Autore Topic: 70 anni fa.  (Letto 3512 volte)

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Giglic

70 anni fa.
« : Venerdì 19 Luglio 2013, 06:49:36 »
Il quartiere San Lorenzo era sempre stato un quartiere popolare, e la maggior parte delle persone aveva sempre svolto una blanda opposizione al regime fascista anche nei tempi d'oro di Mussolini: figuriamoci adesso, con una guerra che ormai volgeva verso la disfatta più totale ed un'alleanza fatta con un regime sanguinario. E' vero, era (ed è) vicino allo scalo ferroviario, ma fa parte dei tanti pezzetti di mondo che rimangono anonimi quando si scrive la storia, o almeno così pensavano i suoi abitanti.

Que giorno di 70 anni fa, quando le sirene suonarono verso le 11, nessuno si preoccupò più di tanto: ormai suonavano tutti i giorni, e poi Roma era comunque sacra ed inviolabile: a parte le bellezze storiche, c'era il papa a proteggerla.

E invece no: il comando alleato, dopo averne discusso parecchio, decise quel blitz: non tanto per l'importanza strategica dell'obiettivo (la sorte dell'Italia era ormai segnata anche senza quel bombardamento, e non potevano non sapere il ribaltone che si stava preparando ormai dall'inizio dell'anno, complice un re pavido e vigliacco), quanto per l'effetto psicologico, secondo loro devastante (come se invece le leggi razziali ed una guerra assurda non avessero già minato la fiducia del popolo verso i suoi governanti). Oltre 4000 bombe, lanciate da più di 300 velivoli caddero sul quartiere, distruggendolo. Gli alleati dissero che il fumo dei bombardamenti non gli fece capire che stavano prendendo le case e non lo scalo, ma l'effetto fu devastante: oltre 3000 morti, più dell'attentato alle torri gemelle (ed il paragone è calzante, eccome se lo è).

C'era un carcere minorile nel quartiere: nessuno fece scappare quei bambini e ragazzi, che morirono senza potersi neanche nascondere. Il cimitero del Verano fu distrutto, trasformandosi da casa del rispetto per i morti a posto dove si uccideva per la seconda volta. Fu, in breve, un atto di terrorismo puro e semplice che non influì sulle sorti del conflitto e che more solito quando si tratta di americani non colpì chi li combatteva realmente ma povera gente che magari stava anche aspettando la loro venuta.

Il papa, dicono si fece vedere nel quartiere dopo il bombardamento. Si e no. Andò alla basilica (che fu miracolosamente, se vogliamo dirla così, risparmiata) e fece quel bellissimo gesto fotografico di aprire le braccia. Ma non girò per il quartiere come dicono le agiografie, limitandosi a stare nel sagrato della chiesa. Aveva sempre combattuto per dare a Roma lo status di città aperta, senza riuscirci.

Il bombardamento è stato l'ultimo sfregio a questa meravigliosa storia lunga 3.000 anni. Da quel giorno, fino al 4 giugno dell'anno dopo, Roma cadrà preda di un incubo.

Offline Frusta

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Re:70 anni fa.
« Risposta #1 : Venerdì 19 Luglio 2013, 14:14:41 »
Eh, caro Gig, gli angoli diventano curve nella memoria...



...fino a scambiare il giorno con la notte come inquestoraccontoqquì (la protagonista è una tenera prostituta felliniana dal cuore grande e dalla lacrima facile, insomma una Saraghina di oggidì, tanto per intenderci) scritto non dico da chi qualche anno fa':

IL SECONDO MODO DI FARE L' AMORE

A volte non bisognerebbe proprio morire. Non quando piove perlomeno. Prima il funerale della signora Luisa, poi il traffico della Salaria per andare e tornare dal cimitero di Prima Porta col signor Attilio ripiegato sul sedile accanto al tuo, perso dietro chissà quali ricordi e con la tristezza moltiplicata dalle gocce di quest'acqua che non fa che scendere da tre giorni e che lo fa sembrare ancora più piccolo e più curvo mentre lo ripari sotto l'ombrello e lo accompagni verso il portone che come al solito è chiuso ed ora chissà dove avrai messo la chiave.
Dentro l'ascensore ti senti quasi materna mentre prendi un fazzoletto e gli asciughi la fronte ravviandogli un pochino i capelli radi e bagnati.
Gli chiedi se vuole venire da te per un caffè o qualcosa di caldo; ringrazia dicendo di no con la testa, che non vorrebbe disturbare, ma si arrende alla spinta protettiva del tuo braccio sulle sue spalle.
Lo aiuti a sfilarsi la giacca e gli indichi il divano.
Chissà quanti anni aveva sua moglie, forse ottanta o forse anche di più; prende il caffè e guarda il pavimento come se ci volesse abbandonare la consapevolezza improvvisa della irrecuperabilità di quella vita ormai andata.
Ed abbandonarci anche la stanchezza spossata di questo momento e la solitudine di oggi e dei giorni che stanno per arrivare.
Gli prendi le mani senza riuscire a scaldarle, poi ci aliti sopra come faresti con quelle di un bambino e le tieni un po' fra le tue mentre comincia a parlarti di lei.
Di Luisa a sedici anni bella come una rondine impaurita e del primo bacio sbocciato come un miracolo necessario mentre si abbracciavano atterriti dal silenzio spaventoso del coprifuoco in quella notte del 19 luglio del 43 e di tutti i baci scambiati in quel rifugio di San Lorenzo sotto le bombe di quella notte con la consapevolezza che ognuno di loro poteva essere l'ultimo.
E poi di tutti quelli degli anni a venire, quelli degli anni luminosi dell'amore giovane fino a quelli del crepuscolo e del tramonto, quando si fa l'amore in un altro modo, il secondo: quello che la vita permette a chi ha ancora amore da fare anche se non ha più la forza per farlo.
Perchè c'è un altro modo di fare l'amore e loro lo hanno fatto tutte le sere, fino a quando lei è andata via. Ed è andata via mentre lo facevano perchè per fare l'amore in quel modo non c'è bisogno nè di erezioni nè di orgasmi: basta essere ancora vivi.
E basta non essere soli.
Soli come lui è consapevole di essere adesso.
Soli come tu sai che lui non è ora, qui ed in questo momento.
Perchè ci sei tu che hai capito e che gli lasci le mani per accarezzargli le tempie e per invitarlo a tacere mettendogli l'indice sulle labbra.
Per abbracciarlo e per avvolgerlo, per trasmettergli quel calore che nessuno può darsi da solo.
Per fargli fare l'amore nell'unico modo che ancora può farlo: il secondo.
E lui capisce e ti lascia fare. Si lascia spogliare e si lascia adagiare sul letto, lascia che la forza del tuo corpo nudo accolga l' inerzia nuda del suo e lascia che tu cerchi e trovi il suo cuore nascosto.
Nel secondo modo di fare l'amore c'è la pietà che sostituisce l'orgasmo e c'è la riconoscenza nello sguardo che ti gratifica. Come stanno facendo ora gli occhi di quest' uomo che stai baciando sulle palpebre.
Come il suo respiro privo di affanni e come le carezze timide della sue mani sul tuo viso.
Come il sesso che non c'è e come i suoi baci sul dorso e sul palmo delle tue mani. Come l'ultimo bacio che vi state scambiando ora sulla porta e come qualcosa di simile alla felicità che, se vuole, ora sa di poter ricevere ancora.
Deve solo bussare.
Lazio, ti amo con tutta la feniletilamina, l’ossitocina, la dopamina e la serotonina che mi circolano nel cervello, che rendono il mio pensiero poco logico e che mi procurano strane sensazioni in tutta l’anatomia e battiti sconclusionati nell’organo principale del mio apparato circolatorio.

