Autore Topic: L'Aquila. Ovvero il Simbolo  (Letto 3480 volte)

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paoletto

L'Aquila. Ovvero il Simbolo
« : Martedì 21 Settembre 2010, 22:26:12 »
Sto leggendo la serie della scrittrice Colleen McCullough ovvero una serie di lunghi romanzi ambietati nella Roma antica. Il primo volume narra delle gesta del prima generale, poi console, Caio Mario, che come leggerete in seguito fu proprio l'uomo che legò il suo nome all'Aquila e la destino di Roma. Personalmente lavoro in Prati vicino ad Ottaviano e mi è sembrato molto strano che la strada a lui dedicata sia molto piccola, quando invece la storia da lui scritta per la nostra città è importante e bella

Cosa c'entra questo OT
Fomentato dal possibile volo dell'Aquila domani allo Stadio e basito nel vedere le nostre solite sterili polemiche speculari se cattività sia più lecito o di meno, mi sono detto ma uno spazio dedicato (che parte da Caio Mario, appunto) sul nostro simbolo lo vogliamo dedicare o no?
Vorrei proprio leggere degli interventi di quelli cazzuti che solo voi riuscite a fare....

Tutto parte da qui:
L’aquila era considerato dai romani un animale divino, e superiore per forza “fedele interprete dei voleri di padre Giove”. Con la riforma dell’esercito fatta da Caio Mario viene introdotta una nuova insegna con in cima un’aquila, diventando simbolo del potere militare. Infatti la troviamo raffigurata in diverse decorazioni militari, in primis gli scudi dei legionari, ma anche negl’elmi e corazze degl’ufficiali. Successivamente con l’Impero essa divenne simbolo dell’Imperatore.

Infatti era l’Imperatore stesso a consegnare l’insegna dell’aquila alla legione, la quale la custodiva gelosamente.

Di solito la si rappresenta assieme ad una corona di alloro, che simboleggia la gloria, infatti la corona d’alloro, che veniva posta sulla testa dei generali vittoriosi nei Trionfi e da alcuni strali simbolo questo di divinità.
 
L'aquilifero (aquilifer in  latino, letteralmente colui che porta l'aquila) era il soldato incaricato di portare in battaglia l'aquila delle legioni romane, che tutti i soldati dovevano proteggere anche a costo della vita. L'aquila era infatti quanto di più prezioso aveva la legione e la sua perdita era considerata un'immane disgrazia.

Sono numerosi i casi di aquiliferi che, gettandosi contro il nemico portando l'insegna, hanno trascinato con sé i compagni, capovolgendo una situazione critica: un esempio è dato dal primo sbarco di Cesare in Britannia, quando le sue truppe, intimorite dai nemici, si decisero a sbarcare a terra per proteggere un aquilifero che da solo era sbarcato avanzando verso i nemici.


Tratto dal sito: http://www.coloniaiuliafanestris.com/l-esercito-romano/aquilifero/

Offline disabitato

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Re:L'Aquila. Ovvero il Simbolo
« Risposta #1 : Martedì 21 Settembre 2010, 22:53:26 »
Il simbolismo  dell’aquila ha un carattere “tradizionale” in senso superiore. Dettato da precise ragioni analogiche, è fra quelli che testimoniano un “invariante”, cioè un elemento costante e immutabile, in seno ai miti e ai simboli di tutte le civiltà di tipo tradizionale. Le particolari formulazioni che riceve questo tema costante son però naturalmente diverse a seconda delle razze. Qui diciamo subito che il simbolismo  dell’aquila nella tradizione delle genti arie ha avuto un carattere spiccatamente “olimpico” ed eroico, cosa che ci proponiamo di chiarire nel presente scritto con un gruppo di riferimenti e di ravvicinamenti.

Circa il carattere “olimpico” del simbolismo dell’aquila, esso risulta già direttamente dal fatto, che quest’animale fu sacro al Dio olimpico per eccellenza, a Zeus, il quale a sua volta non è che la particolare figurazione ario-ellenica (e poi, come Jupiter, ario-romana) della divinità della luce e della regalità venerata da tutti i rami della famiglia aria. A Zeus fu connesso a sua volta un altro simbolo, quello della folgore, cosa che va ricordata, perché vedremo che per tal via esso va a completare non di rado il simbolismo stesso dell’aquila. Ricordiamo anche un altro punto: secondo l’antica visione aria del mondo, l’elemento “olimpico” si definisce soprattutto nella sua antitesi rispetto a quello titanico, tellurico ed anche prometeico. Ora, proprio con la folgore Zeus abbatte, nel mito, i titani. Negli Arii, che vivevano ogni lotta come una specie di riflesso della lotta metafisica fra forze olimpiche e forze titaniche, essi stessi considerandosi come una milizia delle prime, vediamo peraltro aquila e folgore come simboli e insegne che racchiudono, per tal via, un significato profondo e generalmente trascurato.

Secondo l’antica visione aria della vita, l’immortalità è qualcosa di privilegiato: non significa semplice sopravvivenza alla morte, ma partecipazione eroica e regale allo stato di coscienza che definisce la divinità olimpica. Fissiamo alcune corrispondenze. La veduta ora accennata circa l’immortalità è anche propria alla antica tradizione egizia. Solo una parte dell’essere umano è destinata ad una esistenza eterna celeste in stati di gloria – il cosidetto Ba. Ora, questa parte nei geroglifici egizi è raffigurata appunto come un’aquila o uno sparviero (per le condizioni di ambiente, lo sparviero qui è il surrogato dell’aquila, l’appoggio più prossimo offerto dal mondo fisico per esprimere la stessa idea). È sotto forma di sparviero, che nel rituale contenuto nel Libro dei Morti l’anima trasfigurata del morto incute spavento agli stessi dèi e può pronunciare queste parole superbe: “Io son sorto a similitudine di sparviero o di aquila divina ed Oro mi ha fatto partecipe secondo simiglianza dello spirito suo, a che prenda possesso di quel che nell’altro mondo corrisponde ad Osiride”. Questo retaggio superterreno corrisponde esattamente all’elemento olimpico. Infatti nel mito egizio Osiride è una figura divina che corrisponde allo stato primordiale “solare” dello spirito, il quale, dopo aver subito alterazione e corruzione (uccisione e dilaceramento di Osiride), viene restaurato da Oro. Il morto consegue l’indiamento immortalante partecipando della forza restauratrice di Oro, che riconduce ad Osiride, che provoca il “risorgere” o il “ricomporsi” di Osiride.

