Autore Topic: Fattore campo? Tutta colpa degli arbitri. Oppure no.  (Letto 1470 volte)

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Offline sigurd

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Fattore campo? Tutta colpa degli arbitri. Oppure no.
« : Mercoledì 20 Luglio 2011, 11:49:04 »
Perché Mourinho non perde mai in casa
David Runciman, London Review of Books, Gran Bretagna
20 luglio 2011



Fino a poco tempo fa, uno dei record più incredibili dello sport apparteneva a un allenatore di calcio, l’amato e odiato portoghese José Mourinho. Prima che il Real Madrid venisse sconfitto per 1-0 dallo Sporting Gijón, il 2 aprile scorso, Mouri­nho non perdeva in casa una partita di campionato da più di nove anni con una sua squadra. La serie è durata per 150 partite e ha attraversato quattro campionati diversi (oltre al Real Madrid, Mourinho ha allenato il Porto, il Chelsea e l’Inter).

È vero che Porto, Chelsea, Inter e Real Madrid sono club ricchi e potenti e raramente perdono in casa, ma nove anni sono comunque un’eternità. Anche ammettendo che le squadre ospiti avessero in media non più del dieci per cento di possibilità di battere le squadre di Mourinho (per alcune, come il Gijón, le possibilità erano perfino meno; per altre avversarie, come lo Sporting Lisbona, il Milan, il Manchester United o il Barcellona, erano molte di più), la probabilità di rimanere imbattuti per 150 partite è più o meno una su sette milioni.

Come ha fatto? È difficile rispondere a questa domanda perché, in realtà, gli enigmi da sciogliere sono due. Il primo riguarda Mourinho. È straordinariamente bravo, straordinariamente fortunato, o un po’ dell’uno e dell’altro? Possiede una formula segreta oppure il suo segreto è che non ha segreti, ma solo la faccia tosta di far credere che sa il fatto suo? Il secondo enigma, invece, non ha niente a che vedere con Mourinho, e riguarda il cosiddetto fattore campo. Perché è tanto difficile battere una squadra nel suo stadio? Perché ogni squadra, per quanto imbattibile in casa, perde una parte della sua invincibilità quando gioca in trasferta? Il Chelsea, che durante i tre anni e mezzo di Mourinho non ha mai perso in casa, fuori casa è stato sconfitto dieci volte.

Il fenomeno non riguarda solo i grandi club. Prendiamo un qualsiasi campionato di calcio europeo in cui tutte le squadre si affrontano due volte durante la stagione, una volta in casa e una in trasferta. Sommiamo il numero totale delle vittorie in casa e confrontiamolo con quello delle vittorie in trasferta. Nella migliore delle ipotesi, il rapporto sarà di 60 a 40 a favore delle squadre di casa (spesso è più alto: nella Premier league inglese il fattore campo incide per circa il 63 per cento, nella Liga spagnola per il 65 e nella serie A italiana per il 67 per cento).

Il fattore campo ha un peso in quasi tutti gli sport maggiori, anche se le proporzioni variano. I tifosi ci sono talmente abituati che danno per scontato che la loro squadra abbia più possibilità di vincere se gioca sul suo campo. E pensano anche di sapere il motivo: perché il pubblico di casa incita i giocatori. In realtà non ci sono prove che sia così. Nonostante le numerose ricerche sul tema pubblicate dalle più importanti riviste di scienza dello sport, non c’è una spiegazione conclusiva su che cosa faccia giocare meglio le squadre di casa. È questo il vero enigma del fattore campo: tutti sanno che esiste ma nessuno sa perché.

Economia e sport

Tobias Moskowitz e Jon Wertheim hanno provato a fare luce sul mistero. Il loro Scorecasting è un libro di un genere sempre più diffuso: un’inchiesta tipo Freakonomics su alcuni fenomeni quotidiani che diamo per scontati ma che non sappiamo spiegare. Gli autori hanno il profilo giusto: Moskowitz è un economista che s’interessa di sport, Wertheim è un giornalista sportivo che s’interessa di numeri, e sono amici di lunga data. Anche il metodo è consolidato: si parla di qualcosa che la gente pensa di conoscere ma che in realtà non capisce, si buttano giù un po’ di numeri, si estrapolano le variabili, si aggiunge qualche battuta di spirito per mantenere vivo l’interesse del lettore e voilà, ecco la verità, per quanto possa sembrare improbabile. Lo sport è sempre stato terreno fertile per questo tipo di approccio, perché i numeri da analizzare sono tanti e altrettanti sono i pregiudizi.

