ho scritto questo per Emergenze:
http://www.emergenzeweb.it/2016/08/morte-amatrice-tradita-dalla-bestia-assassina/
Bellissime parole, davvero, complimenti anche da parte mia.
Sarà una sensazione, ma questa tragedia sembra aver colpito ed emozionato come raramente accade, anche per eventi sismici e disastri di non minore portata.
È come se il martirio di Amatrice e delle altre località non si fosse limitato a mobilitare la “dovuta” partecipazione umana e civica, coi suoi connotati inevitabilmente freddi ed effimeri: ma avesse invece toccato qualcosa di profondo, a livello personale, in molti di noi.
Forse perché quasi tutti, perlomeno da una certa età in su, vantiamo ricordi e origini in contesti simili.
Forse perché aree e comunità del genere, plasmate da un ambiente tanto bello e sano quanto difficile e costrittivo sul piano logistico, finiscono per sviluppare una forte affinità di fondo pur trovandosi in parti d’Italia lontane fra loro.
Nei tanti resoconti sul terremoto, mi ha colpito in particolare la descrizione di Accumoli: poche centinaia di abitanti sparsi in una decina abbondante di frazioni.
Ho sempre frequentato – e da diversi anni ho scelto di vivervi per la maggior parte dell’anno – luoghi con le stesse caratteristiche: che quindi per me rappresentano non solo un fondamentale retroterra, ma anche la quotidianità.
Ed è quindi immediato identificarsi nelle sensazioni che verosimilmente attraversano e hanno attraversato la vita di quelle popolazioni.
La forte marginalità, accentuata dall’inefficienza e da scelte strategicamente suicide (o assassine?), proprio quando la tecnologia permetterebbe di ovviarvi almeno in parte.
La difficoltà di confrontarsi ogni giorno con servizi lacunosi e periferici, pagati con tasse che al contrario rispecchiano gli standard dei territori urbani e “centrali”.
Lo spopolamento, che fra l’altro marginalizza i residenti stabili in quanto mercato numericamente residuale, retrocedendoli da padroni di casa a elemento di disturbo in una Disneyland turistica sempre più arrogante.
E soprattutto la casa, con la quale intercorre un legame che “intender non lo può chi non lo prova”.
Vedere le proprie mura sbriciolate in pochi attimi non significa solo paura per chi potrebbe essere rimasto sotto le macerie, o un danno materiale più o meno disastroso.
La casa non ha infatti un valore principalmente economico e quindi più o meno permutabile: il danno contabile è per certi versi il male minore, se si pensa alle misere quotazioni degli immobili imposte da un mercato asfittico.
La casa è, innanzitutto, quella dei genitori, dei nonni, forse delle generazioni ancora passate.
Ed è stata spesso costruita coi poveri e faticosissimi mezzi di un tempo, sfruttando materiali locali che gli avi conoscevano pietra per pietra.
Creando un radicamento di rara profondità, dalla cui perdita traumatica non vi è sostanzialmente ritorno.
È questa la sensazione che si legge sui volti dei cittadini di Amatrice, resi ancor più consapevoli dalla vicinanza cronologica e geografica con L’Aquila.
Siamo ancora a “Carissimo amico”, e dopo sette anni, in un capoluogo di regione.
Figurarsi nell’ancor più montana e provinciale Amatrice, che perlomeno gode di fama propria per la sua gastronomia.
Figurarsi nei capoluoghi e frazioni di Accumoli o Arquata sul Tronto, di cui il resto del mondo ignorava – e tornerà presto a ignorare – l’esistenza.
Incuria? Menefreghismo? Assenza di qualsiasi politica del territorio? Anche.
Ma forse c’è di peggio: e non si tratta solo dello sciacallaggio legato alla ricostruzione, di cui si ebbe testimonianza in viva voce nelle sconce intercettazioni post-terremoto aquilano.
La narrazione dei media, quella che fra le righe cerca di modellare la percezione degli eventi, si è focalizzata sull’opposizione fra centri storici, annientati dal sisma, e fabbricati di più recente costruzione, che invece hanno sostanzialmente retto l’urto.
Intanto si tratta di una falsità: ricordiamo tutti l’istantanea dell’ospedale nel capoluogo abruzzese, consegnato da Impregilo all’alba del Nuovo Millennio e reso inutilizzabile dalle varie scosse, ed è verosimile che esempi del genere emergano anche in questa circostanza.
Ma ad allarmare è soprattutto il rumore di fondo.
Come se i terremoti accelerassero una salutare opera di liquidazione di quei ruderi, per favorirne la sostituzione con modernissimi e lucrosi obbrobri cementizi: naturalmente “a norma”.
Errori ed omissioni accumulati in zone sensibilissime sul piano storico-architettonico, dall’Umbria all’Abruzzo, lasciano intendere logiche criminali di quel tipo.
La prontezza con cui si sono messi nel mirino i centri storici, come se fosse colpa loro, dà l’idea che si stia smettendo anche di dissimularle.
Una prospettiva da brivido che si intreccia con un’altra tematica cruciale: quella della prevenzione.
Si dirà: da quando, con buona pace di Bendandi e di qualche altro, è possibile prevedere i terremoti?
Fin lì non si arriva, d’accordo: ma è possibile prevederne la probabilità misurando la sismicità dei territori.
Ed è possibile prevedere la tenuta dei singoli edifici di fronte a un impatto più o meno devastante: mettendoli in sicurezza.
All’Aquila, edifici vetusti ma “incatenati” - così si diceva allora – hanno tenuto, o perlomeno limitato sostanzialmente i danni.
Amatrice e dintorni figuravano da tempo fra le zone “rosse”, quella a massimo rischio sismico, e la fragilità del loro tessuto edilizio storico era altrettanto nota: cosa si è fatto in sede preventiva, nonostante il disastro fosse questione di “quando” assai più che di “se”?
Nulla, o quasi. E se fosse questa la vera “Bestia assassina”?