A questo punto, è facile constatare corrispondenze molteplici di tradizioni e di simboli. Nel mito ellenico, si comprende, a tale stregua, che da “aquile”, esseri, come Ganimede, siano stati rapiti al trono di Zeus. Per mezzo di aquile, nell’antica tradizione persiana, il re Kei-Kaus tentò prometeicamente di innalzarsi al cielo. Nella tradizione indo-aria è l’aquila che porta ad Indra la mistica bevanda che lo costituirà a signore degli dèi. La tradizione classica qui aggiunge un particolare suggestivo: per essa, benché inesattamente, l’aquila valeva come l’unico animale che poteva fissare il sole senza abbassare gli occhi.

Ciò chiarisce la parte che l’aquila ha in alcune redazioni della leggenda prometeica. Prometeo vi appare non come colui che è veramente qualificato per far proprio il fuoco olimpico, ma come colui, che, restando di natura “titanica”, vuole usurparlo e farne cosa non più da “dèi”, ma da uomini. Per pena, nelle redazioni della leggenda cui alludiamo, il Prometeo incatenato ha il fegato continuamente divorato da un’aquila. L’aquila, animale sacro del Dio olimpico, associato alla folgore stessa che abbatte i titani, ci appare qui come una figurazione equivalente allo stesso fuoco, che Prometeo voleva far suo. Si tratta cioè di una specie di castigo immanente. Prometeo non ha la natura dell’aquila, che può fissare impunemente e “olimpicamente” la luce suprema. La stessa forza che volle far sua, diviene il principio del suo tormento e del suo castigo. E qui si aprirebbe una via per comprendere la tragedia interiore di vari esponenti moderni della dottrina di un superuomismo titanico, ossessi e vittime della loro stessa idea, partendo da Nietzsche e da Dostojewskij, e con particolare riguardo, anche, agli eroi caratteristici dei romanzi di quest’ultimo.

Tornando al mondo del mito ariano, troviamo nell’antica tradizione indù una variante di quello prometeico. Agni, sotto forma di aquila o di sparviero, strappa un ramo dell’albero cosmico, ripetendo il gesto, che nel mito semita Adamo compì per “rendersi simile agli dèi”. Agni, che a sua volta è una personificazione del fuoco, viene colpito. Dalle sue piume cadute al suolo sorge però il seme di una pianta che produrrà il “soma terrestre”. Ma il soma è un equivalente della ambrosia, è la sostanza simbolica che indìa, che propizia una partecipazione allo stato “olimpico”. La struttura del mito ario, benché in forma più involuta, ripete quella che già abbiamo analizzata nel mito egizio (offuscamento di Osiride, resurrezione per mezzo di Oro). Si può parlare di un tentativo prometeico fallito in un primo tempo, poi “rettificato” e fatto seme di una giusta realizzazione dello stesso fine.

Nella tradizione irano-aria l’aquila figura spesso come una incarnazione della “gloria” dello hvarenô che, come in altra occasione ricordammo, per quelle razze non valse come una astrazione, bensì come una forza mistica e un potere reale dall’alto, che scende sui sovrani e sui capi, li fa partecipi della natura immortale e li testimonia con la vittoria. Questa “gloria” aria, personificata dall’aquila, non sopporta lesioni dell’etica virile propria alla tradizione mazdea. Così il mito riferisce, che sotto forma di aquila essa si dipartì dal re Yima allorché questi si contaminò con una menzogna. Sulla base di siffatte corrispondenze di significato e di simboli la parte che in Roma antica ebbe l’aquila risulta in una particolare luce. Il rito dell’apoteosi imperiale romana è una prima testimonianza ed una precisa conferma dell’aderenza della romanità all’ideale olimpico. In tale rito proprio il volo di un’aquila dalla pira funeraria simboleggiava infatti il trapasso allo stato di “dio” dell’anima dell’imperatore morto. Ricordiamo i particolari di questo rito, che fu ripetuto sull’esempio di quello originario celebratosi alla morte di Augusto.

Il corpo dell’imperatore morto veniva racchiuso in una bara coperta di porpora, portata da una lettiga d’oro e d’avorio. Veniva deposto in una pira costituita al Campo di Marte e circondata da sacerdoti. Si svolgeva allora la cosiddetta decursio, su cui subito diremo. Dato fuoco alla pira, un’aquila si liberava dalle fiamme, e si pensava che in quell’istante l’anima del morto simbolicamente s’innalzasse verso le regioni celesti, per esser accolta fra gli Olimpici. La decursio, cui ora si è accennato, era la corsa di truppe, di cavalieri e di capi intorno alla pira dell’imperatore, sulla quale essi gittavano le ricompense ricevute per il loro valore. Anche in questo rito si cela un significato profondo. Era credenza aria e romana, che nei capi fosse la vera forza decisiva per la vittoria; cioè, non tanto nei capi come persona, quanto nell’elemento sovrannaturale, “olimpico” ad essi attribuito. Per questo, nella cerimonia romana del trionfo il duce vincitore assumeva i simboli del dio olimpico, di Jupiter, e al tempio di questo dio andava a rimettere i lauri della vittoria, volendo con ciò esprimere il vero autore della vittoria, ben distinto dalla sua parte semplicemente umana. Nella decursio avveniva una “remissione” analoga: i soldati e i capi restituivano le ricompense che ricordavano il loro coraggio e la loro forza vincitrice all’imperatore come a colui che, nella sua potenzialità “olimpica”, ora sul punto di liberarsi e di transumanarsi, ne era stato la vera origine.

