Autore Topic: Arsenal Lazio  (Letto 1170 volte)

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V.

Arsenal Lazio
« : Martedì 22 Gennaio 2013, 15:59:56 »
posto qui la spendida nuova introduzione a febbre a 90' di Hornby.
non pensavo che uno scrittore potesse prendere le distanze con maturità dalla faciloneria con cui è stato preso a esempio il suo più grande libro sul consumo di calcio. Libro bellissimo Fever Pitch, scambiato spesso per un libro sul calcio mentre è come ribadisce 20 anni dopo Hornby un libro sul consumo di calcio.

"Dalla pubblicazione di Febbre a 90′, nel lontano 1992, il calcio inglese è molto cambiato, anche se in realtà sono successe più cose negli ultimi vent’anni che in tutti i precedenti settanta o ottanta. Le partite sono diventate più veloci e più belle, i giocatori sono più in forma e più bravi.

nostri stadi sono più sicuri, ma i biglietti maledettamente cari e più difficili da trovare, e così gli spettatori sono più vecchi, e meno scalmanati. Quasi tutti i giocatori della Premier League dell’ultimo decennio sono plurimilionari per definizione, mentre nei primi anni Novanta il calciatore inglese più dotato, Paul Gascoigne, giocava nel campionato italiano, decisamente più ricco e più glamour.

Ma ormai sia la lira, sia la serie A, hanno smesso di luccicare. Abbonandoti a un canale sportivo via cavo puoi vedere due o tre partite al giorno, in ogni angolo d’Europa. È più facile guardare un match della Premier League a New York o alle Canarie che a Londra, e in ogni bar del mondo c’è sempre qualcuno con cui parlare della lampante cocciutaggine di Arsene Wenger nel calciomercato estivo.

La mia squadra del cuore, un tempo così triste e quasi impossibile da amare, è diventata un simbolo di perfezione estetica, e ha vissuto, forse, il periodo più grandioso della sua storia; per quasi un decennio, gli irripetibili anni tra il 1997 e il 2006, un sabato sì e uno no potevo vedere all’opera nell’Arsenal il fior fiore del calcio mondiale.

Dietro questi cambiamenti ci sono un evento, la strage di Hillsborough, e un uomo, Rupert Murdoch. Dopo Hillsborough, infatti, si è dovuto per forza ammettere che qualcosa andava fatto – che quelle enormi, fatiscenti gradinate di calcestruzzo non erano sicure e che uno svago pomeridiano non poteva includere il rischio di feriti, o addirittura di morti.

Murdoch, invece, ha capito che accaparrandosi i diritti tv degli sport più seguiti del mondo le sue televisioni sarebbero diventate quasi più indispensabili del pane per una marea d’individui.

Così ha inondato il calcio di soldi, e insieme ai bigliettoni sono spuntate le star straniere, e i club hanno aumentato i prezzi dei biglietti per pagare ingaggi stellari. Più di una volta mi è capitato di leggere un’altra versione su quegli anni, una versione secondo la quale parte delle responsabilità di quei cambiamenti spetterebbe al libro che avete in mano. Febbre a 90′, questa in breve la teoria, avrebbe venduto le partite di calcio alle classi medie rendendole le uniche in grado di permettersi di guardarle.

Non sarebbe mica male, in fondo, poter rivendicare dei meriti in cambiamenti sociali e culturali tanto significativi, ma purtroppo non è così. Non è per essere modesto che dico che il proprietario di un impero mediatico internazionale ha influito sullo sport inglese più del mio primo libro. E comunque in tutta questa storia c’è qualcosa che non torna, è come se il fatto che Febbre a 90′ sia un libro significhi che il suo successo è dovuto soltanto ai lettori delle classi medie – della serie come potrebbe essere altrimenti, gli operai mica leggono.

Secondo me, invece, ‘‘Febbre a 90”’ non è stato letto soltanto da gente abituata a comprare libri, ma anche da chi di solito non li compra; insomma, sia dai laureati di Oxford e Cambridge che da persone che hanno mollato la scuola a sedici anni.