Ma con l’eccezione del baseball, dove da anni imperversa una sottocategoria di statistici impegnati a sfatare i miti, i libri di economia applicata allo sport sono sempre stati molto deludenti. Forse lo sport rende tutto troppo facile: ci sono talmente tante statistiche da analizzare, e talmente tante sciocchezze spacciate per verità, che viene la tentazione di saltare a piè pari tutte le analisi e arrivare direttamente al punto. Scorecasting non ha questo difetto. È di gran lunga il libro più appassionante mai pubblicato nel suo genere, scritto in modo chiaro, frutto di ricerche accurate e pieno di sorprese. La sorpresa più grande di tutte è il fattore campo.

Cosa c’è all’origine del fattore campo? Per prima cosa, Moskowitz e Wertheim escludono le spiegazioni convenzionali, a cominciare dal sostegno dei tifosi di casa. Come si fa a isolare l’effetto del pubblico sulla prestazione di una squadra? Gli autori mettono a confronto come i giocatori in casa e in trasferta affrontano situazioni di gioco identiche, al netto della presenza o dell’assenza di un pubblico ostile. Facciamo l’esempio della pallacanestro: quando un giocatore subisce un fallo gli vengono assegnati due tiri liberi a 4,5 metri dal canestro. Nessuno può interferire, a parte i tifosi di casa, che fanno quello che vogliono per distrarre l’avversario. Se avete visto una partita della Nba saprete che spesso i tifosi fanno rumore o agitano dei palloncini dietro il canestro. Risultato? Niente.

Le statistiche dimostrano che i giocatori ospiti, nonostante i fischi, battono i tiri liberi altrettanto bene di quelli che giocano in casa. Lo stesso vale per i calci da fermo nel football americano e per le partite decise ai rigori nel calcio. La squadra di casa non ha più possibilità di vincere ai rigori rispetto alla squadra in trasferta. Spesso i tifosi di casa credono di poter spingere la palla in fondo alla rete con i loro cori o di mandarla fuori con i fischi. Farebbero meglio a risparmiare il fiato.

Se non dipende dai tifosi, allora forse dipende dai viaggi. Molto spesso le squadre in trasferta devono percorrere lunghe distanze (specialmente negli Stati Uniti), dormire in letti scomodi e affrontare il disagio di stare lontano da casa. Questa tesi è più facile da confutare. In tutti gli sport, il fattore campo vale anche per le sfide stracittadine, in cui non ci sono vere trasferte da affrontare. Gli stadi dell’Everton e del Liverpool sono a un chilometro di distanza l’uno dall’altro, ma l’Everton ha molte più possibilità di battere il Liverpool quando non si gioca ad Anfield.

I dati storici lo confermano. Inoltre le condizioni di viaggio per gli atleti famosi sono immensamente migliorate con il passare del tempo: mentre un tempo i campioni avevano le stesse difficoltà di chiunque, oggi sono serviti e riveriti. Le loro prestazioni lontano da casa, però, non sono migliorate affatto. Spiegano Moskowitz e Wertheim: “Il fattore campo è una costante quasi inquietante nel tempo”. Per quanti sforzi si facciano per evitare ai giocatori tutti i piccoli inconvenienti del viaggiare, al momento di scendere in campo il risultato è sempre lo stesso.

E se dipendesse da una maggiore familiarità con l’ambiente? Ogni terreno di gioco è leggermente diverso dall’altro, perciò magari le squadre sfruttano a loro vantaggio la conoscenza del campo amico. Anche i campi di calcio variano: possono essere più o meno larghi, stretti, esposti al vento, coperti, gibbosi o regolari. Le differenze sono evidenti soprattutto nel baseball, dove alcune squadre giocano in stadi più adatti ai battitori e altre in stadi più adatti ai lanciatori (è questione di dimensioni, forma e condizioni atmosferiche). Eppure, anche nel baseball, secondo Moskowitz e Wertheim questo aspetto non fa alcuna differenza. Il rapporto tra le percentuali di battuta delle squadre di casa e le squadre ospiti è sempre lo stesso, a prescindere che si giochi in stadi più adatti ai battitori o ai lanciatori. Il fattore campo sembra sfuggire a qualsiasi controllo.

