www.corrieredellosport.itIl docufilm in uscita raccontato dal figlio di Maestrelli, che ha collaborato nella preparazioneParlare con Massimo Maestrelli del docufilm in uscita “Maestro, il calcio a colori di Tommaso Maestrelli” è come immergersi nella quiete di un giorno in famiglia, con la mamma Angela Lina, le sorelle Patrizia e Tiziana e il fratello Maurizio. Perché quello che c’è dietro il racconto della telecamera, è soprattutto una questione di famiglia. Un’esigenza, se non l’urgenza di rendere il tributo dovuto a una storia che valeva la pena rivivere, tra vividi ricordi e documenti rivelatori.
Maestrelli, un sogno che si realizza
«Sarà perché ormai sono arrivato a sessant’anni, o forse perché era il momento giusto per farlo – racconta Massimo -, ma era da qualche tempo che avevo il desiderio di mettere insieme i tasselli di una storia della quale sono ormai l’ultimo testimone diretto, con la sensazione che nessun altro in futuro avrebbe potuto raccontarla nella sua essenza. Così, dopo un progetto non andato in porto, non ci siamo voluti arrendere e ci siamo rivolti, senza troppe speranze, a Groenlandia, che dopo cinque minuti ci ha dato l’ok. Beh, devo dire che da quel momento ho vissuto l’anno più bello degli ultimi quindici. Ho sentito il sostegno di mia madre e l’appoggio di mio fratello e delle mie sorelle, che mi hanno letteralmente accompagnato e sostenuto in questa avventura».
Maestrelli, l'esperienza
Quello per l’appunto trascorso a collaborare nella preparazione del docufilm: «Si è innescato un meccanismo meraviglioso, che mi ha portato indietro del tempo, per rivivere e approfondire tantissimi episodi della vita di mio padre di cui avevo solamente una memoria parziale. Il periodo più bello e significativo per me è stato quello della guerra, in cui si è ritrovato ferito da una mina, poi nascosto in una botola da una ragazza serba, e nel corso del quale si è ritrovato a guidare una brigata di più di 300 ragazzi. Credo sia l’esperienza che lo abbia maggiormente segnato, a livello emotivo, ma anche professionale, nel modo in cui poi si è rapportato con i tanti calciatori che ha allenato in carriera. A 22 anni aveva già visto morire diversi suoi compagni e imparato che la vita è un soffio. Così è riuscito a sopportare anche delusioni sportive atroci, come le beffe con il Foggia e la Reggina, e a convogliare infine tutte le esperienze in quel miracolo che poi fu la sua Lazio».
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