Storia, linguaggio, simboli e significati dei blasoni e delle armi Ciò ci conduce ad esaminare la seconda testimonianza dello spirito “olimpico” della romanità, parimenti controsegnato del simbolismo ario dell’aquila. Era tradizione classica che colui, su cui si posasse l’aquila fosse predestinato da Zeus ad alti destini o alla regalità, volendosi con ciò indicare il presupposto “olimpico” della legittimità degli uni o dell’altra. Ma era parimenti tradizione classica, e poi specificamente romana, che l’aquila fosse segno di vittoria, col che, parimenti, vengono in risalto i presupposti “olimpici” della concezione stessa della lotta e della vittoria, cioè l’idea, che attraverso la vittoria della gente aria e romana fossero le forze stesse della divinità olimpica, del dio di luce, a vincere; la vittoria degli uomini, riflesso di quella stessa di Zeus su forze antiolimpiche e “barbariche”, era preannunciata dall’apparire dell’animale stesso di Zeus, dall’aquila.

Ecco la base per comprendere adeguatamente, in relazione a significati profondi d’origine tradizionale e sacrale, e non a vuote allegorie, la parte che l’aquila aveva fra le insegne degli eserciti romani, presso signa e vexilla, fin dalle origini. Fin dall’epoca repubblicana l’aquila fu in Roma come l’insegna delle legioni – veniva detto: “un’aquila per legione e nessuna legione senz’aquila”. In particolare, l’insegna era costituita dall’aquila con le ali spiegate e, in più, con una folgore fra gli artigli. Vien così confermato rigorosamente il simbolismo “olimpico” già detto: presso all’animale sacro di Giove è il segno della sua stessa forza, di quella folgore, con la quale egli combatte e stermina i titani. Dettaglio degno di rilievo, le insegne delle truppe barbariche non avevano aquila: nei signa auxiliarium troviamo invece animali sacri o “totemici”, rifacentisi ad altre influenze, quali il toro o l’ariete. Solo in un periodo successivo questi segni s’infiltrarono nella stessa romanità associandosi all’aquila e dando luogo, spesso, ad un simbolismo doppio: il secondo animale aggiunto all’aquila nelle insegne di una data legione stava allora in relazione con una caratteristica di essa, mentre l’aquila si rifaceva al simbolo generale di Roma. Nel periodo imperiale, peraltro, l’aquila, da insegna militare, divenne spesso simbolo per lo stesso Imperium.

Noi sappiamo la parte che nella storia successiva il simbolo dell’aquila ha avuto nei popoli nordici e germanici. Questo simbolo sembra quasi aver abbandonato per un lungo periodo il suolo romano ed esser trasmigrato fra le razze germaniche, tanto da apparire a molti come un simbolo essenzialmente nordico. Ciò non è esatto. Si è dimenticata l’origine dell’aquila che figura ancora oggi (1941 – n.d.r.) come emblema della Germania, così come essa fu anche emblema dell’Impero austriaco, ultimo erede del Sacro Romano Impero. Quest’aquila germanica è semplicemente l’aquila romana. Fu Carlomagno nell’800, che nel punto di dichiarare la renovatio romani imperii ne riprese il simbolo fondamentale, l’aquila, e ne fece l’emblema del suo Stato. Storicamente, è dunque null’altro che l’aquila romana quella che si è conservata fino ad oggi come simbolo del Reich. Ciò non impedisce però che, da un punto dì vista più profondo, superstorico, nel riguardo si possa pensare a qualcosa di più che ad una semplice importazione. L’aquila infatti nella mitologia nordica figurava già come uno degli animali sacri ad Odino-Wotan e come questo animale fu aggiunto nelle insegne romane delle legioni, così esso apparve anche nei cimieri degli antichi capi germanici. Si può dunque concepire che mentre Carlomagno nell’assumere l’Aquila a simbolo del risorto impero aveva essenzialmente in vista Roma antica, egli simultaneamente, senza rendersene conto, riprendeva anche un simbolo dell’antica tradizione ario-nordica, conservatasi solo in forma frammentaria e crepuscolare fra i vari ceppi del periodo delle invasioni. In ogni modo, nella storia successiva l’aquila finì con l’avere un valore semplicemente araldico e il suo significato simbolico e morale più profondo e originario fu dimenticato. Come molti altri, divenne un simbolo che sopravviveva a sé stesso e che quindi fu perfino suscettibile a servir da base ad idee molto diverse. Sarebbe quindi assurdo supporre la presenza, sia pur “sonnambolica”, di concezioni, come quelle qui ricordate, dovunque oggi si siano viste aquile in segni ed emblemi europei. Le cose potrebbero stare diversamente per noi, eredi dell’antica romanità, e poi pel popolo, che oggi ci sta a fianco, erede dell’imperio romano-germanico. La conoscenza del significato originario del simbolismo ario dell’Aquila, risorto emblema di entrambe le nostre genti, potrebbe controsegnare anzi il significato più alto della nostra lotta e connettersi con l’impegno, che in questa si ripeta, in una certa misura, la stessa vicenda, nella quale l’antica gente aria, nel segno olimpico ed evocando la forza stessa olimpica sterminatrice di entità oscure e titaniche, potè sentirsi come la milizia di influenze dall’alto ed affermare un superiore diritto e una superiore funzione di dominio e di ordine.


http://www.centrostudilaruna.it/simbolismodellaquila.html
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Offline BobLovati

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Re:L'Aquila. Ovvero il Simbolo
« Risposta #2 : Mercoledì 22 Settembre 2010, 13:52:57 »
................................................................
L'aquilifero (aquilifer in  latino, letteralmente colui che porta l'aquila) era il soldato incaricato di portare in battaglia l'aquila delle legioni romane, che tutti i soldati dovevano proteggere anche a costo della vita. L'aquila era infatti quanto di più prezioso aveva la legione e la sua perdita era considerata un'immane disgrazia.

Sono numerosi i casi di aquiliferi che, gettandosi contro il nemico portando l'insegna, hanno trascinato con sé i compagni, capovolgendo una situazione critica: un esempio è dato dal primo sbarco di Cesare in Britannia, quando le sue truppe, intimorite dai nemici, si decisero a sbarcare a terra per proteggere un aquilifero che da solo era sbarcato
avanzando verso i nemici. [/i]


l´hai fatta calla, l´hai fatta    :o  sai che pardepa.lle ce farà " aquilifer " dopo sto topicce !!!    :-X    :P
Laziale, Ducatista e fiumarolo

Siamo noi fortunati ad essere della Lazio, non la Lazio ad avere noi

“LA MOGLIE DI CESARE DEVE NON SOLO ESSERE ONESTA, MA ANCHE SEMBRARE ONESTA.”