Dietro questo libro non ci sono storie drammatiche – l’ho scritto quasi di getto, e trovare un editore è stato relativamente facile e veloce. Molti editori, però, convinti che «i libri sul calcio non vendono», lo avevano snobbato, basandosi, a mio avviso, su una visione del mondo tutt’altro che democratica. Il succo del loro ragionamento, infatti, era: «I tifosi di calcio sono stupidi, talmente stupidi che non si comprano nemmeno le terribili autobiografie opera di ghost-writers sfornate apposta per loro. Quante chance credi di poter avere con i tuoi riferimenti al postmodernismo e le tue citazioni di Jane Austen?». L’idea che quelle terribili autobiografie opera di ghost-writers non vendessero perché erano terribili e opera di ghost-writers non li aveva nemmeno sfiorati. Quindi, probabilmente Febbre a 90′ non ha cambiato la composizione sociale degli spettatori delle partite di calcio, ma spero che almeno abbia aiutato a risvegliare gli editori sul potenziale commerciale di un diverso tipo di libri sullo sport.

Evitando chissà quale ricercata affermazione da uomo di lettere sulla genesi di questo libro, posso solo dire che l’unica cosa che avevo in mente mentre lo scrivevo era che i tifosi di calcio potessero leggerlo senza fare una piega. Per quanto riguarda le mie fonti d’ispirazione, due vengono dagli Stati Uniti: l’autobiografia di Tobias Wolff “This Boy’s Life” e il classico dimenticato di Frederick Exley A Fan’s Notes.

Dal libro This Boy’s Life, di Tobias Wolff (Atlantic Monthly Press, New York, 1989) nel 1993 è stato tratto il film Voglia di ricominciare, con Robert De Niro e Leonardo di Caprio. Da A Fan’s Notes, di Frederick Exley, è stato tratto il sottotitolo dell’edizione originale di Febbre a 90′, Fever Pitch, A Fan’s Life, «Vita di un tifoso». (N.d.T.)

Sarà perché la cultura popolare è il fiore all’occhiello dell’America, ma nessuno lì è sembrato sorprendersi del fatto che un autore esperto di poesia contemporanea fosse altrettanto ferrato nei punteggi del baseball; in Gran Bretagna, invece, questo miscuglio culturale è ancora visto con un certo sospetto. Un tifoso di calcio che legge libri passa per presuntuoso e snob; un poeta con un abbonamento stagionale è uno che più in basso di così non poteva cadere.

Un altro dato di fatto è che la sfera d’influenza del calcio si era già ampliata ben prima di
Febbre a 90′. Molte delle persone che vedevo alle partite appartenevano, come me, alla prima generazione delle classi medie, tutti beneficiari della mobilità sociale del secondo Dopoguerra. Noi avevamo goduto del privilegio di poter andare all’università e amavamo il calcio soprattutto perché lo amavano i nostri genitori e i nostri nonni.

E comunque quando l’Inghilterra vinse la Coppa del Mondo, nel 1966, e George Best diventò il Quinto Beatle, quasi tutte le vecchie connotazioni sociali saltarono e amare il calcio diventò semplice quanto amare la musica pop.

Poi, negli anni Ottanta, gli anni del calcio malato, molti di quei ragazzini hanno smesso di andare allo stadio, per tornarci a metà del decennio successivo, quando le cose hanno ricominciato a girare per il verso giusto. (Io invece, anche se avrei dovuto, non ho mai smesso, ed è stata questa tenacia, forse, la mia migliore qualifica per scrivere questo libro.) Quando i tifosi l’hanno piantata con il cercare di picchiarsi fino a morire spappolati – o perlomeno quando la polizia ha capito come impedirglielo – gli spalti sono tornati pieni.

E in questo dal punto di vista sociologico non c’è nulla di particolarmente complicato.
Febbre a 90′, però, è uscito proprio nel periodo in cui i nostri stadi stavano diventando più sicuri, più affollati e più accoglienti per donne e famiglie, e la conseguenza è stata che il mio libro si è beccato meriti e colpe che non gli spettavano. Tempo dopo ho scoperto che in altri paesi – soprattutto negli Stati Uniti, il posto in cui Febbre a 90′, per ovvie ragioni, ha avuto meno successo -, stavano succedendo più o meno le stesse cose e tenendo banco dibattiti simili.

