Quel due giugno del 1946
Me lo ricordo benissimo quel 2 giugno del 1946. Stavo per compiere sei anni e avevo già fatto la prima elementare. Repubblica o Monarchia , non si parlava d’altro: in casa, per la strada, nei mercati. Sembrava una febbre che divorava tutti. Gli italiani avevano ritrovato con la libertà e la democrazia, dopo tanti anni di dittatura fascista, il gusto per la politica. Io abitavo a Via della Lungara proprio vicino al carcere di Regina Coeli (“er Coeli” come lo chiamavano i romani quando parlavano la loro lingua). La strada era tappezzata di manifesti. Un giorno, un gruppo di giovanotti scese sul fiume e sul muraglione di fronte scrisse a lettere cubitali “Zingone veste tutta Roma e la monarchia la spoglia”, parafrasando lo slogan pubblicitario del più grande magazzino della Capitale. Dopo una ventina di anni la scritta era ancora lì: nessuno l’ha mai cancellata, l’ha cancellata il tempo.
Anche noi bambini fummo travolti dagli eventi e dalla rivalità che stava dividendo l’Italia in due. Anche noi ripetevamo nei nostri discorsi “Repubblica …. Monarchia…” . Il mio Babbo, fervente repubblicano, mi aveva ammaestrato e mi aveva anche fornito qualche argomento a favore della nostra causa, e io li usavo nelle mie discussioni con i miei amici più grandi me, quelli con i quali giocavo a palletta in mezzo alla strada. Una volta stavo andando benissimo, i miei argomenti a favore della Repubblica stavano facendo breccia sui miei compagni, quando un ragazzino mi guardò con aria scettica e mi fulminò con questa frase: “Sì, però i monarchici a noi ci hanno dato la pasta…” Di fronte ad un argomento così forte in quel periodo di fame mi sentii perso e sconfitto. Anche il mio Babbo non trovò argomenti validi per fugare i miei dubbi di bambino. La pasta era la pasta. Ma la mia fede repubblicana pur vacillante non crollò ed arrivai anche a distribuire insieme ad altri ragazzini “repubblicani” i volantini. Un mio compagno più grande e più scafato fermava le signore anziane che uscivano dalla Messa per invitarle a votare per la Repubblica. Ad alcune diceva “votate per la Madonnina” e indicava il volto femminile dell’Italia con la corona turrita, che rappresentava la Repubblica. Ad altre diceva: “Signora, lei non vuole la Repubblica vero? Allora la cancelli con una bella croce sopra”. Non so se con questi metodi avrà sottratto qualche voto alla Monarchia ma il mio compagno scafato aveva capito che gli italiani votavano dopo 25 anni e le donne per la prima volta nella storia d’Italia.
Ricordo che la mattina del 2 giugno accompagnai i miei genitori al seggio elettorale che era stato allestito proprio nella mia scuola. Il mio Babbo si era messo il vestito buono con la cravatta, come se andasse a un matrimonio. La mia Mamma aveva un vestito sobrio con le maniche corte perché quel giorno faceva caldo. Prima di uscire di casa ricordo che il mio Babbo mostrò per l’ennesima volta il fac simile della scheda elettorale alla mia Mamma che lo mandò a quel paese. “Mi hai preso per scema…” disse e il mio Babbo la ripose in tasca senza fiatare.
Quando arrivammo al seggio trovammo una fila disordinata, quasi una calca, con un migliaio di persone. I miei genitori si misero in fila e io andai a giocare a palletta a Via San Francesco di Sales, una partita che durò diverse ore e che comportò il sacrificio del mio unico paio di scarpe che la mia Mamma aveva fatto risuolare da poco.
Poi furono ore di attesa: prima cominciò a serpeggiare la notizia che la Repubblica stava vincendo, poi qualcuno disse che la Monarchia stava recuperando. Passavano le ore e non ci era nulla di ufficiale: alla fine uscì il ministro dell’Interno Romita, un uomo piccolo grassottello e con i baffi incolti il quale disse a un esercito di giornalisti con i taccuini in mano: la Repubblica ha vinto.
Non ricordo se festeggiamo in piazza, ricordo soltanto che il mio Babbo mi dette un bacio e mi disse: “L’Italia è una Repubblica… abbiamo vinto”. Capii che era emozionato e commosso perché si rinchiuse in camera con il suo giornale preferito. Vidi dopo che era l’Avanti! diretto da Pietro Nenni, che titolava a nove colonne: “REPUBBLICA!”. Quel giornale il mio Babbo lo conservò fino alla fine dei suoi giorni e ora è a casa mia e, quando io non ci sarò più, lo avranno i miei figli e i miei nipoti.
Giancarlo Governi