Dopo aver visto la finale Manchester Utd-Bayern si pensava di aver visto tutto.
Il calcio ha le sue leggi, la prima è che può sempre succedere di tutto, la seconda è che certe cose non possono succedere.
Tipo che una squadra finta contro una grande storica pagherà sempre uno scotto alla tradizione, per prevalere ci vuole altro, i milioni non comprano l'anima.
Se il Barcellona fa il suo per gli altri diventa un grosso problema, bisogna essere all'altezza e il PSG non lo è. Vedi anche alla voce Real-Atletico, due volte su due.
Sono leggi non scritte, mi ricordano i pianti dei francesi nelle semifinali mondiali con i tedeschi.
La finale più probabile per definizione è Barcellona - Real Madrid, ogni altra opzione dipende dai miracoli che sapranno fare le altre, Juve in testa.
Perfettamente d'accordo, ma concederei al Cholo una distinzione.
Il suo Atlético manca di tradizione a certi livelli, e ne ha pagato duramente le conseguenze: ma è una squadra cresciuta col lavoro a livello dirigenziale e tecnico.
Il PSG è una squadra artificiale, una franchigia che potrebbe essere collocata ovunque spostando semplicemente ingenti somme di denaro: il discorso dell'anima che non si compra calza a pennello per loro, più che per i
colchoneros.
Differenze? Beh, il primo è calcio. Il secondo, a essere clementi, calcio 2.0.
Stavo pensando ai precedenti, almeno vaghi, per qualcosa di difficilmente comparabile.
Uno è il 6-1 inflitto dal Real all'Anderlecht - vincitrice e finalista sconfitta ai rigori nelle due precedenti edizioni del torneo, non un avversario qualunque - negli ottavi di Coppa UEFA 1984/'85.
A memoria ricordavo un 4-0 all'andata, che avrebbe riproposto al millimetro la sequenza dei risultati fra Barça e PSG.
In realtà i
blancos dovevano risalire "solo" da un 3-0, ma questo non incide sull'analogia di fondo: la netta sensazione che il risultato abbia spostato una frontiera.
Il mito era già stato coltivato fra gli altri dall'indimenticabile zio Vuja ("Quando tu sali scale del Bernabéu, già 1 a 0 per Real Madrid"): ma la realtà della casa dei madridisti come un luogo quasi stregato per gli avversari, e nel quale poteva succedere l'impensabile, prese forma quella sera.
Fino ad allora un 3-0 casalingo all'andata chiudeva, in maniera ovvia, il discorso all'interno del doppio confronto; quella
remuntada, anche se a quei tempi non la si chiamava così, modificò in maniera irreversibile l'immaginario collettivo sull'argomento.
L'altro termine di confronto, per i miracoli nella ex zona Cesarini (il recupero, e la sua dimensione finalmente definita in termini meno vaghi, hanno profondamente modificato anche questo concetto), è Borussia D.-Malaga nei quarti di finale di CL 2012/'13.
Andata dominata dai tedeschi ma sprecando troppo, e tornando a casa con uno 0-0 di cui sottovalutano le insidie.
Al ritorno l'uomo in più è Manuel Pellegrini, fra i migliori allenatori del mondo finché rimane nella sua dimensione: già a un passo dalla finale con la superrivelazione Villarreal, al Westfalenstadion mette in campo la partita perfetta.
Ancorché inferiori ai gialloneri, i suoi ribaltano le gerarchie sul piano tattico e psicologico.
Chirurgico anche il cambio che manda sul terreno di gioco un certo Eliseu: il suo gol per l'1-2 a otto minuti dalla fine sa tanto di titoli di coda, peraltro con pieno merito per gli spagnoli.
Si arriva all'inizio dei quattro minuti di recupero col risultato invariato, e per Klopp - letteralmente distrutto a scacchi dal collega cileno - sembra finita.
Chi si dispera non ha fatto i conti col più profondo DNA del Borussia, con quella vena di follia che può portare a sprecare tutto nella maniera più inopinata, ma anche a gettare il cuore oltre l'ostacolo quando la razionalità ha esaurito gli argomenti.
E neanche si arriva allo scadere, perché allo spirare del primo minuto di
injury time non è ancora successo niente e al secondo è già successo tutto.
Prima un fuorigioco mal attuato e un'uscita perfettibile di Caballero spalancano la porta a Reus.
Poi un'interpretazione al limite in materia di offside sdogana un batti e ribatti sulla linea dell'area piccola, da cui esce vincitore il difensore centrale Santana.
Un affresco vivente sulla bellezza e la crudeltà - in quel caso persino eccessiva - del calcio, con tutte le metafore di filosofia e di vita che sa ispirare.
Poi uno si ricorda che gli idoli del "muro giallo", pur fra alti e bassi anche a livello societario, hanno una Storia e un'identità inconfondibile.
Mentre il Malaga, onesta provinciale dalla vicenda societaria assai burrascosa, è assurto improvvisamente ai massimi livelli - come il PSG - grazie all'emiro di passaggio.
Il quale, all'inizio della stagione di cui si sta parlando, si è già stancato del giocattolo.
E che, alla fine della stagione stessa, lascerà una situazione contabile tale da indurre l'UEFA a rifiutare l'iscrizione all'EL, conquistata dal club col piazzamento in campionato.
Si è detto dell'analogia fra la serata del Westfalenstadion - che si chiamerebbe Signal Iduna Park, dal nome dello sponsor, ma in questo contesto è bello evocarlo con la denominazione di sempre - e quella del Camp Nou quanto a prodezze durante il recupero.
La chiave di lettura più autentica nel tenere insieme le due storie, però, è forse l'altra: la rivincita, voluta da Eupalla, del calcio vero contro quello di plastica.
E non può essere un caso che il protagonista di una simile impresa - tornato agli splendori di un tempo proprio quando serviva - sia un personaggio poco mediatico, uno che la nomea di campione vero se l'è meritata principalmente sul campo: Andrés Iniesta.