Capri espiatori

Non dipende dal pubblico, non dipende dai viaggi, non dipende dagli stadi, non dipende dai giocatori e nemmeno dagli allenatori. Cosa rimane? Be’, ci sono sempre gli arbitri. Ecco i colpevoli: secondo Moskowitz e Wertheim il fattore campo dipende quasi completamente dai direttori di gara. I giocatori non si fanno condizionare dai fischi dei tifosi, ma gli arbitri sì. A pensarci è logico: se il nostro comportamento fosse sotto l’occhio vigile di decine di migliaia di persone isteriche, cercheremmo di compiacerle, almeno inconsciamente.

I giocatori ospiti non hanno nulla da guadagnare dai tifosi di casa: se giocano bene vengono insultati, se giocano male vengono presi in giro. Gli arbitri, invece, possono assecondare il pubblico e sfruttare la situazione a loro vantaggio. Le squadre in trasferta non hanno modo di alleviare la tensione che deriva dal giocare in un ambiente ostile. Gli arbitri invece sì.

Moskowitz e Wertheim portano diverse prove a sostegno di questa tesi. Nel calcio, gli arbitri concedono quasi sempre più minuti di recupero quando la squadra di casa sta perdendo e meno quando sta vincendo (in media, quattro minuti nel primo caso e due minuti nel secondo, quanto basta per fare la differenza in molte partite). Le squadre di casa hanno molti meno espulsi e molti più calci di punizione a favore. Questo, magari, dipende semplicemente dal fatto che la squadra di casa gioca meglio e che gli avversari devono ricorrere alle maniere forti. Ma secondo gli autori è il pubblico che fa la differenza.

Nella Bundesliga tedesca, per esempio, dove molte squadre giocano in stadi con la pista di atletica, che allontana molto la folla dall’azione, gli interventi arbitrali a favore della squadra di casa si riducono della metà. In Inghilterra, in Spagna e in Italia, il numero degli spettatori ha un effetto evidente sul numero dei cartellini rossi mostrati agli ospiti. Maggiore è l’affluenza, più è probabile che la squadra in trasferta finisca la partita con qualche giocatore espulso.

Ma la prova più evidente del condizionamento arbitrale viene dagli sport che hanno introdotto la tecnologia per verificare le decisioni dei direttori di gara. Nel baseball c’è un sistema chiamato QuesTec che permette di stabilire se un lancio è stato effettuato o meno all’interno della zona di strike. Gli autori hanno analizzato una serie di dati e hanno scoperto che quando un lancio è chiaro, l’arbitro non favorisce la squadra di casa. Quando invece il lancio è dubbio, la decisione è quasi sempre a vantaggio della squadra di casa. Questo dimostra due cose.

La prima è che, se ne hanno la possibilità, gli arbitri preferiscono assecondare il pubblico che gli soffia sul collo (in molti stadi, quasi letteralmente). La seconda è che ne sono consapevoli, e limitano le decisioni a favore di chi gioca in casa alle situazioni non completamente ovvie (negli stadi in cui c’è il QuesTec, infatti, gli arbitri cominciano ad adeguarsi perché si rendono conto che un eventuale sbilanciamento a favore della squadra di casa sarebbe sotto gli occhi di tutti). Le partite equilibrate sono per definizione quelle il cui risultato può essere determinato da un paio di decisioni chiave. E a quanto pare, sono proprio quelle in cui gli arbitri fanno di tutto per aiutare la squadra di casa. Tanto basta a Wertheim e Moskowitz per indicarli come i responsabili quasi esclusivi del fattore campo.

È una splendida teoria: semplice, elegante e in sintonia con quello che un po’ tutti pensiamo della natura umana (e che molti tifosi hanno sempre sospettato ma non hanno mai potuto dimostrare a proposito degli arbitri). C’è solo un problema: non è vera. Non dubito che il condizionamento arbitrale sia in qualche modo collegato al fattore campo, ma l’idea che ne sia l’elemento cruciale e determinante è assurda. Riflettiamoci un attimo. La prima volta che qualcuno vi dirà che è tutta colpa degli arbitri, probabilmente penserete “lo sapevo!”, com’è successo a me. Già la seconda volta ne sarete meno convinti.