Giglic

Re:70 anni fa.
« Risposta #2 : Mercoledì 24 Luglio 2013, 17:19:33 »
La guerra italiana, nel Luglio 1943, era ormai persa. Lo era anche quella dell’Asse nel suo complesso, intendiamoci, distrutta dalla potenza bellica statunitense (che la guerra non la sanno fare, ma hanno mezzi enormemente superiori a qualunque altro esercito) e dalla follia dell’austriaco con i baffetti; ma lo scenario italiano andava ormai considerato perduto da quando l’Africa settentrionale era caduta tutta in mano alleata.

Questo doveva aver pensato Vittorio Emanuele III, Re d’Italia ed Imperatore d’Etiopia, l’indomani dei bombardamenti di S. Lorenzo. Al contrario di papa Pio XII, che almeno si fece vedere sul sagrato di S. Lorenzo fuori le mura, sua maestà (la minuscola è voluta) rimase ben rintanato nella sua dimora di Villa Savoia (oggi Villa Ada). Il Duce, invece, era a Feltre, a colloquio con Hitler. Il piano che secondo il Re doveva portare al salvataggio della dinastia (non della Patria: il piccolo monarca era convinto che fossero la stessa cosa, segnando in questa maniera il destino dei Savoia in negativo) prevedeva la rimozione di Mussolini, un governo “tecnico”, come si direbbe oggi, di militari ed un armistizio con gli alleati. Del resto, il popolo cominciava a non poterne più di una guerra che non sentiva sua e di un alleato padrone sempre più invadente: i primi scioperi “spontanei” del 1943 non sono stati determinanti per le sorti della nazione e poco importanti anche allora: ma erano significativi, soprattutto in considerazione che erano i primi di un regime più che ventennale. E sua maestà non voleva cadere insieme al fascismo.

Quanto il piano fosse preparato non si sa, di certo era previsto, così giurano alcuni stretti collaboratori del re, l’arresto di Mussolini il 26 luglio del 1943 a valle dell’incontro settimanale tra il Duce e Vittorio Emanuele III. Del piano era sicuramente al corrente anche Dino Grandi, fascista della prima ora e in quel momento presidente della inutile camera dei fasci e delle corporazioni, che per cercare di forzare la mano, cercò di far convocare un organo, il gran Consiglio del Fascismo, non solo costituzionalmente non rilevate, ma ormai inutile. Erano tre anni e mezzo che questa pletorica assemblea non si riuniva, ed il fatto non solo che il duce accettasse la convocazione (formalmente fu fatta da Carlo Scorza, segretario del PNF, che indicò anche il tipo di abbigliamento da usare), ma anche che accettasse l’ordine del giorno di Grandi, che suggeriva il rimettere il comando della guerra nelle mani del re, ripristinando quindi lo Statuto Albertino nella sua interezza e di fatto sancendo la fine del regime fascista, era strano. Grandi stesso temeva che fosse una trappola per incastrarlo. Oltretutto, non solo il suo ordine del giorno era firmato da soli 11 componenti su 28, ma se la doveva vedere anche con una proposta di Farinacci che estremizzava la situazione chiedendo che la guerra italiana fosse completamente subordinata a quella della Germania nazista, esautorando così Mussolini per avere Hitler. Forse sperava di fare il Quisling (il sedicente “presidente della Norvegia” messo li da Hitler dopo l’invasione), ma non ne saremo mai certi.

Petacco afferma che i verbali di quella seduta ci furono, Montanelli afferma di no, ma il resoconto che Grandi ha fatto e che De Felice ha poi attentamente analizzato ci fa rendere sufficientemente certi di come andarono le cose. Si iniziò verso le 17.15, con un quarto d’ora di ritardo, e Mussolini parlò per circa un’ora e mezzo della situazione di guerra, esponendo i fatti in maniera veritiera ma, diciamo così, ottimista. Doveva comunque non “sbragare” completamente dopo che la famose frase “li fermeremo sul bagnasciuga” (in realtà intendeva la battigia) si era rivelata, come lo spezzeremo le reni alla Grecia, un clamoroso abbaglio.