CiPpi

Re:L'Aquila. Ovvero il Simbolo
« Risposta #3 : Mercoledì 22 Settembre 2010, 14:10:35 »
... quando le sue truppe, intimorite dai nemici, si decisero a sbarcare a terra per proteggere un aquilifero che da solo era sbarcato avanzando verso i nemici. [/i]
...

po esse bono pe' le invasioni di campo.

Offline aquilifer

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Re:L'Aquila. Ovvero il Simbolo
« Risposta #4 : Venerdì 24 Settembre 2010, 13:37:44 »
AVE
Decimae legionis Aquilifer sum, infinita mea verecundia mihi inhibet ostentare mea res gesta, nihil fecit nisi meum officium, itaque desino verba duci C. Iulio Caesari....
Quod ubi Caesar animadvertit, naves longas, quarum et species eratbarbaris inusitatior et motus ad usum expeditior,
paulum removeri ab onerariis navibus et remis incitari et ad latus apertumhostium constitui atque inde fundis, sagittis, tormentis
hostes propelli ac submoveri iussit; quae res magno usui nostris fuit. Nam etnavium figura et remorum motu et inusitato genere
tormentorum permoti barbari constiterunt ac paulum modo pedem rettulerunt. Atquenostris militibus cunctantibus, maxime
propter altitudinem maris, qui X legionis aquilam gerebat, obtestatus deos, utea res legioni feliciter eveniret, ' desilite', inquit, '
milites, nisi vultis aquilam hostibus prodere; ego certe meum rei publicae atqueimperatori officium praestitero.' Hoc cum voce
magna dixisset, se ex navi proiecit atque in hostes aquilam ferre coepit. Tumnostri cohortati inter se, ne tantum dedecus
admitteretur, universi ex navi desiluerunt. Hos item ex proximis primi navibuscum conspexissent, subsecuti hostibus
adpropinquaverunt.
Pugnatum est ab utrisque acriter....
Scelsi il mio nick ricordando appunto questo episodio, rivedo ancora l'insegnante di latino guardarmi di sottecchi mentre leggevamo il de bello gallico in classe, ero come al solito al primo banco col mio carissimo amico riommico, per una scelta strategica, primo banco dove sulla formica facevano bella mostra le formazioni dei nostri beniamini: Cei Zanetti Garbuglia....Panetti Losi Carpenesi...allora non capivo perchè l'insegnante continuasse a fissarmi, solo anni dopo realizzai il messaggio che forse voleva inviarmi, del significato del simbolo dell'aquila, che aquilifer era un grado dell'esercito romano, della dignita' e dell'antichita' di questa simbologia, simbolo che poi assurse a simbolo dell'impero; faccio inoltre notare che nei testi piu' antichi per quanto abbia cercato simboli raffiguranti cagnetti et similia non si trovano...
Per concludere, per completezza di informazione: la dotta disquisizione di disabitato seppur condivisibile in piu' punti, mi lascia leggermente perplesso; si fa riferimento all'aquila come una simbologia propria dei popoli arii, un approccio storico con una vena di tipo razziale diventa alquanto limitante ed infatti la contraddizione emerge da subito citando appunto gli egizi; non ho tempo ne' voglia ora di approfondire l'argomento, ma sarebbe stimolante un confronto del genere, mi sembra piuttosto piu' interessante far notare che la cosiddetta simbologia celeste ovvero olimpica è propria di popoli originariamente nomadi che man mano consolidandosi la conquista si sovrappone alle simbologie legate alla terra dei popoli stanziali.   
Atque nostris militibus cunctantibus, qui X legionis aquilam gerebat, obtestatus deos, ut ea res legioni feliciter eveniret,"desilite" inquit "milites nisi vultis aquilam hostibus prodere..." hoc cum voce magna dixisset, se ex navi proiecit atque in hostes aquilam ferre coepit.

TD

Re:L'Aquila. Ovvero il Simbolo
« Risposta #5 : Venerdì 24 Settembre 2010, 13:46:05 »
Io amo la lupa. La Lupa evoca il mito della fondazione della città, è nostra come loro, non ci può essere un'opzione sulle radici della città più importante della storia dell'umanità. Loro hanno scelto di metterla sul loro stemma, ma non per questo ci hanno privato di un simbolo che è nostro in quanto cittadini di Roma. Je piacerebbe. Girando in lungo e in largo si incontrano lupe che rappresentano Roma dappertutto, con la roma non c'entrano davvero un accidente. Essendo ignorante ho la tendenza ad associare l'aquila più alla Lazio che alla città. Ma, ripeto, il mito della fondazione appartiene a tutti noi, laziali e romanisti sono solo un pezzo di questa città.

Offline disabitato

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Re:L'Aquila. Ovvero il Simbolo
« Risposta #6 : Venerdì 24 Settembre 2010, 13:47:50 »
Per concludere, per completezza di informazione: la dotta disquisizione di disabitato seppur condivisibile in piu' punti, mi lascia leggermente perplesso; si fa riferimento all'aquila come una simbologia propria dei popoli arii, un approccio storico con una vena di tipo razziale diventa alquanto limitante ed infatti la contraddizione emerge da subito citando appunto gli egizi; non ho tempo ne' voglia ora di approfondire l'argomento, ma sarebbe stimolante un confronto del genere, mi sembra piuttosto piu' interessante far notare che la cosiddetta simbologia celeste ovvero olimpica è propria di popoli originariamente nomadi che man mano consolidandosi la conquista si sovrappone alle simbologie legate alla terra dei popoli stanziali.

concordo con te...
è un link che ho tirato giù dalla rete.. mi sembrava uno dei più completi. Anche io non ho ben compreso il passaggio degli Arii.
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paoletto