Prendiamo una partita di calcio. Certo, a volte sembra che l’arbitro voglia dare ai padroni di casa il beneficio del dubbio e, se gli serve, un tempo di recupero eterno. Ma perché la squadra di casa sembra sempre avere più possibilità di segnare nei minuti finali? Forse perché sono loro e non gli altri ad attaccare. Pensateci bene. Non è soltanto perché l’arbitro glielo permette, ma perché c’è qualcosa che li fa giocare meglio. Ci credono.

A questo punto i freakonomisti mi diranno che è la mia tesi a essere assurda. Se ci affidiamo ai numeri è proprio perché non possiamo fidarci degli occhi. Pensiamo di sapere cosa sta succedendo perché siamo influenzati da una serie di condizionamenti cognitivi che ci portano a giudicare male le singole situazioni. Questi studi hanno l’obiettivo di fare piazza pulita di quello che crediamo sia la realtà, costringendoci ad accettare il fatto che siamo accecati dai pregiudizi. Ma Moskowitz e Wertheim hanno escluso tutte le alternative plausibili? In effetti no. Hanno usato i numeri per far sembrare che fosse così, ma in realtà hanno solo espresso la loro idea. Questo è il problema: i freakonomisti rappresentano male i numeri.

Offline sigurd

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Re:Fattore campo? Tutta colpa degli arbitri. Oppure no.
« Risposta #1 : Mercoledì 20 Luglio 2011, 11:54:43 »
E il pubblico?
Facciamo un passo indietro. Secondo Moskowitz e Wertheim, il comportamento dei giocatori alla linea dei tiri liberi o sul dischetto del rigore dimostra che il pubblico non influenza il rendimento della squadra di casa. Ma in realtà dimostra un’altra cosa: dimostra che il pubblico non influenza i singoli. E se il fattore campo fosse un fenomeno di squadra? Molti elementi che non sono presi in considerazione dagli autori fanno pensare che sia proprio così. I tennisti britannici non hanno mai tratto grandi vantaggi dal fatto di giocare a Wimble­don, nonostante la presenza di migliaia di persone che speravano di veder chiamate fuori le palle buone e viceversa.

I flemmatici giudici di linea inglesi sono più impermeabili alle pressioni dei loro colleghi del calcio? Forse, ma questo non vale solo per gli inglesi. Un francese non vince il Roland Garros dal 1983, un australiano non vince gli Open d’Australia dal 1976. Dov’è il fattore campo? Una spiegazione potrebbe essere che giocare in casa fa la differenza solo quando si fa parte di una squadra. Il fattore campo potrebbe essere un’esperienza collettiva, dunque senza alcuna influenza sui singoli (compresi quei singoli che si presentano alla linea dei tiri liberi in una partita di basket o sul dischetto del rigore in una partita di calcio).

Per qualche motivo, giocare tra le mura amiche potrebbe alimentare un senso di solidarietà o quello che una volta si chiamava spirito di squadra, spingendo i giocatori ad avere più fiducia l’uno nell’altro e a funzionare meglio come collettivo. Non sto dicendo che sia sicuramente così. Ma Moskowitz e Wertheim non dimostrano il contrario.

Il dato fondamentale che i due autori non prendono seriamente in considerazione è la diversa incidenza del fattore campo nel baseball e nel calcio. Nel baseball la percentuale di vantaggio delle squadre di casa è la più bassa di tutti gli sport maggiori: il 54 per cento circa nelle major league americane. È una differenza enorme rispetto al 63-67 per cento dei grandi campionati di calcio europei. Come si spiega? La loro risposta è che nel calcio le decisioni dell’arbitro pesano di più, ma non portano alcuna statistica a sostegno di questa tesi. Anzi, interpretano il dato alla rovescia: poiché sostengono la teoria che il condizionamento arbitrale è alla base del fattore campo, e poiché il fattore campo incide molto di più nel calcio, ergo gli arbitri devono avere una maggiore influenza sui risultati. Dov’è ora il condizionamento cognitivo?