Verso le 7 cominciò il dibattito vero e proprio  e qui Grandi si espose, eccome. Alcuni appunti, soprattutto sul comportamento dei nazisti verso gli italiani, furono sottolineati da Mussolini con cenni di approvazione, segno che concordava con alcune cose che venivano dette. La discussione comunque si surriscaldò, anche per colpa di Farinacci, che difendeva oltre ogni logica il regime di Hitler, e soprattutto per Mussolini che continuava a ripetere che Hitler avrebbe rovesciato le sorti della guerra con una fantomatica arma segreta. Il Duce, sofferente di ulcera, chiese uno stop verso le 11, ma Grandi si oppose “Per cose di minore importanza ci hai tenuto rinchiusi per giorni – disse – adesso per le sorti della Patria puoi aspettare qualche ora”. “E sta bene – disse Mussolini – pausa di 30 soli minuti”. Grandi aveva paura che il Duce approfittasse dello stop per farli arrestare ed in effetti Galbiati, il capo della Milizia Volontaria di Sicurezza Nazionale (il corpo di “polizia” del partito) suggerì tale ipotesi, che però Mussolini scartò, anche con un certo fastidio. La discussione riprese ed alla fine del dibattito (verso le 2 della mattina del 25 luglio) i firmatari dell’ordine Grandi erano 19 su 28. La maggioranza. Mussolini disse “Signori, voi avete provocato la caduta del regime!” e si alzò. Quando Scorza gridò come di consueto “Saluto al Duce!” invece che il classico “A noi!” Mussolini rispose stancamente “ve ne dispenso”

Perché si comportò così passivamente, il Duce? Era ancora relativamente giovane (avrebbe compiuto 60 anni solo quattro giorni dopo) e poteva guidare lui ancora l’armistizio. Montanelli suppone che gli stava bene che a guidare la certificazione della disfatta fossero altri (soprattutto il re, che lui considerava un traditore – e a ragione, come vedremo). Probabilmente ha ragione, io ritengo che ci fosse anche una passività dovuta al fatto che dopo 21 anni di regime si sentisse svuotato lui, e che ormai non avesse più in mano il polso del paese, cosa che invece durante quegli anni aveva sempre gestito Il colpo di grazia glie lo doveva aver dato Ciano, quel genero che aveva cresciuto politicamente per amore di Edda, sua figlia, che firmò l’ordine del giorno Grandi. Intelligente, ma vanesio, Ciano si comportò, in quel frangente, da perfetto opportunista. Di certo, né lui né Mussolini potevano immaginare la piega drammatica, tragica ed anche farsesca, sotto certi aspetti, che la cosa avrebbe preso nei giorni immediatamente successivi.

(Continua)

Offline SAV

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70 anni fa.
« Risposta #3 : Giovedì 25 Luglio 2013, 01:12:20 »
Grazie, Giglic!
Interessante resoconto.  Non conoscevo i dettagli del 25 luglio...
(devo leggere più spesso i topic su Amici...)

Giglic

Re:70 anni fa.
« Risposta #4 : Giovedì 25 Luglio 2013, 16:09:24 »
La mattina dopo il Duce, tornato nella sua residenza di Villa Torlonia, cominciò la giornata come niente fosse. Noncurante degli ammonimenti della moglie Rachele (“Falli arrestare tutti”, gli aveva detto prima della riunione del Gran Consiglio, e gli ripeté quel giorno – c’era una visione corretta degli avvenimenti da parte della ignorante ma sagace romagnola, non disgiunta dal disprezzo verso il genero Galeazzo Ciano), lesse i vari dispacci circa l’andamento della guerra e ricevette l’ambasciatore del Giappone con il quale si intrattenne circa la possibilità di una pace separata con la Russia. Unico diversivo, chiese un’udienza al Re tramite il Duca Acquarone (la persona più vicina al sovrano) anticipando così di un giorno l’udienza settimanale. Voleva probabilmente ragguagliarlo sulla riunione, e la sua strategia (almeno così disse a Rachele, ma non lo sapremo mai per certo) era di affermare che quella deliberazione non aveva valore costituzionale. Resta incredibile, vista con gli occhi di oggi, la debolezza, direi quasi l’indolenza, di Mussolini a fronte di quella che lui stesso aveva definito la crisi del regime.

A corte nel frattempo, si stavano febbrilmente decidendo le sorti del “dopo Duce”. Grandi venne ricevuto da Acquarone già nella nottata, e risulta anche che parlò con Vittorio Emanuele. Erano entrambi d’accordo sul governo “tecnico” (cioè, visto il periodo, prevalentemente militare) senza far entrare né le forze democratiche che lavoravano clandestinamente (prevalentemente DC e PCI, il PSI aveva i suoi quadri all’estero o in prigione, ed il Partito D’azione andava ricostruito dopo l’omicidio del fratelli Rosselli – una delle peggiori infamie di Ciano), né i notabili dell’Italia prefascista, che il re disprezzava (li chiamava revenant, ossia zombie in dialetto piemontese, e li riteneva in parte responsabili dell’avvento del fascismo – non senza qualche ragione, intendiamoci, ma il vero responsabile del regime fu lui). Grandi proponeva Caviglia, che avrebbe garantito una certa continuità con il fascismo “morbido”, ma Vittorio Emanuele III decise invece per Badoglio, che voleva dire rottura totale con il regime. Questo generale buono per tutte le occasioni (fu l’unico ufficiale coinvolto nella disfatta di Caporetto a fare carriera, fece la fortuna con il fascismo durante la guerra d’Etiopia ma fu messo da parte dopo la disfatta con la Grecia – forse l’unico caso in cui le sue responsabilità non furono così gravi) sapeva già della sua nomina dalla mattina del 25. A casa disse scherzando, euforico, ai familiari che per quel giorno erano tutti consegnati e si preparò con i suoi migliori abiti.
Mussolini doveva comunque essere arrestato. Ed il piano previsto per il 26 (caricarlo su un’ambulanza appena uscito dal Quirinale) doveva essere rivisto in fretta e furia perché il re avrebbe ricevuto Mussolini nella sua residenza di Villa Savoia. Questo implicava l’arresto direttamente nella dimora del sovrano, ma questo piccolo uomo (solo una settimana prima disse a Mussolini: “Duce, anche se Lei rimarrà solo io sarò sempre al suo fianco) non si fece problemi. L’ambulanza venne preparata in un’uscita secondaria della Villa, badando bene a non far trapelare nulla, e ci si preparò per l’evento.