Re:L'Aquila. Ovvero il Simbolo
« Risposta #7 : Venerdì 24 Settembre 2010, 15:25:49 »
AVE
.... non ho tempo ne' voglia ora di approfondire l'argomento, ma sarebbe stimolante un confronto del genere, mi sembra piuttosto piu' interessante far notare che la cosiddetta simbologia celeste ovvero olimpica è propria di popoli originariamente nomadi che man mano consolidandosi la conquista si sovrappone alle simbologie legate alla terra dei popoli stanziali.
ho aperto questo topic apposta per questo motivo

Offline aquilafelyx

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Re:L'Aquila. Ovvero il Simbolo
« Risposta #8 : Sabato 9 Ottobre 2010, 20:17:27 »
Già si godeva solo del suo verbo
quello specchio beato, e io gustava
lo mio, temprando col dolce l'acerbo;
e quella donna ch'a Dio mi menava
disse: «Muta pensier; pensa ch'i' sono
presso a colui ch'ogne torto disgrava».
Io mi rivolsi a l'amoroso suono
del mio conforto; e qual io allor vidi
ne li occhi santi amor, qui
l'abbandono:
non perch' io pur del mio parlar
diffidi,
ma per la mente che non può redire
sovra sé tanto, s'altri non la guidi.
Tanto poss' io di quel punto ridire,
che, rimirando lei, lo mio affetto
libero fu da ogne altro disire,
fin che 'l piacere etterno, che diretto
raggiava in Bëatrice, dal bel viso
mi contentava col secondo aspetto.
Vincendo me col lume d'un sorriso,
ella mi disse: «Volgiti e ascolta;
ché non pur ne' miei occhi è
paradiso».
Come si vede qui alcuna volta
l'affetto ne la vista, s'elli è tanto,
che da lui sia tutta l'anima tolta,
così nel fiammeggiar del folgór santo,
a ch'io mi volsi, conobbi la voglia
in lui di ragionarmi ancora alquanto.
El cominciò: «In questa quinta soglia
de l'albero che vive de la cima
e frutta sempre e mai non perde
foglia,
spiriti son beati, che giù, prima
che venissero al ciel, fuor di gran
voce,
sì ch'ogne musa ne sarebbe opima.
Però mira ne' corni de la croce:
quello ch'io nomerò, lì farà l'atto
che fa in nube il suo foco veloce».
Io vidi per la croce un lume tratto
dal nomar Iosuè, com' el si feo;
né mi fu noto il dir prima che 'l fatto.
E al nome de l'alto Macabeo
vidi moversi un altro roteando,
e letizia era ferza del paleo.
Così per Carlo Magno e per Orlando
due ne seguì lo mio attento sguardo,
com' occhio segue suo falcon
volando.
Poscia trasse Guiglielmo e Rinoardo
e 'l duca Gottifredi la mia vista
per quella croce, e Ruberto Guiscardo.
Indi, tra l'altre luci mota e mista,
mostrommi l'alma che m'avea parlato
qual era tra i cantor del cielo artista.
Io mi rivolsi dal mio destro lato
per vedere in Beatrice il mio dovere,
o per parlare o per atto, segnato;
e vidi le sue luci tanto mere,
tanto gioconde, che la sua sembianza
vinceva li altri e l'ultimo solere.
E come, per sentir più dilettanza
bene operando, l'uom di giorno in
giorno
s'accorge che la sua virtute avanza,
sì m'accors' io che 'l mio girare
intorno
col cielo insieme avea cresciuto l'arco,
veggendo quel miracol più addorno.
E qual è 'l trasmutare in picciol varco
di tempo in bianca donna, quando 'l
volto
suo si discarchi di vergogna il carco,
tal fu ne li occhi miei, quando fui
vòlto,
per lo candor de la temprata stella
sesta, che dentro a sé m'avea ricolto.
Io vidi in quella giovïal facella
lo sfavillar de l'amor che lì era
segnare a li occhi miei nostra favella.
E come augelli surti di rivera,
quasi congratulando a lor pasture,
fanno di sé or tonda or altra schiera,
sì dentro ai lumi sante creature
volitando cantavano, e faciensi
or D, or I, or L in sue figure.
Prima, cantando, a sua nota moviensi;
poi, diventando l'un di questi segni,
un poco s'arrestavano e taciensi.
O diva Pegasëa che li 'ngegni
fai glorïosi e rendili longevi,
ed essi teco le cittadi e ' regni,
illustrami di te, sì ch'io rilevi
le lor figure com' io l'ho concette:
paia tua possa in questi versi brevi!
Mostrarsi dunque in cinque volte sette
vocali e consonanti; e io notai
le parti sì, come mi parver dette.
'DILIGITE IUSTITIAM', primai
fur verbo e nome di tutto 'l dipinto;
'QUI IUDICATIS TERRAM', fur sezzai.
Poscia ne l'emme del vocabol quinto
rimasero ordinate; sì che Giove
pareva argento lì d'oro distinto.
E vidi scendere altre luci dove
era il colmo de l'emme, e lì quetarsi
cantando, credo, il ben ch'a sé le
move.
Poi, come nel percuoter d'i ciocchi
arsi
surgono innumerabili faville,
onde li stolti sogliono agurarsi,
resurger parver quindi più di mille
luci e salir, qual assai e qual poco,
sì come 'l sol che l'accende sortille;
e quïetata ciascuna in suo loco,
la testa e 'l collo d'un'aguglia vidi
rappresentare a quel distinto foco.
Quei che dipinge lì, non ha chi 'l
guidi;
ma esso guida, e da lui si rammenta
quella virtù ch'è forma per li nidi.
L'altra bëatitudo, che contenta
pareva prima d'ingigliarsi a l'emme,
con poco moto seguitò la 'mprenta.
O dolce stella, quali e quante gemme
mi dimostraro che nostra giustizia
effetto sia del ciel che tu ingemme!
Per ch'io prego la mente in che
s'inizia
tuo moto e tua virtute, che rimiri
ond' esce il fummo che 'l tuo raggio
vizia;
sì ch'un'altra fïata omai s'adiri
del comperare e vender dentro al
templo
che si murò di segni e di martìri.
O milizia del ciel cu' io contemplo,
adora per color che sono in terra
tutti svïati dietro al malo essemplo!
Già si solea con le spade far guerra;
ma or si fa togliendo or qui or quivi
lo pan che 'l pïo Padre a nessun serra.
Ma tu che sol per cancellare scrivi,
pensa che Pietro e Paulo, che moriro
per la vigna che guasti, ancor son vivi.
Ben puoi tu dire: «I' ho fermo 'l disiro
sì a colui che volle viver solo
e che per salti fu tratto al martiro,
ch'io non conosco il pescator né
Polo».
M'illumino di Lulic