Quello che stupisce di Scorecasting è che alcuni numeri sarebbero in grado di dimostrare le tesi di Moskowitz e Wertheim, ma i due non li citano mai. Prendiamo il caso della Germania: se la presenza della pista di atletica riduce della metà le decisioni “casalinghe”, allora dovrebbe anche ridurre della metà l’incidenza del fattore campo per le squadre che giocano in quegli stadi. È cosi? Loro non lo dicono, e io ne dubito. Allo stesso modo, dovrebbe essere possibile analizzare dei numeri per capire fino a che punto gli errori degli arbitri influenzano i risultati delle partite di calcio. I due nemmeno ci provano (ci dicono solo che quando un giocatore viene espulso, la sua squadra ha più probabilità di perdere. Ma pensa!). Faccio un tentativo, anche se sto tirando a indovinare.

Diciamo che gli errori degli arbitri nel calcio favoriscono le squadre di casa in un rapporto di 60 a 40 (più o meno pari all’incidenza del fattore campo). Diciamo anche che gli errori arbitrali decidono circa il 20 per cento di tutte le partite di calcio. In questo caso, il vantaggio per le squadre di casa sarebbe soltanto del 4 per cento. Per arrivare al 20 per cento ogni errore arbitrale dovrebbe favorire la squadra di casa, oppure ogni partita di calcio dovrebbe essere decisa da un errore dell’arbitro. È assurdo.

Sono anche portato a pensare che il 2 per cento di incidenza in più in Spagna e il 4 per cento in Italia siano dovuti a una maggiore suggestionabilità degli arbitri (resta da vedere, però, se a condizionarli sia il pubblico o qualcosa di più inquietante). Ma da qualunque parte si guardi la cosa, il condizionamento arbitrale non sembra poter spiegare per intero il fattore campo.

Gioco di squadra

Ecco allora una spiegazione alternativa: nel baseball il fattore campo incide di meno perché il baseball somiglia meno a un gioco di squadra. È sostanzialmente una serie di duelli individuali tra battitori e lanciatori. È più simile al tennis che al calcio. Giocare in casa conta di più negli sport che prevedono dei passaggi, dove i giocatori devono fare affidamento l’uno sull’altro. Il baseball è anche un gioco molto disarticolato (di nuovo, come il tennis), che consiste in una serie di giocate separate. Gli sport di squadra dove l’azione scorre in modo fluido sono quelli in cui giocare in casa conta di più. Perché? Non lo so. Ma Moskowitz e Wertheim non ne parlano.

Non sono in grado di dimostrare la mia teoria, ma posso difenderla. Corrisponde a quello che vediamo in tutti gli sport: i giocatori in trasferta non credono in se stessi come quelli che giocano in casa. Questo è vero specialmente alla fine di una partita incerta tra due squadre equilibrate: sono quasi sempre i padroni di casa che attaccano per cercare la vittoria. Secondo Moskowitz e Wertheim è l’arbitro che glielo permette: quella che pensiamo sia una qualità dei giocatori, in realtà è una qualità che gli attribuiamo noi, erroneamente, a causa dell’indulgenza degli arbitri. Ma non è una spiegazione del tutto convincente: non solo non coincide con quello che vediamo con i nostri occhi (la squadra di casa attacca anche nei momenti in cui l’arbitro non ha alcuna influenza sulla partita), ma è in contraddizione con un’altra tesi sostenuta in Scorecasting.

Oltre a evidenziare i vantaggi concessi alla squadra di casa, infatti, gli autori spiegano che gli arbitri preferiscono evitare decisioni plateali, soprattutto alla fine delle partite. Si tratta di un fenomeno diffuso, che vale per il calcio e per tutti gli altri sport. Come spiegano Moskowitz e Wertheim dopo aver analizzato quindici anni di dati della Premier League, della Liga e della serie A, “falli, fuorigioco e calci di punizione diminuiscono in maniera significativa man mano che una partita incerta si avvicina alla fine”. È il cosiddetto condizionamento da omissione, e ne soffriamo un po’ tutti: preferiamo lasciar correre invece di provare a fare il nostro dovere rischiando di prenderci la colpa. Se un arbitro interviene alla fine di una partita, sembra che voglia deciderne il risultato. E la gente si arrabbia.