Il Duce entrò a Villa Savoia solo (la scorta venne fatta fermare all’ingresso principale, dove rimarrà in inutile attesa fino alle 21) e da solo entrò al colloquio con il Re. Le due versioni orali che si hanno di questo incontro (quella di Vittorio Emanuele e quella di Benito Mussolini) sostanzialmente convergono: a fronte della pretesa di Mussolini di dichiarare la deliberazione del Gran Consiglio non costituzionale, il re oppose il fatto che lui non poteva non tenerne conto, e che era necessario un radicale cambio al potere. Il Duce si accasciò, pallido, sul divanetto (non solo per la delusione, ricordiamo sempre che aveva un’ulcera che lo torturava) e disse “Allora è tutto finito”. “Mi dispiace – disse il re – mi dispiace”. Secondo Montanelli addirittura continuò a ripetere il suo dispiacere anche quando Mussolini venne prelevato dalla Polizia “per la sua sicurezza”. Probabilmente questo non è vero (il buon Indro amava anche romanzare oltre il lecito gli eventi), ma di sicuro fu preso in consegna dentro la villa (“per la sua sicurezza”, gli disse l’ufficiale preposto) e messo nell’ambulanza. Mussolini capì abbastanza in fretta la sua condizione di prigioniero e vi si adattò, per quanto malvolentieri. Da allora, e fino al 12 settembre (giorno in cui i tedeschi lo “liberarono” a Campo Imperatore) i suoi atteggiamenti furono da “statista finito” che si divertiva ad osservare la realtà con occhio distaccato ed ad analizzare quello che era stata la sua vita.

Fu portato, nonostante avesse chiesto di essere confinato a casa sua alla Rocca delle Caminate,  in auto di notte da Roma a Gaeta (con un ufficiale di polizia, tale Polito che gli fumava in continuazione sgarbatamente in volto – del resto questo galantuomo fu molto sgarbato, ai limiti dell’impudenza, anche con la moglie Rachele quando questa fu – lei si – portata alla Rocca) e da prima a Ponza, dalla quale erano stati appena liberati i confinati antifascisti, tra cui Nenni e Pertini (la storia delle vedette che si incrociano è romanzata anche essa: Nenni e Pertini furono liberati il giorno dopo senza che vi fu possibilità di contatto), poi alla Maddalena, dove cominciò a scrivere le sue memorie (non di altissimo valore: quando i tedeschi le presero durante il periodo di Salò, non le diedero alle stampe perché imbarazzati da tanta pochezza. Uscirono in Austria nel 1950. E assieme a considerazioni che riflettono l’amarezza per essere in quel momento la persona più odiata del paese, frasi quasi senza senso del tipo “Le zanzare sono i suonatori della notte”), ed infine nell’albergo di Campo Imperatore. Continui spostamenti che erano causati dalla paura di un colpo di mano tedesco e che invece ebbero come unico effetto quello di far sapere a sempre più persone dove fosse “Sua Eccellenza il Cavalier Benito Mussolini” come venne eufemisticamente chiamato in radio quando venne data notizia formale del cambio di governo. I tedeschi,  tuttavia, non riuscirono mai, prima dell’ 8 settembre a scoprire dove fosse, un poco perché preda di trucchetti dei servizi segreti, un poco perché fecero ricerche ingenue. Addirittura spedirono Kesselring (capo dell’esercito tedesco in Italia, di stanza a Frascati) da Badoglio chiedendo dove stava Mussolini che volevano fargli un regalo per il compleanno. Ovviamente Badoglio disse “Non si preoccupi, glie lo recapiteremo noi” (era un’edizione in pelle delle opere di Nietzsche, con auguri autografi del Fuhrer e di Kesselring stesso), e la cosa farsesca fu che glie lo recapitarono veramente alla Maddalena…