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Re:L'Aquila. Ovvero il Simbolo
« Risposta #9 : Sabato 9 Ottobre 2010, 20:21:03 »
Parea dinanzi a me con l’ali aperte
la bella image che nel dolce frui
liete facevan l ’anime conserte;
parea ciascuna rubinetto in cui
raggio di sole ardesse sì acceso,
che ne ’ miei occhi rifrangesse lui.
E quel che mi convien ritrar testeso,
non portò voce mai, né scrisse
incostro,
né fu per fantasia già mai compreso;
ch’io vidi e anche udi’ parlar lo rostro,
e sonar ne la voce e «io» e «mio»,
quand ’ era nel concetto e ’noi’ e
’nostro’.
E cominciò: «Per esser giusto e pio
son io qui essaltato a quella gloria
che non si lascia vincere a disio;
e in terra lasciai la mia memoria
sì fatta, che le genti lì malvage
commendan lei, ma non seguon la
storia».
Così un sol calor di molte brage
si fa sentir, come di molti amori
usciva solo un suon di quella image.
Ond’ io appresso: «O perpetüi fiori
de l’etterna letizia, che pur uno
parer mi fate tutti vostri odori,
solvetemi, spirando, il gran digiuno
che lungamente m ’ha tenuto in fame,
non trovandoli in terra cibo alcuno.
Ben so io che, se ’n cielo altro reame
la divina giustizia fa suo specchio,
che ’l vostro non l’apprende con
velame.
Sapete come attento io m’apparecchio
ad ascoltar; sapete qual è quello
dubbio che m ’è digiun cotanto
vecchio».
Quasi falcone ch’esce del cappello,
move la testa e con l’ali si plaude,
voglia mostrando e faccendosi bello,
vid’ io farsi quel segno, che di laude
de la divina grazia era contesto,
con canti quai si sa chi là sù gaude.
Poi cominciò: «Colui che volse il sesto
a lo stremo del mondo, e dentro ad
esso
distinse tanto occulto e manifesto,
non poté suo valor sì fare impresso
in tutto l ’universo, che ’l suo verbo
non rimanesse in infinito eccesso.
E ciò fa certo che ’l primo superbo,
che fu la somma d’ogne creatura,
per non aspettar lume, cadde acerbo;
e quinci appar ch’ogne minor natura
è corto recettacolo a quel bene
che non ha fine e sé con sé misura.
Dunque vostra veduta, che convene
esser alcun de ’ raggi de la mente
di che tutte le cose son ripiene,
non pò da sua natura esser possente
tanto, che suo principio non discerna
molto di là da quel che l ’è parvente.
Però ne la giustizia sempiterna
la vista che riceve il vostro mondo,
com ’ occhio per lo mare, entro
s’interna;
che, ben che da la proda veggia il
fondo,
in pelago nol vede; e nondimeno
èli, ma cela lui l ’esser profondo.
Lume non è, se non vien dal sereno
che non si turba mai; anzi è tenèbra
od ombra de la carne o suo veleno.
Assai t’è mo aperta la latebra
che t’ascondeva la giustizia viva,
di che facei question cotanto crebra;
ché tu dicevi: "Un uom nasce a la riva
de l ’Indo, e quivi non è chi ragioni
di Cristo né chi legga né chi scriva;
e tutti suoi voleri e atti buoni
sono, quanto ragione umana vede,
sanza peccato in vita o in sermoni.
Muore non battezzato e sanza fede:
ov ’ è questa giustizia che ’l condanna?
ov’ è la colpa sua, se ei non crede?".
Or tu chi se', che vuo' sedere a
scranna,
per giudicar di lungi mille miglia
con la veduta corta d'una spanna?
Certo a colui che meco s’assottiglia,
se la Scrittura sovra voi non fosse,
da dubitar sarebbe a maraviglia.
Oh terreni animali! oh menti grosse!
La prima volontà, ch ’è da sé buona,
da sé, ch’è sommo ben, mai non si
mosse.
Cotanto è giusto quanto a lei
consuona:
nullo creato bene a sé la tira,
ma essa, radïando, lui cagiona».
Quale sovresso il nido si rigira
poi c ’ha pasciuti la cicogna i figli,
e come quel ch’è pasto la rimira;
cotal si fece, e sì leväi i cigli,
la benedetta imagine, che l ’ali
movea sospinte da tanti consigli.
Roteando cantava, e dicea: «Quali
son le mie note a te, che non le
’ntendi,
tal è il giudicio etterno a voi mortali».
Poi si quetaro quei lucenti incendi
de lo Spirito Santo ancor nel segno
che fé i Romani al mondo reverendi,
esso ricominciò: «A questo regno
non salì mai chi non credette ’n
Cristo,
né pria né poi ch’el si chiavasse al
legno.
Ma vedi: molti gridan "Cristo, Cristo!",
che saranno in giudicio assai men
prope
a lui, che tal che non conosce Cristo;
e tai Cristian dannerà l’Etïòpe,
quando si partiranno i due collegi,
l ’uno in etterno ricco e l’altro inòpe.
Che poran dir li Perse a’ vostri regi,
come vedranno quel volume aperto
nel qual si scrivon tutti suoi dispregi?
Lì si vedrà, tra l’opere d’Alberto,
quella che tosto moverà la penna,
per che ’l regno di Praga fia diserto.
Lì si vedrà il duol che sovra Senna
induce, falseggiando la moneta,
quel che morrà di colpo di cotenna.
Lì si vedrà la superbia ch’asseta,
che fa lo Scotto e l’Inghilese folle,
sì che non può soffrir dentro a sua
meta.
Vedrassi la lussuria e ’l viver molle
di quel di Spagna e di quel di
Boemme,
che mai valor non conobbe né volle.
Vedrassi al Ciotto di Ierusalemme
segnata con un i la sua bontate,
quando ’l contrario segnerà un emme.
Vedrassi l’avarizia e la viltate
di quei che guarda l’isola del foco,
ove Anchise finì la lunga etate;
e a dare ad intender quanto è poco,
la sua scrittura fian lettere mozze,
che noteranno molto in parvo loco.
E parranno a ciascun l’opere sozze
del barba e del fratel, che tanto
egregia
nazione e due corone han fatte bozze.
E quel di Portogallo e di Norvegia
lì si conosceranno, e quel di Rascia
che male ha visto il conio di Vinegia.
Oh beata Ungheria, se non si lascia
più malmenare! e beata Navarra,
se s ’armasse del monte che la fascia!
E creder de’ ciascun che già, per arra
di questo, Niccosïa e Famagosta
per la lor bestia si lamenti e garra,
che dal fianco de l’altre non si
scosta».
M'illumino di Lulic

