di delusioni quando seppe che bastava  in un paese conosciuto solo da pochissime persone, ignorato dalle carte geografiche e posto esattamente fra Lanciano e Fossacesia, mi pare si chiamasse Villa qualcosa ma non ne sono sicuro, dove l’ aria che si respirava ispirava versi.
Corse lì immediatamente e si mise a respirare a pieni polmoni.
Respirò, respirò, respirò e finalmente capì qual era l’ unica cosa da fare per avere finalmente la soddisfazione di scrivere in calce a quel vecchio foglio quel che più le premeva.
Prese una gomma, cancellò c’ era una volta un pastorello che aveva dieci pecore e un agnello, e in calce al foglio bianco scrisse:

La poetessa che non ha scritto nessuna poesia
è Giovanni Maria.


Lazio, ti amo con tutta la feniletilamina, l’ossitocina, la dopamina e la serotonina che mi circolano nel cervello, che rendono il mio pensiero poco logico e che mi procurano strane sensazioni in tutta l’anatomia e battiti sconclusionati nell’organo principale del mio apparato circolatorio.