Badoglio nel frattempo componeva il suo ministero e faceva in modo di escludere il fascismo dalla vita italiana, come se questo non fosse mai avvenuto. Tutte le strutture e le leggi fasciste furono revocate da quel fatidico 25 luglio al 4 di agosto (tranne – diomio che vergogna – le leggi razziali, che furono abolite solo l’anno dopo sotto Bonomi). Qui bisogna notare due comportamenti strani, che necessitano secondo me di spiegazioni e che saranno fonte di dibattito per parecchio tempo. Il primo è che dopo ventun anni di fascismo questi cadeva senza un rimpianto e senza lasciare nulla dietro di se. Il popolo che solo 7 anni prima aveva plaudito al 99% all’impero del “Duce” non fiatò quando questo scheletro della nazione cadde. Certo, era uno scheletro ormai putrefatto (basti pensare al fatto che ogni famiglia aveva almeno un morto o un disperso in una guerra che nessuno voleva), ma la sensazione di stupore, almeno per me, rimane. Personalmente me la spiego con il fatto che non veniva odiato tanto il fascismo quanto i fascisti: l’abuso di potere che i vari capi sottocapi e tenutari compivano regolarmente veniva sopportato anche perché si aveva fiducia nell’uomo Mussolini. Quando questi cadde, e gli italiani capirono che poteva cadere, tutte le vessazioni – anche quelle minori – non ebbero più giustificazioni. Oltretutto, la guerra – che un dittatore molto più sanguinario di Mussolini, Franco, aveva evitato garantendo così il suo regime fino alla sua morte) aveva levato dalla nazione l’isolamento in base al quale si poteva pensare tutto sommato di “stare bene”.
Ma soprattutto, non si spiega la vigliaccheria di tutti i gerarchi fascisti più vicini al nazismo (penso a Farinacci, ma anche a Pavolini ad esempio – due elementi tra i più negativi) che invece di prendere la XX divisione di stanza a Sutri ed invadere Roma (i nazisti sarebbero stati ben felice di aiutare, tanto che Hitler aveva già pianificato l’invasione dell’Italia, chiamata operazione Alarico, per il 4 di Agosto – operazione poi annullata grazie ai buoni uffici dell’aristocrazia prussiana che aveva buoni rapporti con i Savoia) scapparono in Germania. Nessuno pensò a prendersi la responsabilità di quei ventuno anni dove, seppur da comprimari, erano tutti stati figure in primo piano. La mia sensazione è che in realtà Farinacci come Pavolini (che non fece parte di quel Gran Consiglio)  fossero solo codardi, in grado di fare gli sbruffoni dietro un potere che li metteva al riparo dalle loro prepotenze. Farinacci, del resto, era quello che in Etiopia c’era andato solo per farsi bello, e quando perse una mano mentre buttava granate nel lago Ascianghi per pescare, riuscì a farsi dare una medaglia d’argento al valor militare per questo. Longanesi (mi sembra) commentò il fatto chiamandolo – ricordando il suo passato di ferroviere – “a la gare comme a la gare”.
Intendiamoci: non è che Badoglio fosse tanto più coraggioso, ed il clamoroso doppio gioco che l’Italia cominciò a tenere da quel momento, con il tragico epilogo dell’8 settembre, lo dimostra. “La guerra continua”, disse appena insediato, ed in realtà cominciò a tramare per avere la pace separata con gli alleati, continuando a mostrare amicizia ai tedeschi. Che brutto periodo…

Offline BobLovati

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Re:70 anni fa.
« Risposta #5 : Giovedì 25 Luglio 2013, 18:08:15 »
per amor di verità, pur non essendo io un sostenitore delle figure papali, credo di aver visto foto e spezzoni di notiziari dell´Istituto Luce col il principe pacelli circondato dalla folla di scampati, e non sul sagrato di S.Lorenzo al Verano   
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Giglic

Re:70 anni fa.
« Risposta #6 : Giovedì 25 Luglio 2013, 18:12:58 »
per amor di verità, pur non essendo io un sostenitore delle figure papali, credo di aver visto foto e spezzoni di notiziari dell´Istituto Luce col il principe pacelli circondato dalla folla di scampati, e non sul sagrato di S.Lorenzo al Verano

Circondato dagli scampati ce ne sono di foto, è vero. Ma non andò in giro per il quartiere come dissero.

(bentornato)

Offline BobLovati

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Re:70 anni fa.
« Risposta #7 : Giovedì 25 Luglio 2013, 19:47:37 »
Circondato dagli scampati ce ne sono di foto, è vero. Ma non andò in giro per il quartiere come dissero.

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Offline aquilifer

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Re:70 anni fa.
« Risposta #8 : Giovedì 25 Luglio 2013, 20:40:32 »
Splendida pagina di storia, grazie Giglic; molto interessanti le motivazioni dell'attacco, molto simili alle bombe nucleari sganciate sul Giappone anche per quelle non c'era vera necessita' strategica essendo ormai i nipponici in ginocchio quanto piuttosto per dare un segnale agli alleati in primis all'URSS che i futuri equilibri del mondo non potevano non dipendere dalle scelte degli Stati Uniti.
Atque nostris militibus cunctantibus, qui X legionis aquilam gerebat, obtestatus deos, ut ea res legioni feliciter eveniret,"desilite" inquit "milites nisi vultis aquilam hostibus prodere..." hoc cum voce magna dixisset, se ex navi proiecit atque in hostes aquilam ferre coepit.

Offline benvolio

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Re:70 anni fa.
« Risposta #9 : Venerdì 26 Luglio 2013, 10:59:24 »
Grazie Giglic, ottima pagina di storia approfondita e arguta. Sulla strategia terroristica dei boombardamenti alleati occorre considerare anche la forte spinta dell'industria bellica. Il bombardamento di Tokyo fu usato anche per testare quello che poi diventera' il napalm. Ho letto un testo di Sansoni sulla guerra nel Pacifico che riportava prove doumentali sulle scelte di bombardare centri metropolitani non solo per disarticolare la struttura economica e fiaccare il morale dei cittadini ma anche per testare su vasta scale gli effetti dei processi tecnologici.

Giglic

Re:70 anni fa.
« Risposta #10 : Venerdì 26 Luglio 2013, 11:20:38 »
Grazie Giglic, ottima pagina di storia approfondita e arguta. Sulla strategia terroristica dei boombardamenti alleati occorre considerare anche la forte spinta dell'industria bellica. Il bombardamento di Tokyo fu usato anche per testare quello che poi diventera' il napalm. Ho letto un testo di Sansoni sulla guerra nel Pacifico che riportava prove doumentali sulle scelte di bombardare centri metropolitani non solo per disarticolare la struttura economica e fiaccare il morale dei cittadini ma anche per testare su vasta scale gli effetti dei processi tecnologici.

