Qualche parola sul Festival di Sanremo appena finito
Se ci si riferisce allo spettacolo nel suo insieme, basta leggere il nome di Carlo Conti per aspettarsi qualcosa di immutabile nel bene e nel male.
Grande professionalità, che ne ha fatto il primo presentatore nella storia della kermesse rivierasca a rispettare orari e palinsesti senza “sforare” clamorosamente.
Non meno grande ripetitività nella conduzione, anche nell’ossessiva iterazione degli stilemi a lui più cari: per dirne una, quante volte avrà usato l’aggettivo “meraviglioso”?
Eppure i numeri gli danno ragione su tutta la linea, forse perché la sua linea editoriale sotto molti aspetti neo-baudiana ha riconciliato il pubblico col DNA della manifestazione: la rassicurante prevedibilità.
In fondo, il Festival è un po’ come quelle case dei nonni che si visitano una settimana l’anno o poco più.
E nelle quali il trovare ogni volta tutto come lo si ricordava dà un po’ l’illusione di fermare il tempo.
Passando alla parte musicale, applausi convinti per la pérformance di Paola Turci, con un brano non facile per i verosimili riferimenti autobiografici.
In quel “fatti bella per te” - fregandosene di quel che dice
‘a ggente, in concreto – c’è probabilmente il vissuto di una bella ragazza trovatasi di fronte a un’immagine di sé assai diversa, dopo il terribile incidente stradale da cui rischiò di non uscire viva.
Ma il tutto viene elaborato nel segno della leggerezza, in una maniera solare e positiva con la quale è facile empatizzare già durante l’esibizione dal vivo.
Meno univoco il giudizio sulla Mannoia, o meglio sulla canzone con cui è entrata Papa e uscita Cardinale.
Un pezzo ultraclassico, francamente datato nei suoni e negli arrangiamenti, con un contenuto ottimistico e un sottinteso moraleggiante, quasi spirituale, a senso unico.
Un pezzo normalissimo per Al Bano – in bocca al lupo, naturalmente – o Giorgia, non per un’artista che ha affidato una meritata carriera di interprete a testi assai più problematici e chiaroscurali, più vicini al dissacrante che al sacralizzante.
Al di là del fatto che in oltre tre decenni ha cantato senza dubbio di meglio, la perplessità di fondo è un’altra: abbinata a una canzone del genere, in molti non l’avranno riconosciuta.
Ermal Meta è forse il personaggio dell’anno, sia per il brano in gara – anch’esso ispirato a dolorose esperienze personali – sia per la cover di
Amara terra mia: che ha nobilitato uno spazio sempre più centrale nelle cinque serate dell’Ariston, anche se affollato da una larghissima maggioranza di rivisitazioni dimenticabili.
È difficile scacciare la fastidiosa sensazione che, fra origine straniera e tematiche trattate, abbia attratto consensi almeno in parte di natura extra-musicale.
Ma i numeri sembrano davvero esserci: quindi, al di là di qualche dettaglio da limare, avanti così.
L’impressione sul livello complessivo dei brani non è delle più ottimistiche: si è raggiunto un plafond abbastanza solido sul piano tecnico, ma a prezzo di una soffocante omologazione non compensata da particolari guizzi creativi.
Il vero allarme riguarda, però, le doti interpretative.
Nell’esibizione di Fabrizio Moro, l’autore ha vinto troppo nettamente la sfida col cantante, approssimativo e a tratti svociato, salito sul palco.
Alessio Bernabei e Lodovica Comello, ma non solo loro, hanno sicuramente mostrato di meglio quando si è deciso sulla loro partecipazione al Festival, altrimenti...
Ma, in generale, mancano completamente il gusto e l’idea stessa del cantare dal vivo: che significa reinterpretare il proprio repertorio cercando di trarne emozioni e sfumature sempre diverse, come se ciascuna esecuzione vivesse di vita propria.
Una concezione del genere appartiene alle citate Turci e Mannoia o ai superospiti – sia pure non nella forma migliore – Giorgia e, soprattutto, Tiziano Ferro.
Non se ne trova traccia nei giovani – sia pure cronologicamente non lontanissimi dai quaranta-cinquantenni di cui sopra – per i quali l’interpretazione live si riduce a un faticoso e superfluo arrancare sulle tracce della versione registrata.
E qui si fa sentire la nefasta influenza dei
talent: troppo concentrati sulla parte commerciale, a dispetto di quella artistica, e ancor più propensi all’allevamento in cattività.
Servono aria aperta e un contatto meno virtualizzato col pubblico, per evitare che certe sensibilità vengano completamente atrofizzate.
Del vincitore che dire: innanzitutto, davvero lo scimmione gli ha dato una spinta decisiva?
In parte sì, a causa di un fenomeno inedito per le abitudini sanremesi: nessuna canzone o quasi da primo ascolto, e alzi la mano chi ricordava qualche motivo dopo le prime due serate.
A parità di (scarsa) immediatezza, un’esibizione così vistosa ha probabilmente garantito al brano una scorciatoia verso un primo impatto sul pubblico: ma, scenografia a parte, c’è dell’altro.
Suoni anni ‘80 e ritmi da
flash mob, a strizzare l’occhio a generazioni diverse ma entrambe in pista.
Evidente intertestualità con Daniele Silvestri e la sua
Salirò per la scelta di farsi accompagnare – in quel caso con la partecipazione di Fabio Ferri – sul palco da una parte ballata.
Una rima fra le più insolite della manifestazione tra “Panta rei” e “Singin’ in the Rain”, che ricorda quella fra “session men” e “refrain” proposta da Enrico Ruggeri – in quel caso con un vero inedito – in
Nuovo swing.
Citazioni in serie all’insegna del surreale, con Battiato a fungere da costante riferimento e contenitore.
Tutti materiali di seconda mano – del resto, chi gode di un’autentica ispirazione oggigiorno? – ma assemblati in un prodotto simpatico, furbo il giusto, complessivamente godibile, con qualche idea e un po’ di buona volontà in più rispetto alla concorrenza.
Una vittoria meritata, la cui ratio più profonda e innovativa, forse, non è però di natura artistica.
Fra le novità dell’edizione appena conclusa figura il logo della TIM, onnipresente sia in sovrimpressione sia su Twitter coi suoi servizi per la vendita di musica in streaming.
E qual è stato il brano magari non di maggiore impatto a livello radiofonico, ma di gran lunga il più scaricato in quella sede? Per l’appunto, quello di Gabbani.
La cui affermazione ha il sapore di un passaggio di consegne, di uno spostamento del baricentro – commerciale, più che culturale o musicale – verso supporti e canali di diffusione più vicini al mondo reale.