Moskowitz e Wertheim descrivono un esempio tipico di quello che succede quando un direttore di gara prova a superare il condizionamento da omissione. Durante l’Open degli Stati Uniti del 2009, una coraggiosa (e temeraria) giudice di linea chiamò un fallo di piede a Serena Williams nel momento clou della semifinale contro Kim Clijsters. Il replay dimostrava chiaramente che la decisione era giusta. Il pubblico però andò su tutte le furie. È raro che i giudici di linea chiamino un fallo di piede, perché non vogliono dare nell’occhio. Perché questa signora s’intrometteva in un momento cruciale della partita condizionando il risultato? Faceva solo il suo lavoro? Ma no, voleva fare la protagonista.

Dopo il fallo, Serena Williams si girò verso la giudice e le gridò in faccia: “Prega di non esserti sbagliata, cazzo! Tu non mi conosci! Se potessi, prenderei questa cazzo di palla e te la ficcherei in quella gola di merda!”. Per la sua reazione la Williams fu penalizzata di un punto, che le costò la partita. Il pubblico era furioso. John McEnroe, che commentava il torneo in televisione, era d’accordo : “Non puoi permetterti di chiamare un fallo di piede. Non in quel momento del match”. A quanto pare, il fatto che la giudice di linea avesse ragione non contava nulla.

Come spiegano gli autori, molti arbitri hanno introiet­tato questa lezione. Non vogliono intromettersi nei momenti decisivi, perché la gente potrebbe dire: è stato l’arbitro! E preferiscono non intervenire in tutte quelle situazioni in cui una loro decisione potrebbe sembrare plateale. Questo insegnamento si estende a molti aspetti della vita. Prendiamo un colloquio di lavoro. Se un candidato sa di essere molto qualificato, di solito cerca di andare sul sicuro e di non sbilanciarsi. Ma se è davvero molto qualificato, è difficile che gli mostrino il cartellino rosso dopo un solo colloquio. Tanto vale fare un po’ di spettacolo.

Negli sport di squadra, anche i giocatori e gli allenatori sono vittime del condizionamento da omissione: non vogliono commettere errori stupidi o fare mosse tattiche avventate che li possano far considerare i responsabili della sconfitta. Strettamente legata al condizionamento da omissione è l’avversione alla perdita, un tratto molto comune della psicologia umana. Le persone preferiscono evitare una potenziale perdita piuttosto che ottenere un potenziale guadagno, anche quando la posta è la stessa: se chiediamo a una persona se preferisce vincere un dollaro a testa o croce, oppure giocarsi a testa o croce la restituzione di un dollaro appena ricevuto in regalo, quasi sempre sceglierà la prima soluzione. Per lo stesso meccanismo, di solito gli allenatori preferiscono evitare di contribuire a una sconfitta piuttosto che giocarsi la possibilità di contribuire a una vittoria, e non si sbilanciano.

In tutti gli sport gli allenatori tendono a preferire le mosse tattiche che danno loro maggiori probabilità di conservare quello che hanno (a partire dal posto di lavoro). Gli allenatori più bravi, però, sanno riconoscere questa debolezza negli avversari e la sfruttano a loro vantaggio. Il fatto che l’avversione alla perdita sia così diffusa dà un vantaggio agli allenatori che non se ne lasciano condizionare.

Il segreto di José

E questo ci riporta a Mourinho. La spiegazione più plausibile per il suo incredibile record casalingo è che non ha paura di rischiare. Mourinho viene generalmente considerato un conservatore, ma in realtà è un allenatore molto spericolato, anche se poco spettacolare. Non ha paura di fare cose sgradevoli che attirano l’attenzione su di sé; anzi, sembra che gli piaccia. Negli ultimi tempi Mourinho è stato ricoperto di critiche perché il Real Madrid, da lui allenato, ha perso contro il Barcellona in semifinale di Champions league giocando in modo incredibilmente difensivo.

È stato uno spettacolo orrendo. Ma ci ha insegnato due cose su Mourinho: la prima è che non ha paura di perdere, anche quando è chiaro che la responsabilità della sconfitta ricadrà su di lui; la seconda è che pensava di aver trovato il modo di battere il Barcellona. E forse aveva ragione: nonostante la sconfitta, nessuno ha fatto meglio di lui contro i catalani (l’anno scorso, quando era all’Inter, li ha anche eliminati dalla Champions league). È impossibile restare imbattuto per 150 partite senza correre rischi. Alla fine, gli allenatori che cercano di non perdere escono dal campo sconfitti.