Caro benv, questo è un aspetto - che ho solo trattato di striscio - che merita profonda analisi. I bombardamenti di Dresda e Lipsia, ad esempio (che fecero tanti morti quanto le bombe atomiche) furono fatti "ad arte" proprio per creare la cappa che alimentava il fuoco. Ed erano frutto di ricerca a tavolino.
non che Hitler fosse da meno, ovviamente (vedi i casi delle v1 e soprattutto v2 lanciate su londra) o noi con le armi chimiche e batteriologiche (queste ultime, fortunatamente non usate) pianificate per l'Etiopia.
la guerra è ANCHE ricerca tecnologica (inutile citare il progetto Manhattan, il caso più eclatante). Ad esempio, non si è mai sviscerato a sufficienza perché fu lanciata la seconda bomba a Nagasaki quando era chiaro che era inutile, visto che già dopo Hiroshima Hiro Hito era pronto a capitolare. In realtà, quella bomba, rispetto al trinity test ed al "little boy" era un test: le bombe non erano identiche.

Consideriamo anche questo aspetto: la riconversione dell'industria da "industria di guerra" ad "industria di pace" andava preparata, memori del disastro che tale metamorfosi portò alla fine della grande guerra. Oltretutto, era chiaro che lo scacchiere mondiale, esautorato il nazifascismo, si stesse spostando su una rivalità che presupponeva la conta delle forze in campo (quella tra USA ed URSS).

Il concetto di guerra, dove le vittime vengono chiamate in inglese "casualties" (io rabbrividisco quando sento questo termine) è simile, paradossalmente alle strategie di concorrenza nel business, dove il destino di molti viene deciso da pochi senza che questo pochi decidano nome e cognome di chi condannano (mandandoli all'attacco o in cassa integrazione...)

Offline BobLovati

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Re:70 anni fa.
« Risposta #11 : Venerdì 26 Luglio 2013, 12:54:23 »
vorrei dire che, nonostante concordi con le riflessioni sui motivi di certe azioni di guerra, mi sembra abbastanza facile, ORA, dire che questo o quello si sia fatto perché .....
Direi che mi sembra una specie di " CI piace vincere facile ".
La cosa brutta è che, avendo indovinato o no, le cose potrebbero essere state fatte proprio così; era già successo, inoltre, nella guerra civile in  Spagna, dove il nazismo, soprattutto per ciò che riguarda la strategia aerea ( vedi il bombardamento a tappeto di Gernika ), aveva collaudato quanto preparato per la guerra   :( 
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Giglic

Re:70 anni fa.
« Risposta #12 : Venerdì 13 Settembre 2013, 16:21:46 »
LUigi Perna stava per laurearsi in giurisprudenza a Roma. A 22 anni appena compiuti, era un bel risuLtato, specIe se si ConsiderA che il periodo deLla  guerra non era dei più SEmplici per chi volesse sTudiare.
Da Avellino si era TrAsferito a Roma, dove stava svolgeNdo il servizio miliTare come sottotenente di fanteria. Quel dieci settembre di settanta anni fa era al comando del plotone esploratori del 1° Battaglione del I Reggimento Granatieri di Sardegna. All’invasione dei nazisti decise di reagire immediatamente, pur sapendo che sarebbe stata UNa battaglia pErsa.
DifeSe Il ponte della Magliana, arretrO’ all’EUR e poi alla Montagnola, dove fu ucciso, con tutto il suo plotone.

La Resistenza comincia da qui, da un esercito che, mollato sia dal re (minuscolo voluto), sia dal governo di Badoglio (che il giorno prima erano scappati da Roma a Pescara e poi a Brindisi, decide di opporsi ad uno strapotere violento e feroce perché si potesse dire che gli italiani avevano perso tutto, ma non la dignità.
Ciò che era rimasto del fascismo era scappato (tranne alcuni casi “strani”, come quello di Ettore Muti ucciso con una revolverata al collo “durante una sparatoria”: mah!) sotto le sottane del padrone tedesco o riparato all’estero. C’erano, ovviamente, lodevoli eccezioni anche in quel campo (penso ad Arpinati, che cacciato dal fascismo riuscì a non rinnegare il proprio passato pur non coinvolgendosi in quella burattinata che fu la Repubblica di Salò – finì ucciso nel ’45 da una fucilata in faccia a bruciapelo, vittima dell’odio che lui stesso però propugnava nel ’21: penso a Bombacci, segretario nel ’19 del PSI e nel ’21 del PCI che seguì il suo amico fraterno Mussolini fino alla disfatta), ma in gran parte erano fuggiti tutti.

Roma era quindi rimasta in balia di un esercito tradito e forte, quello nazista, che si sfogò su un esercito tradito ancora di più e debole.
Il 12 settembre Mussolini verrà liberato dai nazisti (e l’unico SS che pretese di partecipare all’impresa e rischiò di farla fallire perché volle salire con Mussolini su un aliante per due – col pilota erano in tre – e quando questi decollò cadde nel vuoto per 500 metri prima di acquisire la necessaria condizione per volare fino a Pratica di mare si prese tutto il merito con Hitler: l’esercito tedesco odiava le SS come gran parte del mondo) e cominciò a creare quello stato fantoccio (ed era fantoccio perché ormai il buon Benito era fuori dalla realtà, e gli altri diadochi come Farinacci e Pavolini erano meri esecutori delle volontà naziste) che fu la RSI.

La Resistenza comincia dall’esercito, quindi, ed il fatto che fu monopolio dei comunisti si può tranquillamente dire che sia una bufala. Fu di certo, nel tempo, egemonizzata dai comunisti – del resto, era l’unica struttura clandestina presente in Italia durante il ventennio – ma non fu una storia solo comunista. E’ stata anche una storia di popolo.

L’armistizio firmato il 3 settembre a Cassibile e reso pubblico l’8 tra la sorpresa italiana (chissà perché, si aspettavano il 12, quando non c’erano assolutamente accordi in tal senso – ma del resto anche l’armistizio fu condotto in maniera ridicola) sancì la fine dell’Italia. L’inizio della guerra civile (o Resistenza, per me fu guerra civile solo dal ’44 in poi, quando i reparti in montagna cominciarono ad essere inquadrati anche militarmente) ha consentito alla Patria di non perdere, per sempre, la faccia.

