E' proprio per l'idea di Europa unita che mi da un fastidio tremendo. Un Europa che, con tutte le sue contraddizioni e burocrazia, ci ha permesso di vivere in pace per 70 anni. Che ci permetteva di trattare alla pari con US, Cina e Russia. Da adesso, la Gran Bretagna sara' uno stato satellite degli stati uniti e noi ci sfalderemo uno ad uno rimanendo senza alcun potere politico, economico e militare quando ci confronteremo con le tre entita' suddette. Che tristezza.
Troppa narrazione, chemist. Quella che descrivi è solo l’Europa come ce l’hanno raccontata.
L’Europa reale – a proposito di negoziati alla pari con le (super)potenze – è la Germania che tratta sul TTIP, svendendo l’agricoltura dei Paesi mediterranei per barattarla con interessi propri.
Del resto, l’unico modello noto di unità europea consiste nell’imperialismo di uno Stato ai danni degli altri: Napoleone e Hitler, per rimanere ai secoli più recenti.
La stessa UE non nasce dallo spirito di pace, dagli ideali dei padri fondatori o simili amenità, ma da un progetto della CIA per formalizzare il colonialismo americano sulla parte di Europa toccata agli yankees dopo la spartizione del Vecchio Continente.
Un termine di confronto interessante è l’Indonesia: come viene costituito il più popoloso Stato a maggioranza musulmana del pianeta?
Semplicemente prendendo le Indie Olandesi, che nulla avevano in comune se non la dominazione da parte del Paese dei tulipani, e trasformandole ipso facto in un’entità politica come se tanto bastasse per farne una Nazione: per i risultati, citofonare Timor Est.
L’UE spurga dalle stesse logiche, unendo a forza Stati il cui minimo comun denominatore si riduce all’occupazione americana, al fatto di essersi sparati addosso fino al giorno prima e – perlomeno nei confronti dei modelli politico-economici adottati in altri continenti – allo Stato sociale.
Riassumendo: il primo è un fattore di oppressione; il secondo un fattore di divisione; il terzo, unico argomento pertinente per l’unità europea, è il bersaglio contro il quale la dittatura finanziaria di Bruxelles si è scagliata con più mirata ferocia.
Infondata anche l’idea che all’Unione Sovietica atlantica si debbano i celeberrimi settant’anni di pace.
Che sono piuttosto l’esito di una sorta di stand-by in cui la Storia è stata ibernata dall’Equilibrio del Terrore, con la divisione del Vecchio Continente in due blocchi privi della minima radice storica: basta pensare alla nozione di Mitteleuropa per rendersene conto.
È un sistema che qualcosa ha dato fino al 1989, soprattutto se paragonato all’alternativa democratica e popolare d’Oltrecortina: e che, a partire da quella data, si sta riprendendo tutto con gli interessi.
Quanto basta perché l’UE, la NATO e la spazzatura di Yalta in genere venissero riconsegnate alla Storia il 10 novembre 1989.
Tornando al Brexit, una prima considerazione riguarda l’ennesima sconfitta di un certo giornalismo e della superficialità con cui utilizza exit poll e simili nel prevedere il risultato di una tornata elettorale.
Nell’aprile 1990 si tennero le prime libere elezioni nella DDR e in Nicaragua, entrambe reduci da regimi con una marcatissima connotazione di Sinistra.
I sondaggi rivelavano una forte tendenza conservatrice, che avrebbe di fatto confermato al potere per via democratica chi l’aveva detenuto con formule assai diverse.
Tanto bastò alla stampa con analogo orientamento ideologico per avventurarsi in tesi spericolate, sostenendo che quei regimi godevano in realtà del consenso popolare e che quindi il filone polemico nei loro confronti andava archiviato come mera propaganda.
Quando si aprirono le urne, lo scenario si ribaltò completamente: gli ex governanti vennero duramente puniti dalle preferenze elettorali, che consacrarono Lothar De Maizière premier – l’ultimo, avremmo saputo in seguito – della RDT e Violeta Chamorro a capo del Paese centroamericano.
L’imperdonabile errore di prospettiva dei media era evidente: in contesti di sistematico controllo e limitazione della libertà di espressione, le paure pregresse e non ancora svanite rendevano assai sconsigliabile rivelare simpatie antigovernative al primo intervistatore di passaggio.
In parole povere: bisognava fare la tara agli esiti dei sondaggi per desumerne qualcosa di attendibile in merito al voto reale.
Tale lezione vale anche nella dittatura mascherata meglio nota come democrazia.
Chi professa idee mainstream e politicamente corrette esibisce con orgoglio il proprio conformismo.
Chi tenta di pensarla diversamente è molto più restio ad esporsi, anche nel timore di conseguenze informali e indirette, ma non meno afflittive, sulla propria sfera personale.
Alla luce di queste considerazioni e dei relativi calcoli percentuali, non c’era via d’uscita: una maggioranza risicata del Remain nei sondaggi si sarebbe tradotta quasi certamente in un esito opposto al momento dello spoglio.
Avere pontificato su exit poll e simili da parte di troppi, sviluppando i ragionamenti a partire dalla sicura vittoria dell’opzione europeista, rimane un’intollerabile mancanza di professionalità.
Che dovrebbe preludere, in un mondo normale, alla creazione di nuovi posti di lavoro: i loro.
Più in generale, la sensazione è quella di un Paese al bivio non solo nella scelta europeista.