Ovunque, o almeno così pare, lo sport professionistico si sta arricchendo e imborghesendo. Trovatemi un solo dirigente che per intrattenere un cliente lo porta ancora a teatro o all’opera; le classi medie di oggi, di qualunque nazionalità si parli, sono persone diverse, con background diversi e gusti diversi. Negli ultimi vent’anni non è solo il calcio a essere cambiato. Anch’io, ovvero l’altro protagonista di Febbre a 90′, che in fondo è un libro autobiografico, sono diverso.

Nonostante tutto, però, il mio legame con l’Arsenal non si è spezzato. Negli ultimi vent’anni avrò perso al massimo venti partite casalinghe e quando giochiamo male ancora metto il muso. Anzi, ora che vivo con persone afflitte dalla medesima malattia la mia tristezza è ancora più impenetrabile. Il calcio, però, è diverso, gli stadi sono diversi e le voragini della mia infanzia e prima adolescenza sono state riempite – da un più che soddisfacente lavoro a tempo pieno che Febbre a 90′ ha reso sicuro e da una ricca, impegnativa e complicata vita di famiglia.

Oggi non vorrei e non potrei mai scrivere questo libro, ma non lo dico per sminuirlo. Nella mia attuale incapacità, infatti, vedo tanto una perdita quanto una crescita. La persona che aveva il tempo e le energie per tutti quei crepacuori ormai non esiste più, e se ora dovessi scrivere su di lei probabilmente le darei un buffetto sulla testa e la spronerei a diventare più adulta, più saggia, e si perderebbe tutto il bello di Febbre a 90′.

Ho davvero provato quelle cose, e con me tantissime altre persone, milioni di persone. Molti di quei milioni forse oggi non si riconoscono più granché nel calcio e negli stadi in cui viene giocato, ma i miei figli e milioni di altri giovani, ragazzi e ragazze, stanno iniziando un’avventura che gli procurerà una marea di dolori e, una volta ogni morte di papa, attimi di gioia trascendentale. E questo, secondo me, non cambierà mai".


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IL passaggio sull'arsenal è molto vicino alle discussioni sul "pessimismo cosmico/storico biancoceleste" e sul "noi laziali siamo così". sono bastati neanche dieci anni e l'arsenal è diventato un raffinato modello da imitare e sospettare. Eppure in champions l'armata di Henry non ha mai vinto nulla mentre in casa sono arrivati 3 scudetti e tre coppe di lega. Hornby parla del suo vecchio arsenal perfino come una squadra "così triste".
Lo scrive hornby a cui nessuno ha mai tolto la patente di tifoso solo perchè ha svoltato nella vita con la storia della sua squadra del cuore.-

Quegli anni lì, quella lunga stagione ha cambiato le cose o no? O ci saranno sempre i tifosi inglesi non solo a ricordare i tempi "tristi" ma a tramutarli in DNA sentimentale?  Quando diventa importante quella stagione per gli anni successivi? quanto è seminale tra il pubblico vecchio e nuovo? Le sbornie passano a tutti, ma quanto influenzano i fatti? Quelle vittorie lontane dieci anni durano fino a oggi: va così la storia dei club che non sono milan o barcellona. E nonostante anni bui e disgrazie per me la storia della Lazio è moderna ed è tutta recente. Non è così disseminata e confusa nel tempo come sostengono alcuni. Se io che sono nato nel 1974 avessi 70 anni allora capirei, ma non ne ho neanche 40.


POMATA

Re:Arsenal Lazio
« Risposta #1 : Mercoledì 23 Gennaio 2013, 11:34:58 »
La Lazio è per me sentimento puro, mio suocero spesso mi dice; ma cosa ti darà la Lazio, io gli rispondo: Non lo sò, però se vince sono più contento :D

Le disgrazie e i trionfi che ho vissuto in questi 40 anni di Lazio, hanno rafforzato la mia passione nel tempo.