Uno dei tanti aspetti sgradevoli dello stile delle squadre di Mourinho è che non hanno paura di intimidire gli arbitri. Sicuramente Mourinho ha capito da tempo che si tratta di un aspetto importante del fattore campo. Ma non è l’unica cosa che ha capito. Le sue squadre sono così difficili da battere per motivi che vanno oltre le tesi riduttive di Moskowitz e Wertheim. Il fattore campo è un fenomeno molto più complicato e misterioso. Dipende da una serie di elementi che di fatto è impossibile quantificare. Forse perfino il fatto di vestirsi benissimo fa parte del gioco: forse, la sua eleganza infonde fiducia nei giocatori e li induce a pensare che il loro capo è veramente il capo, e che sta a loro difendere il suo territorio.

Comunque, Mourinho certamente sa che il concetto del fattore campo non può ridursi al condizionamento arbitrale: sarebbe un classico caso di pensiero conservatore e di avversione al rischio, che come sappiamo non porta mai nulla di buono. Mourinho ha capito qualcosa che ai freakonomisti è sfuggito: non sempre ci si può fidare dei numeri.


Traduzione di Bruna Tortorella.
Illustrazione di Luigi Bicco.
Internazionale, numero 906, 15 luglio 2011
David Runciman è un professore di teoria politica e giornalista britannico. Questo articolo è uscito sulla London Review of Books con il titolo “Swing for the fences“.


http://www.internazionale.it/news/pop/2011/07/20/perche-mourinho-non-perde-mai-in-casa/

Giglic

Re:Fattore campo? Tutta colpa degli arbitri. Oppure no.
« Risposta #2 : Mercoledì 20 Luglio 2011, 11:57:32 »
Bel topic.
Non ho visto però (ho letto di fretta, magari scusa se c'è) che uno dei fattori più importanti è l'abitudine al "campo di casa" in termini di distanze relative che ti aiutamo meglio nei cross, nei passaggi, etc.

Offline disabitato

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Re:Fattore campo? Tutta colpa degli arbitri. Oppure no.
« Risposta #3 : Mercoledì 20 Luglio 2011, 12:50:56 »
Sigurd è un argomento bellissimo!
Giuro che come ho un po' di tempo, leggo tutto e ne parliamo. ;)
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POMATA

Re:Fattore campo? Tutta colpa degli arbitri. Oppure no.
« Risposta #4 : Mercoledì 20 Luglio 2011, 20:28:39 »
Bel topic.
Non ho visto però (ho letto di fretta, magari scusa se c'è) che uno dei fattori più importanti è l'abitudine al "campo di casa" in termini di distanze relative che ti aiutamo meglio nei cross, nei passaggi, etc.

Si parla di famigliarità del campo.

Comunque qui influimmo moltissimo



BobCouto

Re:Fattore campo? Tutta colpa degli arbitri. Oppure no.
« Risposta #5 : Mercoledì 20 Luglio 2011, 20:48:16 »
Per me la familiarità dell'ambiente è il fattore chiave. Nel 1901, il Milan offrì un rimborso spese al Genoa per disputare la finale del campionato a Milano (i genoani accettarono e il Milan vinse partita e titolo). Eppure, non credo che alla partita ci fosse più di qualche centinaio di spettatori.

Grazie a sigurd per l'argomento, interessantissimo.

Offline sigurd

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Re:Fattore campo? Tutta colpa degli arbitri. Oppure no.
« Risposta #6 : Giovedì 21 Luglio 2011, 02:50:35 »
Grazie a sigurd per l'argomento, interessantissimo.
prego :)
mi ci sono tuffato appena letto, stamattina. Per me, il fattore campo resta un mistero assoluto.
La tesi criticata dall'autore del pezzo e la sua controtesi mi sembrano entrambe sensate, devo dire.