La propaganda eurofinanziaria si è impegnata nel dipingere l’Inghilterra del Brexit come un reprobo, un lebbroso da cui tutti starebbero fuggendo a gambe levate.
In realtà, le problematiche emerse con la tornata referendaria vantano implicazioni più complesse;
1) La Scozia e la sua minaccia di abbandonare il Regno Unito per rimanere sotto Bruxelles.
Che la questione relativa all’indipendenza dei “blu” non fosse affatto rimandata alla prossima generazione, come tronfiamente sentenziato dai guardiani del sepolcro dopo il referendum del 18 settembre 2014, lo si è capito in tempi abbastanza rapidi per un motivo: il carattere bilaterale della questione.
Da una parte si continuava a perseguire la formale emancipazione da Londra.
Dall’altra, non pochi sostenitori del Brexit auspicavano una sorta di politica delle due gambe: una per un calcio a Bruxelles ma l’altra per un calcio a Edinburgo, vista ormai come mero percettore di sussidi.
Tutto questo mentre a settentrione del Vallo si riscoprono una coté scandinava (per il Welfare State, ma anche per influssi culturali più radicati: nell’estremo Nord, fino a un paio di secoli fa, si parlava norreno) e una vocazione multipolare, dopo secoli di identità e politica monopolizzate dal rapporto con Londra
2) La Cina. Fra le tante minacce e intimidazioni, alle quali si è ridotta quasi esclusivamente la campagna per il Remain, una riguardava proprio i malumori di Pechino dopo la scelta della Gran Bretagna come sua testa di ponte economica verso l’UE: un progetto strategico destinato, secondo lorsignori, ad andare in fumo dopo il voto.
Basta un minimo di analisi razionale per comprendere l’infondatezza di simili timori indotti.
In primo luogo appare assai difficile che, passata la buriana, le reazioni al Brexit alterino i rapporti commerciali consolidati in precedenza.
Bisognerebbe ipotizzare Cina e UE che, per ripicca, puntano a penalizzare o escludere un soggetto col peso specifico del Regno Unito: uno scenario paragonabile per verosimiglianza – e per probabilità di successo – al blocco navale napoleonico, se non più prosaicamente al marito che se lo taglia per fare dispetto alla moglie.
In secondo luogo, il rapporto con la Cina avrebbe garantito nel breve una notevole rendita di posizione, ma con quali sviluppi?
All’interno delle logiche comunitarie, la Gran Bretagna si sarebbe ridotta a diventare per la Repubblica Popolare quello che la Germania è per gli Usa: un luogotenente, un kapò, uno sgherro, titolare di un ruolo tanto infame quanto servile.
Così, invece, Pechino tornerà comunque a bussare alla porta degli Inglesi, data la centralità che tale rapporto occupa nella sua visione strategica: ma troverà un interlocutore dotato di ben altra sovranità
3) Londra. Sì, anche la metropoli – e la City in particolare – non si riconosce nella scelta operata dalla maggioranza egli elettori: ma anche qui si va rapidamente oltre l’interpretazione, quasi favolistica nella sua banalità, di un Paese abbandonato persino dalla propria Capitale causa eurofobia.
La Città Libera di Londra – come può essere considerata sotto molti aspetti – rappresenta indubbiamente un hub della finanza globale e, sul piano della centralità internazionale, l’ultimo ridotto dell’Impero Britannico.
Ma tanto prestigio ha un prezzo, vale a dire la subordinazione dell’intera Inghilterra alle sue esigenze.
Si veda la politica monetaria, che ha imposto una sterlina stabilmente e artificialmente forte: ottima per l’economia finanziaria, assai meno per quella reale che fatica a rinunciare alle fluttuazioni della divisa ufficiale e ai periodi di deprezzamento, favorevoli ad esempio alle esportazioni.
Una situazione cronicizzata, al punto da rendere neppure peregrina l’ipotesi di una doppia valuta per soddisfare esigenze che altrimenti si escludono a vicenda
Devolution, che ha trasformato l’Inghilterra interna in una sorta di spazio vuoto nel contesto di autonomie sempre più ampie; equilibri fra Capitale e territorio; collocazione strutturale per le relazioni con l’estero.
Tutto punta nella stessa direzione: un sistema di rapporti interni ed esterni che, nella forma in cui è stato concepito fino ad oggi, è pesantemente invecchiato sino a diventare disfunzionale e anacronistico.
Con buona pace degli eurobastonati, questo non è il diagramma di una malattia e di una decomposizione, ma al contrario un certificato di buona salute: quella di un Paese che, soffrendo di problemi strutturali così gravi, li fa emergere con mezzi civili.
Che si prende i dovuti rischi per tentare almeno di affrontarli, uscendo per primo dai blocchi dell’immobilismo e della rivoluzione da bar.
E avviandosi su una strada non facile, foriera – come ipotizza giustamente cartesio – di un peggioramento a breve termine.
Ma è questo – e senza alternative – il percorso di una terapia, che debilita momentaneamente l’organismo per guarirlo.
A meno che non si preferisca, come i traditori abusivamente alla guida di Italia e Grecia, nascondersi dietro l’illusoria sopravvivenza a tempo indeterminato dello status quo, mentre il male continua a scavare nel profondo e a disgregare irreversibilmente il Paese.
Qualunque cosa si pensi degli Inglesi e del Brexit, oggi più che mai è doveroso riconoscere loro un merito: l’aver dimostrato ancora una volta di essere, comunque, innanzitutto e come pochi altri, un popolo.