Autore Topic: Reja e la Champions: "Ai sogni bisogna crederci...  (Letto 972 volte)

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Offline Daniela

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Reja e la Champions: "Ai sogni bisogna crederci...
« : Giovedì 21 Ottobre 2010, 14:29:30 »
Reja e la Champions: "Ai sogni bisogna crederci, se hai paura di non farcela non si avverano... Con Hernanes ho fatto la squadra che volevo!"
Il Messaggero (Cerracchio)



Su Wikipedia troverete: Reja nato ad ottobre del 1945 nel Regno d’Italia. Ineccepibile, visto che la Repubblica venne proclamata soltanto nel 1946. Ma un certo effetto lo fa lo stesso. Reja ha attraversato 50 anni del nostro calcio: dalla valigia di cartone con sui si trasferì alla Spal, fino al videoregistratore adesso sintonizzato sul Cagliari: un paio di relazioni sui giocatori pericolosi e perfino il piano del lavoro di Natale, perché “gli stranieri tornano a casa e non vorrei ritrovarmeli poi tutti soprappeso”. Non lascia niente al caso.

Il calcio è cambiato davvero in questi anni?

Tanto fuori, per colpa vostra. Dell’impatto mediatico. Condanno le tv, che fanno e disfano i personaggi. Ma molto anche in campo. Il mio primo allenatore mi diceva: “lo vedi quello con la maglia numero 10, non mollarlo mai”. E basta. Oggi si studia, quanto si studia.

E i giocatori sono diversi?

I giocatori sono l’espressione dei tempi. Se li rimproveri davanti al gruppo, ti rispondono a brutto muso. Se li prendi singolarmente diventano degli agnellini. Del resto è la logica del clan, della gang giovanile: devono sentirsi protetti dagli altri, è l’insicurezza della nostra società. Ai miei tempi, quando parlava l’allenatore, non volava una mosca.

C’era il vincolo allora. Che ne pensa del nuovo contratto collettivo?

Non mi faccia parlare. Le dico solo che io non potrei mai accettare, se fossi giocatore, di restare ai margini. Mi rimetterei in gioco sempre, me ne andrei altrove senza problemi. Se penso a Grosso che dalla Juve non ha voluto trasferirsi al Milan che lo voleva, e così non gioca, mi vengono i nervi. Il mondo è cambiato, c’è crisi, le società non possono più permettersi certi capricci.

Un messaggio per i giovani…
Che alla seconda presenza si sentono già arrivati. E non capiscono che è l’attesa, il lavoro, la sfida con te stesso che ti tempra, che ti fa crescere. Altro che Ferrari e procuratori. Ma a Lotito ho spiegato che il settore giovanile è la vera forza di ogni squadra: Cavanda, Kozak, Perpetuini, Ceccarelli. E altri ne verranno se ci lavoriamo. Bisogna investire: chi più investe, chi sceglie i tecnic giusti, chi fa crescere la speranza, più risparmia in prospettiva. Non a caso avevo chiesto una rosa di 20 giocatori titolari, cui aggregare tre-quattro ragazzi. Qualcosa è stato fatto rispetto al caos della scorsa stagione.

Quanto conta allora oggi un allenatore?

Un 20-25% non di più.

Lei alla Lazio?
Ho ricompattato un ambiente che era completamente sfasciato. Non ho avuto bisogno di motivatori, io basto. Sono arrivato e ho fatto due giorni interi di colloqui singoli. Poi in campo vanno i giocatori, i miei sono bravi, e il merito della salvezza e ora del primo posto è tutto loro.

Quando è arrivato qualcuno e le ha detto: “Con Zarate giochiamo in dieci”?
No, se intende gli altri giocatori. Ma era una voce che girava.

Vera?
Mauro veniva da un grandissimo campionato d’esordio. In certi frangenti, la scorsa stagione, il suo apporto è stato minimo. Va aiutato, responsabilizzato. Ora si è rimesso sotto e sta dimostrando quel che vale: è il giocatore più tecnico che abbiamo, migliore anche di Hernanes. Ma sono stato chiaro con tutti: per me conta il “noi”, ma l’”io”.

Lei ha sostituito Ballardini, ma la telefonata l’ha fatta a Delio Rossi?

Vero, ma solo perché lo conoscevo meglio. Mi ha parlato a cuore aperto e il suo quadro della situazione è stato prezioso.

“Sergente buono”: è una definizione in cui si riconosce?

Sergente va bene, nel senso che comando e decido. Buono non vuol dire fesso: io spiego anche le esclusioni, amo il dialogo. Delio, visto che l’abbiamo citato, parlava troppo poco nello spogliatoio.

Difensivista?

Qui mi arrabbio. Con Hernanes, Mauri, Zarate e Floccari? Io vengo da una scuola offensivista, quella di Galeone. Herrera, poi Sacchi ci hanno insegnato la profondità della manovra. Mazzone una volta mi fermò a Coverciano e mi disse: “Pensa un po’ anche alla difesa”. A Vicenza mi salvai vincendo 17 partite in casa, sempre attaccando.