TD

Re:Fattore campo? Tutta colpa degli arbitri. Oppure no.
« Risposta #7 : Giovedì 21 Luglio 2011, 08:14:28 »
lo lessi su internazionale

Boks XV

Re:Fattore campo? Tutta colpa degli arbitri. Oppure no.
« Risposta #8 : Giovedì 21 Luglio 2011, 11:33:22 »
La squadra di casa non ha più possibilità di vincere ai rigori rispetto alla squadra in trasferta.

anfatti:



ih ih ih  :D

Nella Bundesliga tedesca, per esempio, dove molte squadre giocano in stadi con la pista di atletica, che allontana molto la folla dall’azione, gli interventi arbitrali a favore della squadra di casa si riducono della metà.

me sa che a Roma, allora, 'sta pista di atletica 'na settimana la montano 'na settimana la smontano, 'na settimana la montano 'na settimana la smontano...

jumpingjackflash

Re:Fattore campo? Tutta colpa degli arbitri. Oppure no.
« Risposta #9 : Giovedì 21 Luglio 2011, 12:23:22 »
grande Sigurd, bellissimo argomento

Citazione
Uno dei tanti aspetti sgradevoli dello stile delle squadre di Mourinho è che non hanno paura di intimidire gli arbitri. Sicuramente Mourinho ha capito da tempo che si tratta di un aspetto importante del fattore campo. Ma non è l’unica cosa che ha capito. Le sue squadre sono così difficili da battere per motivi che vanno oltre le tesi riduttive di Moskowitz e Wertheim. Il fattore campo è un fenomeno molto più complicato e misterioso. Dipende da una serie di elementi che di fatto è impossibile quantificare. Forse perfino il fatto di vestirsi benissimo fa parte del gioco: forse, la sua eleganza infonde fiducia nei giocatori e li induce a pensare che il loro capo è veramente il capo, e che sta a loro difendere il suo territorio.
ci ricorda niente? qualcuno ricorda alcune squadre i cui  giocatori e tecnici sono soliti intimidire i direttori di gara? e direi con ottimi risultati. Un'altro dato che emerge è l'importanza del direttore di gara che secondo me, dovrebbe essere un professionista

POMATA

Re:Fattore campo? Tutta colpa degli arbitri. Oppure no.
« Risposta #10 : Giovedì 21 Luglio 2011, 12:57:44 »
anfatti:



ih ih ih  :D

me sa che a Roma, allora, 'sta pista di atletica 'na settimana la montano 'na settimana la smontano, 'na settimana la montano 'na settimana la smontano...

All'epoca esisteva il "fattore graziani" uno che regalò alla roma 2 coppe italia, sbagliando i rigori del torino...

Il loro "divino" si cacava letteralmente sotto... ;D ;D ;D ;D

BobCouto

Re:Fattore campo? Tutta colpa degli arbitri. Oppure no.
« Risposta #11 : Giovedì 21 Luglio 2011, 13:15:50 »
anfatti:

In realtà era campo neutro. Anzi, formalmente la partita era Liverpool-As. E comunque, loro non giocano "in casa" mai, sono sempre in perenne trasferta rispetto alla loro sede naturale, che è la Cloaca Massima.

Offline Er Matador

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Re:Fattore campo? Tutta colpa degli arbitri. Oppure no.
« Risposta #12 : Giovedì 21 Luglio 2011, 14:09:51 »
Un tempo pesava non poco la logistica legata agli spostamenti: non a caso la squadra col maggior divario fra risultati in casa e in trasferta a livello di serie A è il Palermo, non certo la più agevolata in questo senso coi mezzi di qualche decennio fa.
Se poi la permanenza fuori casa si prolunga e non c'è il ritiro per entrambe le contendenti a livellare la situazione, ritrovarsi in un albergo chissà dove non aiuta la condizione psicologica (o in alternativa espone a tentazioni che difficilmente favoriscono la vita professionale di un atleta...).
Ricordo l'insistenza con cui i calciatori della Reggina tentarono di portare a termine la gara di ritorno di uno spareggio-salvezza con l'Atalanta nel 2002-'03, nonostante il campo impossibile.
A loro dire, la vicinanza a casa dei loro avversari risparmiava un surplus di stress da cui temevano, invece, di essere condizionati negativamente.
La partita fu sospesa e alla ripresa delle ostilità la Reggina vinse 2-1 garantendosi la permanenza nella massima serie, ma il ragionamento legato alla volontà di chiudere al più presto la pratica mi sembra comunque significativo.