Si poteva fare altro? Si, secondo me, firmare la resa incondizionata perché la guerra era ormai persa. Avere il Re che abdicava perché per 22 anni, dopo aver approvato tutto, leggi razziali comprese, del regime (ed averne avuto, non scordiamocelo, il titolo di imperatore, che a sua maestà piaceva tanto) capiva che un briciolo di dignità lo doveva portare a condividerne la sorte.  Forse avrebbe anche salvato la monarchia.

Offline andujo

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Re:70 anni fa.
« Risposta #13 : Sabato 14 Settembre 2013, 10:41:26 »
Bellissima discussione. Grazie Giglic.
Τοις τολμώσιν η τύχη ξύμφορος

Zapruder

Re:70 anni fa.
« Risposta #14 : Sabato 14 Settembre 2013, 11:21:03 »
Caro benv, questo è un aspetto - che ho solo trattato di striscio - che merita profonda analisi. I bombardamenti di Dresda e Lipsia, ad esempio (che fecero tanti morti quanto le bombe atomiche) furono fatti "ad arte" proprio per creare la cappa che alimentava il fuoco. Ed erano frutto di ricerca a tavolino.

Riguardo il bombardamento di Dresda, autentico crimine contro l'umanità, va detto che le cifre riguardanti le vittime sono state esagerate, e non di poco. Ricerche storiche molto ponderate indicano in circa 25.000 le vittime di quella strage deliberata di civili. Sembra anche che la tecnica di bombardamento sia stata in quel caso volutamente pianificata dal comandante dell'aviazione britannica, che amava assai i bombardamenti a tappeto, dopo essere stato in-volontariamente sperimentato su Amburgo (gli effetti devastanti, soprattutto il vento terribile causato dalla colonna di fuoco sul centro cittadino che risucchiava l'aria circostante, furono una sorpresa anche per gli inglesi). 

Offline BobLovati

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Re:70 anni fa.
« Risposta #15 : Sabato 14 Settembre 2013, 11:22:27 »
Giglic, risponde a verità ( magari parziale ) il fatto che Umberto tentò di restare, interrompendo la fuga in auto verso Brindisi, causa obbligo di Badoglio, che era il suo superiore gerarchico ?
Questo avrebbe potuto evitare tante disgrazie e cambiare il corso della storia ?
Grazie
Laziale, Ducatista e fiumarolo

Siamo noi fortunati ad essere della Lazio, non la Lazio ad avere noi

“LA MOGLIE DI CESARE DEVE NON SOLO ESSERE ONESTA, MA ANCHE SEMBRARE ONESTA.”

Zapruder

Re:70 anni fa.
« Risposta #16 : Sabato 14 Settembre 2013, 11:27:14 »
Giglic, risponde a verità ( magari parziale ) il fatto che Umberto tentò di restare, interrompendo la fuga in auto verso Brindisi, causa obbligo di Badoglio, che era il suo superiore gerarchico ?
Questo avrebbe potuto evitare tante disgrazie e cambiare il corso della storia ?
Grazie

Pippetto era molto dubbioso, ma Badoglio lo convinse a lasciare Roma. Quando giunsero alla villa della famiglia che doveva ospitarli, Pippetto si sincerò per prima cosa che alla consorte fossero procurati dei carciofi.
Sulla Tiburtina, di mattina presto, Badoglio nella Fiat 3000 sentiva freddo, e allora Umberto gli passò il suo cappotto da ufficiale. Badoglio si rintanò nel pastrano (una moda evidentemente quella di nascondersi nei pastrani altrui), poi si accorse che sulle maniche c'erano i gradi e allora le rivoltò, per nasconderle. Aveva il terrore si cadere nelle mani dei tedeschi, e questa fu la molla più forte che lo spinse ad insistere per portare via il Re da Roma.

Giglic

Re:70 anni fa.
« Risposta #17 : Sabato 14 Settembre 2013, 16:27:55 »
Giglic, risponde a verità ( magari parziale ) il fatto che Umberto tentò di restare, interrompendo la fuga in auto verso Brindisi, causa obbligo di Badoglio, che era il suo superiore gerarchico ?
Questo avrebbe potuto evitare tante disgrazie e cambiare il corso della storia ?
Grazie

Si. La versione data dal sig. Zapruder, in parte vera, nasconde in realtà l'unico motivo che spinse Umberto a partire anche lui: l'ordine datogli dal padre. In casa Savoia si comandava uno alla volta, ed Umberto non avrebbe potuto disobbedire pena il disconoscimento. Badoglio contava quanto il due di briscola (anche perchè da buon opportunista sapeva benissimo che quella faccenda non lo riguardava, ed evitò di prendervi parte). L'episodio del cappotto è vero, ma il risvolto aveva anche un aspetto comico: per la prima volta Badoglio aveva un rappresentante della famiglia Savoia più alto di lui. I Tedeschi sulla Tiburtina non c'erano: ecco perchè fecero il giro verso Pescara.

Secondo me, però (ed in questo non concordo con Montanelli) la monarchia sarebbe morta comunque. Primo perchè Umberto aveva ricevuto dal fascismo tanti onori quanto il padre, secondo perchè ormai era la monarchia ad essere compromessa, più del piccolo re, e solo il sacrificio supremo l'avrebbe salvata.
Mafalda di Savoia, sorella di Umberto, morì a Buchenwald dopo un bombardamento americano. Di questo si parla poco, sia perchè non corrisponde agli stereotipi di moda, sia perchè la famiglia Savoia stessa sa benissimo che è stata colpa sua. Tutto questo non ha salvato la monarchia.

L'unica vero oppositrice al fascismo in casa Savoia fu Maria Josè. ma questa è un'altra storia...