Però quel 3-5-2 con i terzini sulle fasce dell’anno scorso e dell’inizio di quest’anno…

Guardi, è una questione di uomini. Dias aveva sempre giocato a tre, Biava pure. Mi sono arrangiato. E quest’anoo sono partito senza sapere se Hernanes, il nostro obiettivo di mercato, sarebbe arrivato o meno. Per me i 4 dietro sono un dogma, se posso lavorare sugli uomini giusti. Poi due davanti alla difesa e quattro in avanti. Con Hernanes ho fatto la squadra che volevo. Poi certo, nelle scelte specifiche, guardo anche alle caratteristiche delle squadre avversarie. Che male c’è, l’avversario conta.

L’altro Reja. È vero che era amico di Pier Paolo Pasolini?

C’incontravamo a Grado. Dicevano che lì c’era una sabbia miracolosa per gli acciacchi di noi giocatori. Ci venivano anche Riva e Sormani. E mi è capitato nelle partitelle di marcare Pasolini, che era un ottimo giocatore, e di andare a cena tutti insieme.

Da oltre quarant’anni è sposato con Livia. Un’amante dell’arte?
Una pittrice. Pensi che quando eravamo a Palermo, Renato Guttuso volel vedere i suoi quadri e le propose di venderne cinque o sei. Mia moglie smise lì. Mi disse: “Dipingo solo per me stessa”.

A Roma le mostre non mancano…
A me piacerebbe girarla a fondo Roma. Andare a teatro, mi piace quello popolare, verace. Ma ora hanno inventato i telefonini che fanno le fotografie, e così per strada non posso camminare, come a Napoli del resto: mi fermano in continuazione e mi mettono in posa.

I suoi hobby: golf, vela, tennis, sci, ciclismo. Tutti sport singoli. Bisogno di solitudine?

Forse. Ma il ciclismo lo amo più di tutti. Perché è un cimento continuo con se stessi. E la Lazio, del resto, è il mio Zoncolan, la vetta da scalare.

Ecco, la Lazio. Vista dal di fuori per tanti anni.
Io sono tifoso dell’Udinese. Mio padre mi portava allo stadio a vedere Selmosson, “raggio di luna”. È stato il mio primo incontro con la Lazio, forse un segno del destino. Poi a Cosenza ho allenato Biagioni, nato biancoceleste (segnò pure in Coppa Italia all’Olimpico con la Fidelis Andria, ndr). E sui banchi di Coverciano ho conosciuto Papadopulo e Oddi. La Lazio del ’73, quella di Maestrelli, per noi del calcio era uno spettacolo. E quando ero al Napoli e incontravo la Lazio, mi dicevo sempre: “Che bella squadra”. Ho sempre avuto simpatia per questi colori. Lo dico senza piaggeria.

Però non ha mai battuto la Roma?

Da allenatore mai. Da giocatore, uhm, forse neanche da giocatore. Ci andai vicino sulla panchina del Vicenza, su campo neutro a Udine, poi segnò Perrotta, mi pare (la Roma vinse 2-0, ndr). Ma c’è sempre una prima volta, no?

Mai provato invidia per i suoi amici, o per i suoi allievi approdati su panchine importanti?

Certo. Io ho un carattere spigoloso, a volte avrei dovuto scendere a patti con me stesso. Ma quando non sono stato in sintonia con un presidente, ho sempre fatto le valigie. In fondo mi voglio bene così come sono.

I giocatori che avrebbe voluto in ogni squadra?

Difficile. Penso a Pirlo, che ho lanciato a 17 anni nel Brescia. A Doni nell’Atalanta, un fisico possente, avesse avuto anche la testa…A Zola, capitano del Cagliari (tutti trequartisti, e inventori di gioco, insomma, ndr): ogni giorno, a 37 anni, bissava alla mia porta e mi diceva “Mister, ha bisogno di dire qualcosa alla squadra?”. Un esempio per tutti.

Quattro giganti di ruolo: Gattuso, Sneijder, Ibrahimovic, Pato. Quale teme di più come avversario?
Tatticamente dico Pato, immarcabile. L’olandese crea tanti problemi perché sa giocare fra le linee. Ibra se è in giornata non lo fermi comunque.

Pensi a un rinforzo per gennaio. Difesa, centrocampo o attacco?

Se le rispondo, mi perdo un reparto intero. Ma uno mi servirebbe, indovini lei.

Ha scelto lei Hernanes?
Era quello che ci serviva. Come tipologia, uno Sneijder. Lotito e Tare hanno preso il migliore sul mercato: sembra dinoccolato, corre strano, ma ha una finta di corpo irresistibile. E una grande visione di gioco.

Dove deve migliorare la Lazio?
Sul gioco aereo, magari solo perché non abbiamo gente altissima. Quest’anno vinciamo tanto fuori casa, forse perché ci lasciano giocare di più: ma non mi chieda il segreto. Io le partite le preparo tutte allo stesso modo.

Faccia un sogno?
Ma senza pronunciarlo. Qualcuno ha detto: ai sogni bisogna crederci. Se hai paura di non farcela, non si avverano.

Proviamo? Non è l’Europa League?

Rende poco economicamente, è vero. Però ti abitua a confrontarti con squadre internazionali. serve per l’esperienza ma…

Un po’ più su?

Sarebbe una grande impresa. Io non l’ho mai vissuta, la Champions.

Ok, questa gliel’abbiamo rubata…

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