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Offline aquilafelyx

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Re:L'Aquila. Ovvero il Simbolo
« Risposta #10 : Sabato 9 Ottobre 2010, 20:25:46 »
Quando colui che tutto 'l mondo
alluma
de l'emisperio nostro sì discende,
che 'l giorno d'ogne parte si consuma,
lo ciel, che sol di lui prima s'accende,
subitamente si rifà parvente
per molte luci, in che una risplende;
e questo atto del ciel mi venne a
mente,
come 'l segno del mondo e de' suoi
duci
nel benedetto rostro fu tacente;
però che tutte quelle vive luci,
vie più lucendo, cominciaron canti
da mia memoria labili e caduci.
O dolce amor che di riso t'ammanti,
quanto parevi ardente in que' flailli,
ch'avieno spirto sol di pensier santi!
Poscia che i cari e lucidi lapilli
ond' io vidi ingemmato il sesto lume
puoser silenzio a li angelici squilli,
udir mi parve un mormorar di fiume
che scende chiaro giù di pietra in
pietra,
mostrando l'ubertà del suo cacume.
E come suono al collo de la cetra
prende sua forma, e sì com' al
pertugio
de la sampogna vento che penètra,
così, rimosso d'aspettare indugio,
quel mormorar de l'aguglia salissi
su per lo collo, come fosse bugio.
Fecesi voce quivi, e quindi uscissi
per lo suo becco in forma di parole,
quali aspettava il core ov' io le scrissi.
«La parte in me che vede e pate il
sole
ne l'aguglie mortali», incominciommi,
«or fisamente riguardar si vole,
perché d'i fuochi ond' io figura
fommi,
quelli onde l'occhio in testa mi
scintilla,
e' di tutti lor gradi son li sommi.
Colui che luce in mezzo per pupilla,
fu il cantor de lo Spirito Santo,
che l'arca traslatò di villa in villa:
ora conosce il merto del suo canto,
in quanto effetto fu del suo consiglio,
per lo remunerar ch'è altrettanto.
Dei cinque che mi fan cerchio per
ciglio,
colui che più al becco mi s'accosta,
la vedovella consolò del figlio:
ora conosce quanto caro costa
non seguir Cristo, per l'esperïenza
di questa dolce vita e de l'opposta.
E quel che segue in la circunferenza
di che ragiono, per l'arco superno,
morte indugiò per vera penitenza:
ora conosce che 'l giudicio etterno
non si trasmuta, quando degno preco
fa crastino là giù de l'odïerno.
L'altro che segue, con le leggi e meco,
sotto buona intenzion che fé mal
frutto,
per cedere al pastor si fece greco:
ora conosce come il mal dedutto
dal suo bene operar non li è nocivo,
avvegna che sia 'l mondo indi
distrutto.
E quel che vedi ne l'arco declivo,
Guiglielmo fu, cui quella terra plora
che piagne Carlo e Federigo vivo:
ora conosce come s'innamora
lo ciel del giusto rege, e al sembiante
del suo fulgore il fa vedere ancora.
Chi crederebbe giù nel mondo errante
che Rifëo Troiano in questo tondo
fosse la quinta de le luci sante?
Ora conosce assai di quel che 'l
mondo
veder non può de la divina grazia,
ben che sua vista non discerna il
fondo».
Quale allodetta che 'n aere si spazia
prima cantando, e poi tace contenta
de l'ultima dolcezza che la sazia,
tal mi sembiò l'imago de la 'mprenta
de l'etterno piacere, al cui disio
ciascuna cosa qual ell' è diventa.
E avvegna ch'io fossi al dubbiar mio
lì quasi vetro a lo color ch'el veste,
tempo aspettar tacendo non patio,
ma de la bocca, «Che cose son
queste?»,
mi pinse con la forza del suo peso:
per ch'io di coruscar vidi gran feste.
Poi appresso, con l'occhio più acceso,
lo benedetto segno mi rispuose
per non tenermi in ammirar sospeso:
«Io veggio che tu credi queste cose
perch' io le dico, ma non vedi come;
sì che, se son credute, sono ascose.
Fai come quei che la cosa per nome
apprende ben, ma la sua quiditate
veder non può se altri non la prome.
Regnum celorum vïolenza pate
da caldo amore e da viva speranza,
che vince la divina volontate:
non a guisa che l'omo a l'om
sobranza,
ma vince lei perché vuole esser vinta,
e, vinta, vince con sua beninanza.
La prima vita del ciglio e la quinta
ti fa maravigliar, perché ne vedi
la regïon de li angeli dipinta.
D'i corpi suoi non uscir, come credi,
Gentili, ma Cristiani, in ferma fede
quel d'i passuri e quel d'i passi piedi.
Ché l'una de lo 'nferno, u' non si riede
già mai a buon voler, tornò a l'ossa;
e ciò di viva spene fu mercede:
di viva spene, che mise la possa
ne' prieghi fatti a Dio per suscitarla,
sì che potesse sua voglia esser mossa.
L'anima glorïosa onde si parla,
tornata ne la carne, in che fu poco,
credette in lui che potëa aiutarla;
e credendo s'accese in tanto foco
di vero amor, ch'a la morte seconda
fu degna di venire a questo gioco.
L'altra, per grazia che da sì profonda
fontana stilla, che mai creatura
non pinse l'occhio infino a la prima
onda,
tutto suo amor là giù pose a drittura:
per che, di grazia in grazia, Dio li
aperse
l'occhio a la nostra redenzion futura;
ond' ei credette in quella, e non
sofferse
da indi il puzzo più del paganesmo;
e riprendiene le genti perverse.
Quelle tre donne li fur per battesmo
che tu vedesti da la destra rota,
dinanzi al battezzar più d'un
millesmo.
O predestinazion, quanto remota
è la radice tua da quelli aspetti
che la prima cagion non veggion tota!
E voi, mortali, tenetevi stretti
a giudicar: ché noi, che Dio vedemo,
non conosciamo ancor tutti li eletti;
ed ènne dolce così fatto scemo,
perché il ben nostro in questo ben
s'affina,
che quel che vole Iddio, e noi
volemo».
Così da quella imagine divina,
per farmi chiara la mia corta vista,
data mi fu soave medicina.
E come a buon cantor buon citarista
fa seguitar lo guizzo de la corda,
in che più di piacer lo canto acquista,
sì, mentre ch'e' parlò, sì mi ricorda
ch'io vidi le due luci benedette,
pur come batter d'occhi si concorda,
con le parole mover le fiammette.
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jumpingjackflash