Quanto te amo Lazio mia bella ;)

ThomasDoll

Re:Arsenal Lazio
« Risposta #2 : Mercoledì 23 Gennaio 2013, 15:39:14 »
Esiste un meccanismo di accreditamento attraverso il "reducismo" al quale il calcio non sfugge. Anzi. Attraverso la lente del reduce assumono rilevanza storica episodi marginali, o situazioni di cui con un altro sguardo ci si vergognerebbe. In parte è giusto che sia così, ma la circostanza non giustifica la divisione in categorie della tifoseria.
In realtà, lo abbiamo detto più volte, la storia della Lazio racconta nobili origini, non consuetudine alla vittoria. Si può dire che la Lazio sia una colonna portante dello sport italiano, non che ne abbia scritto l'albo d'oro. Una testimonianza importante, fatta di grandi interpreti che si sono legati alla Lazio fugacemente (Coppi) o per tutta la vita (Nostini).
A un certo punto la storia della sezione più importante, quella calcistica, è cambiata. Ci sono stati periodi aurei, negli anni trenta, cinquanta e settanta, ma la precarietà di fondo è rimasta. Negli ultimi vent'anni, invece, la Lazio si è stabilizzata nel calcio italiano a un livello più alto della sua media storica, vincendo molto e rimanendo piazzata nel pacchetto delle grandi anche dopo la caduta di Cragnotti. Questo fa sì che ogni nobile vicenda storica sia un po' soppiantata dal racconto delle Lazio stellari cominciate da Paul Gascoigne in poi. Usiamo questa pietra miliare simbolica: da Gascoigne a Klose c'è una Lazio conosciuta e apprezzata nel mondo, capace di battere il Manchester United segnando il ricordo di Alex Ferguson, di aggiudicarsi lo scudetto del 2000 in un modo che nemmeno Hornby, di regalare al calcio mondiale il talento di Nesta e la crescita professionale esemplare di Nedved.
Se uno valuta l'ultimo ventennio laziale con la lente giusta si accorge che non c'è storia che tenga. La storia vera della Lazio è quella recente. Ma è giusto legare questi anni importanti a quelli che hanno creato la forza di questa società che è fortemente radicata nel territorio e ha lasciato innumerevoli tracce del suo passaggio in più di un secolo di vicende romane.
Questa, la storia. Per quanto riguarda il modo di raccontarsela dei tifosi, sappiamo che c'è posto per tutto e che c'è, parallelamente al dipanarsi dei fatti veri, un racconto che orienta la percezione della Lazio, una "versione ufficiale" non accreditata da nessuno che crea un quotidiano vissuto laziale completamente astratto dalla reale sostanza dei risultati e delle vicende della squadra. Così l'avversione per i romanisti di un tempo, le paranoie arbitrali o la sindrome da accerchiamento si rivolgono contro Lotito, da parte di alcuni.
Questo indica che esiste un conformismo antilotitiano che trova spazi maggiori rispetto alle tante passate manifestazioni storiche del tifo che ci vengono raccontate. Una per tutte, la contestazione preventiva a Maestrelli.
L'adesione a questo modello di "racconto ufficiale" ha comportato, quando necessario, la minimizzazione di certi risultati, o addirittura (vedi calciopoli) l'adesione a teorie che potevano distruggere quanto di buono fatto e riportare la macchina ai livelli disperanti e disperati degli anni 80. Questo perché quello del tifoso è un comportamento socialmente rilevante. Sarebbe interessante leggere il racconto di un Hornby laziale, per vedere come lo scrittore ci potrebbe descrivere quello che è successo qui. Ma anche questo, soprattutto questo è il segno di una vicenda unica e ricca di elementi significativi.
La dannazione e la redenzione sono pane quotidiano laziale, non vicende vecchie di trent'anni che si raccontano commuovendosi davanti a delle foto in bianco e nero. Chinaglia, Gascoigne, Signori, Fiorini, Mauri, Nedved, Nesta, Pandev, Zarate, Klose, Petkovic. Sono storie recenti e degne di essere raccontate, capitoli che si sono aggiunti a quel libro e che si aggiungono ogni giorno. Il mio augurio, nell'apprezzare più di ogni altro il tema proposto da V., è che chi vive prigioniero dell'antilotitismo possa tornare a vedere la quotidianità di questa squadra come la bella avventura di un club sportivo, per il quale vale il detto di Nick Hornby che accomuna tutti: c'è sempre un'altra partita, una stagione che comincia, una nuova avventura da vivere.
Una delle cose che mi sono sempre chiesto è come farò a sapere cosa succede alla Lazio dopo che sarò morto. Penso che questo accomuni tutti gli appassionati di una squadra, al di là dei colori, e credo che sia un modo per scandire la propria esistenza anche attraverso la storia della propria squadra. Ed è brutto che si neghi la storia a chi è nato dopo che tante pagine erano già state scritte...