Giglic

Re:70 anni fa.
« Risposta #18 : Sabato 14 Settembre 2013, 16:31:08 »
Riguardo il bombardamento di Dresda, autentico crimine contro l'umanità, va detto che le cifre riguardanti le vittime sono state esagerate, e non di poco. Ricerche storiche molto ponderate indicano in circa 25.000 le vittime di quella strage deliberata di civili. Sembra anche che la tecnica di bombardamento sia stata in quel caso volutamente pianificata dal comandante dell'aviazione britannica, che amava assai i bombardamenti a tappeto, dopo essere stato in-volontariamente sperimentato su Amburgo (gli effetti devastanti, soprattutto il vento terribile causato dalla colonna di fuoco sul centro cittadino che risucchiava l'aria circostante, furono una sorpresa anche per gli inglesi).

I morti non furono solo 25.000. Magari! Se vogliamo tenerci bassi furono almeno il doppio. Ma ci fu chi, sopravvissuto all'eccidio, venne bruciato dopo dalla colonna di fuoco...
Che fosse pianificata era vero, che gli effetti devastanti sorpresero gli alleati no. CI provarono come ha ricordato lei, sig. Zapruder, anche ad Amburgo ma le condizioni meteorologiche erano diverse: altro che involontarie!)

Giglic

Re:70 anni fa.
« Risposta #19 : Mercoledì 16 Ottobre 2013, 14:17:48 »
Augusto Capon non immaginava che, a 70 anni, sarebbe andato a morire in Germania, con il colpevole silenzio della sua Patria. Ufficiale di Marina durante la guerra di Libia e la I guerra Mondiale, raggiunse ikl grado di Ammiraglio quando rappresentò l’Italia nei trattati dell’immediato dopoguerra difendendo gli interessi della Nazione nell’Adriatico. Aveva avuto tutto sommato una vita felice, ed era riuscito anche a vedere sua figlia sposata – con un gentile, certo, ma la sua religiosità era tiepida  - ed era ormai nonno.
Certo, le leggi razziali del ’38 lo avevano fatto espellere dalla riserva e lo avevano di base confinato nel ghetto, ma alla fine, con sua figlia e la sua famiglia al sicuro negli Stati Uniti, la sua terza età stava scorrendo tranquillamente.

Ma i tempi erano duri: la fuga del re, di quello stesso re per il cui onore e gloria Augusto aveva combattuto, aveva lasciato Roma, e soprattutto il ghetto ebraico, in balia dei nazisti. Non l’esercito tedesco, mala SS, comandata da quel Kappler principale responsabile della sofferenza indicibile della capitale durante i nove mesi di occupazione.

Alla fine di settembre, un primo ultimatum: la consegna da parte degli ebrei, di 50 chili d’oro ai nazisti pena la deportazione dell’intera comunità, entro trentasei ore. Non si sa come, ci riuscirono (risultarono alla fine 50,3 chili) anche senza l’aiuto – interessato – della chiesa cattolica, che fece sapere al rabbino Foà che avrebbe dato IN PRESTITO ed in lingotti l’eventuale oro mancante.
Kappler si sentì preso in giro, ed il 14 ottobre saccheggiò, con le sue SS, la sinagoga di Roma, privando la comunità di tesori di inestimabile valore soprattutto storico. Ma il peggio doveva ancora venire.

All’alba del 16 ottobre, 540 nazisti entrarono nel ghetto – bloccato già da alcune ore dalla Gestapo – e presento oltre 1.200 persone, cercando anche nei nascondigli che i soliti, spregevoli, delatori avevano segnalato. Va ad onore dell’intera nazione solo una piccola cosa: il rapporto di Kappler che si lamentava della resistenza passiva degli italiani, che nascosero quante più persone possibili e non collaborarono minimamente all’infamia.

Finirono trasferiti a via della Lungara, dove furono costretti in piedi per oltre trenta ore, senza neanche poter espletare i bisogni fisiologici. Alla fine, degli oltre 1200, poco più di mille furono caricati su carri bestiame alla stazione Tiburtina e deportati ad Auschwitz. Il vaticano venne a conoscenza della cosa quasi subito, ma l’unica azione che intraprese fu quella di far sapere ai tedeschi di non ripetere più il gesto o “sarebbe stato costretto a rendere pubblica la sua disapprovazione”. Questo era Pio XII.

Durante il viaggio solo uno riuscì a scappare (trovò un pertugio e si tuffò fuori nei pressi della stazione di Padova, due anziani morirono ed una giovane di 24 anni partorì. A quel bambino senza nome, morto ancor prima di nascere, va il mio pensiero come simbolo dello schifo razziale che ha ridotto a sub umanità alcune persone.

Arrivarono a destinazione il 22, ma furono fatti scendere dai vagoni solo il 23. Dei poco più di mille, solo circa 170 furono dichiarati abili al lavoro, e mandati nei vari campi di sterminio. Sopravvissero in 16: quindici uomini ed una donna, Settimia Spizzichino, e sono orgoglioso del fatto che mio figlio faccia le scuole medie in un complesso che porta il suo nome.

Gli altri 870 furono avviati alle camere a gas (“and now go to have a shower”: se solo gli imbecilli che hanno esposto questo striscione sapessero le sofferenze indicibili, fisiche e morali, di quel periodo non credo avrebbero più il coraggio di guardarsi allo specchio). Tra di loro c’era Augusto Capon, morto perché il re che aveva servito lo aveva ricompensato con il più odioso dei tradimenti.

Quando nel 1944 ripresero regolari le comunicazioni tra USA ed Italia, il genero di Augusto Capon riuscì a far recapitare una lettera ad un suo collega dell’Università, chiedendo notizie del suocero “A Laura – scrisse – l’incertezza sulla sorte del padre (era morto ormai da quasi un anno, nota mia) la turba molto di più che non la certezza di saperlo morto”. Frase cinica, ma in linea con il personaggio. La lettera fu ricevuta e letta dal collega, che si chiamava Edoardo Amaldi, ed era firmata Enrico Fermi.