Re:L'Aquila. Ovvero il Simbolo
« Risposta #11 : Sabato 9 Ottobre 2010, 20:57:20 »
Giorni e mesi corrono veloci

La strada è oscura e incerta

E temo di offuscarmi

Non prestare orecchio alle menzogne

Non farti soffocare dai maligni

Non ti nutrire di invidie e gelosie

In silenzio soffro I danni del tempo

Le aquile noon volano a stormi

Vivo è il rimpianto della via smarrita

Nell'incerto cammino del ritorno



Seguo la guida degli antichi saggi

Mi affido al cuore ed attraverso il male

A chi confessi I tuoi segreti?

Ferito al mattino a sera offeso

Salta su un cavallo alato

Prima che l'incostanza offuschi lo splendore



In silenzio soffro I danni del tempo

Le aquile non volano a stormi

Vivo è il rimpianto della via smarrita

Nell'incerto cammino del ritorno



Shizukani tokino kizuni kurushimu

Murewo kundewa tobanai taka

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Offline Centurio

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Re:L'Aquila. Ovvero il Simbolo
« Risposta #12 : Sabato 9 Ottobre 2010, 22:38:14 »
Sto leggendo la serie della scrittrice Colleen McCullough ovvero una serie di lunghi romanzi ambietati nella Roma antica. Il primo volume narra delle gesta del prima generale, poi console, Caio Mario, che come leggerete in seguito fu proprio l'uomo che legò il suo nome all'Aquila e la destino di Roma. Personalmente lavoro in Prati vicino ad Ottaviano e mi è sembrato molto strano che la strada a lui dedicata sia molto piccola, quando invece la storia da lui scritta per la nostra città è importante e bella



incredibili i casi della vita. Stó appunto con un libro di McCullogh "Le donne di Cesare" in mano. Quello che citi tu é "I giorni della gloria". Ce li ho tutti e quattro, sono scritti in maniera eccezionale, i personaggi sono vivi ed esprimono virtú e vizi in maniera incredibile.
Caio Mario salvó Roma battendo uno sterminato esercito teutonico ad Aqua Sextia, fu uno dei piú grandi eroi di Roma Antica. E non era nemmeno nativo di Roma. Roma non era solo una cittá, ma un ideale anche per molti italici. E quando erano arruolati eneel Legioni, l'Aquila li rappresentava tutti.
sine pennis volare haud facile est

Offline Rupert

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Re:L'Aquila. Ovvero il Simbolo
« Risposta #13 : Sabato 9 Ottobre 2010, 23:35:45 »

"...e gente giusta che rifiuti di esser preda
di facili entusiasmi e ideologie alla moda!"

LOTITO VATTENE!

Errare è umano, perseverare è da Lotito!

mrmoto


paoletto

Re:L'Aquila. Ovvero il Simbolo
« Risposta #15 : Domenica 10 Ottobre 2010, 12:05:29 »

Un'aquila dolcissima !!!!!!


Eurochocolate 2010, anteprima di ieri nel capoluogo abbruzzese

Offline BobLovati

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Re:L'Aquila. Ovvero il Simbolo
« Risposta #16 : Domenica 10 Ottobre 2010, 15:50:44 »
... e io che pensavo che lo " scassabbottoni " fosse aquilifer ...    :o

FERMATE aquilafelyxxxxxxxxxxxxxxxxxx
[/b]
Laziale, Ducatista e fiumarolo

Siamo noi fortunati ad essere della Lazio, non la Lazio ad avere noi

“LA MOGLIE DI CESARE DEVE NON SOLO ESSERE ONESTA, MA ANCHE SEMBRARE ONESTA.”

Offline aquilafelyx

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Re:L'Aquila. Ovvero il Simbolo
« Risposta #17 : Domenica 10 Ottobre 2010, 18:44:44 »
... e io che pensavo che lo " scassabbottoni " fosse aquilifer ...    :o

FERMATE aquilafelyxxxxxxxxxxxxxxxxxx
[/b]

il segno che fé i Romani al mondo reverendi ,

Divina Commedia , i canti XVIII , XIX e XX del Paradiso :)

P.S. a Bobbe guarda che so stato bravo eh !! ho aspettato che c'era la sosta ;D
M'illumino di Lulic

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Offline Ulisse

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Re:L'Aquila. Ovvero il Simbolo
« Risposta #18 : Martedì 12 Ottobre 2010, 15:31:45 »
IL DERBY NON VA MAI PERSO.

Ci sarà sempre chi ti critica, l'unica cosa da fare è continuare ad avere fiducia, stando attento a chi darai fiducia due volte.

Non ti sforzare tanto, le cose migliori succedono quando meno te lo aspetti.

Nessun futuro è per sempre.

IL GOL DI VIERI ERA BUONO!!

Offline aquilafelyx

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Re:L'Aquila. Ovvero il Simbolo
« Risposta #19 : Martedì 13 Settembre 2011, 17:59:33 »
L'Aquila è Roma !

M'illumino di Lulic

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