Giampaolo e il metodo ultrà: "Troppi tappeti rossi dai club, via da Brescia perché umiliato"
Il suo vice costretto ad andarsene. Il "confronto" con i capi della curva, davanti agli agenti della Digos. Poi la decisione di dimettersi. Il tecnico parla della sua amara esperienza nel calcio malato
di GIANNI MURA
GIULIANOVA - Giampaolo, lei che è indicato come vittima degli ultrà a Brescia, una sorta di Mister No per la coerenza, cosa pensa dei fatti di Salerno?
"Poi spiego perché non mi sento vittima degli ultrà del Brescia. Di Salerno, ho pensato a quanta fatica e dolore devono essere costati quei comportamenti all'allenatore Fontana, che conosco, e ai suoi giocatori. Certo, è un danno enorme per l'immagine del nostro calcio, ma anche una ferita per chi, minacciato, ha dovuto umiliarsi, cedere a una prepotenza".
Come se ne può uscire?
"Fin qui, mi sembra che tutti critichino tutti nessuno proponga nulla. Se è, come in effetti è, un problema culturale, non se ne esce senza un forte impegno da parte dello Stato. Noi del calcio dovremmo educare allo spettacolo, far diventare la partita lo svago del fine settimana dopo tutti i problemi che ci sono sul lavoro e in famiglia. Invece a sua volta il calcio diventa un problema. Penso che Prandelli abbia detto cose giuste, parlando di pressione, oppressione e ossessione. E poi lui, con la Nazionale, l'esempio l'ha dato portandola a Rizziconi e sul campo della Nuova Quarto. Magari i club si fossero impegnati come la Nazionale di Cesare".
Invece?
"Invece spesso smentiscono ogni legame con gli ultrà e gli passano i biglietti sottobanco. Stigmatizzano con un fiero comunicato il comportamento degli ultrà e gli pagano la trasferta. Se gli ultrà alzano in continuazione l'asticella delle prove di forza è anche perché sotto i piedi gli hanno steso tappeti rossi. Tutti cercano di gestire il problema, ma gestire non vuol dire risolvere. Bisogna prendere atto che molte misure sono fallite. E nemmeno aiuta discutere di come hanno fatto gli inglesi ai tempi della Thatcher: aumentare di molto il costo dei biglietti, dotare gli stadi di celle dove chi delinque passa almeno una notte e la mattina dopo è giudicato per direttissima. Se il Daspo da noi si rivela inefficace, si potrebbe ipotizzare una destinazione a lavori socialmente utili".
Torniamo a Brescia.
"Premessa: vado a Brescia perché non posso dire di no al ds Iaconi. Siamo tutt'e due di Giulianova, ci conosciamo da 25 anni almeno. Quando ho smesso di giocare a 30 anni per via di una caviglia è stato lui a reinserirmi nel calcio, a Pescara. Ho fatto di tutto: osservatore, team manager, collaboratore tecnico di gente come Galeone, Delio Rossi, Burgnich. A Brescia trovo una situazione tesa: gli ultrà ce l'hanno col presidente Corioni che non ha confermato Calori, che pure aveva fatto un ottimo lavoro arrivando ai playoff. Se stanno con Calori non possono spasimare per me, ma soprattutto non accettano Fabio Gallo, che avevo scelto come vice. Non s'è capito bene se perché ha giocato nell'Atalanta, che gli ultrà bresciani odiano, o perché ha esultato dopo un gol. Fabio va a un incontro con gli ultras, chiesto dalla Digos, e gli ribadiscono che a Brescia non deve lavorare. E lui, per non crearmi problemi, rinuncia all'incarico".
E lei rimane.
"Sì, ed è un gravissimo errore che non ho difficoltà ad ammettere, ma in quei giorni pensavo al debito di riconoscenza che avevo nei confronti di Iaconi e a una rosa che mi sembrava adeguata a quello che m'aveva chiesto Corioni: il primo anno salvezza tranquilla e valorizzare molti giovani, il secondo anno crescere e puntare alla promozione".
Tutto abbastanza normale, fin qui.
"Sì. Solo che quando andavano in visita nei club i più alti dirigenti parlavano di promozione subito. Così hanno cominciato a fischiarmi dopo il secondo pareggio, a Bari. E a contestarmi più forte dopo la sconfitta interna col Crotone. Quel giorno l'addetto stampa della società si presenta con due uomini della Digos. Mi dicono che bisogna andare dai tifosi per un chiarimento. Chiarimento di che? chiedo. Bisogna andare per motivi di ordine pubblico, mi dicono, perché altrimenti di qui non fanno uscire nessuno".
E lei?
"Io faccio un altro errore: li seguo. Passiamo davanti alla tribunetta dove ci sono le famiglie dei calciatori, entriamo in un locale sovrastato dalla scritta "Polizia di Stato". Ci sono lì otto o dieci ragazzi. Uno lo riconosco, dev'essere il capo, era venuto a mettermi una sciarpa al collo il giorno della presentazione ufficiale, e a dirmi che non volevano Gallo. Gli dico che con lui non parlo perché era già prevenuto. Un altro mi critica sul modulo di gioco. Se non sei soddisfatto, gli rispondo, vai da Corioni e digli di esonerarmi. Mi guardano storto ma non c'è nessuna minaccia, questo l'ho detto anche alla Digos quando mi ha chiesto informazioni, a distanza di tempo. Questa però è la classica goccia che fa traboccare il vaso. La vivo come un'umiliazione assurda e dico basta. Avviso Iaconi e Fabio, il figlio del presidente. Allerto i miei collaboratori perché provvedano all'allenamento del giorno dopo. Mando un messaggio a Zambelli, il capitano. E non mi muovo da casa, a Brescia. Non parlo per non disturbare l'ambiente. Hanno cercato di farmi passare per uno squilibrato, hanno messo di mezzo Chi l'ha visto?, hanno cercato di farmi cambiare idea ma non l'ho cambiata. E' una questione di dignità".
Di dignità aveva parlato anche nel 2007, silurato e poi richiamato da Cellino.
"Avevo un triennale e ho rinunciato a un po' di soldi, come a Brescia del resto, ma la dignità non ha prezzo. Vede, sono nato a Bellinzona perché mio padre era muratore, mia madre operaia tessile. Poi sono tornati a casa, ci hanno fatto studiare e ci hanno insegnato che l'onestà e la serietà sono tutto. Un giorno mio fratello ha trovato un portafogli ben fornito accanto a un'auto, l'ha portato a casa e mio padre gli ha detto: bene, adesso lo portiamo ai carabinieri. Sono cresciuto seguendo certi princìpi. Allegri è un amico, ma io dopo l'intervista con a fianco Inzaghi mi sarei dimesso. Il calcio è cambiato in fretta, prima era un simbolo Maldini, poi Cassano e adesso Balotelli".
Come passa le giornate?
"Un paio d'ore di camminata la mattina, molti libri, un buon sigaro. E vado in giro a vedere calcio. Prima di Brescia, ero stato in Scandinavia, ora ho in programma un viaggio a Londra per seguire gli allenamenti di Wenger e di Zola".