Offline SAV

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Re:Arsenal Lazio
« Risposta #3 : Mercoledì 23 Gennaio 2013, 16:30:20 »
Ho trovato la versione originale della nuova introduzione di Hornby.  La parte iniziale non è stata tradotta in italiano.

In February 2011 - February 27, to be precise, at around 5.50pm – my team, Arsenal, conceded a goal in the last minute of a cup final at Wembley against Birmingham City, and, as a consequence, lost the game. I watched as the Birmingham fans at the other end of the stadium exploded with joy, a joy made even sweeter by disbelief: Birmingham were on the verge of relegation, and Arsenal had been expected to beat them comfortably.
I, and other Arsenal fans of a certain age, had been there before: I have seen my team lose to Swindon Town of the Third Division, and scrappy little Luton, and Second Division West Ham, all games I described in my book Fever Pitch. So my younger selves would not have been surprised by the unfortunate turn of events, nor by my despair, although they may well have been disappointed that there was no 21st–century invention or law preventing this sort of thing.
The 11 year–old who watched Arsenal lose to Swindon would have been baffled by many aspects of that Birmingham game, however; indeed, the 34 year–old who wrote Fever Pitch would have needed a few explanations, too. For example: City's opening goal came off the head of a giant Serb, before a Dutchman equalised for Arsenal. A Nigerian borrowed from a Russian club scored the winner, after a ludicrous defensive mix–up between a Frenchman and a Pole. Who were these people? What were they doing playing in an English domestic competition at Wembley? And why was I paying nearly 90 quid to watch them?
English football has changed since Fever Pitch was published in 1992. Indeed, more has happened in the last 20 years than in the previous 70 or 80. The game has got faster and better, and the players are fitter and more accomplished. Our stadiums are mostly safe, but tickets are ruinously expensive and much harder to come by, and crowds are consequently older, and quieter. Just about everyone who has ever played in the Premier League over the last decade is a multimillionaire, by definition, but in the early Nineties, England's most gifted player, Paul Gascoigne, was playing in the richer and infinitely more glamorous Italian league. Both the lira and its lure are now gone. If you subscribe to a cable sports channel, you can see two or three games a day, games taking place all over Europe. It's easier to watch a Premier League game on TV in New York City or the Canary Islands than it is in London, and you can talk to someone in any bar in the world about Arsène Wenger's apparent stubbornness in the transfer market. My previously dour and unlovable team suddenly became a byword for aesthetic perfection, and enjoyed possibly the greatest period of its history; for a few bewildering years, between 1997 and 2006, I could watch several of the best players in the world every other Saturday.
Most of these changes can be traced back to one event, the Hillsborough disaster, and to one man, Rupert Murdoch. After Hillsborough there was a general recognition that something needed to be done – that the enormous, crumbling concrete terraces weren't safe, that an afternoon's entertainment should not carry with it the threat of injury or even death. And Murdoch saw that his TV network would become indispensable to huge swathes of the population if he bought the rights to the most popular sport in the world. He flooded the game with money, foreign stars turned up in their hundreds, and the clubs jacked up their season ticket prices to pay the newly astonishing wage bills.
I have read, more than once, another account of those years, an account which argues that Fever Pitch was somehow responsible for some of these changes. According to this theory, my book sold the game to the middle classes, who then became the only people who could afford to watch it. I'd love to claim some credit for significant social and cultural change, however regrettable, but I can't; I am not being modest when I suggest that the owner of an international media empire has had a more profound effect on British sport than my first book. And anyway, there's something suspect here: an assumption that, because Fever Pitch is a book, its success was due entirely to a middle–class readership – how could it have been any other way, when working–class people don't read? It seemed to me, however, that Fever Pitch was read by people who buy books and people who don't, by people with Oxbridge degrees and people who had left school at 16; as far as I could tell from my conversations with readers, my own education (the B–stream of a state grammar school and then Cambridge) was insignificant compared to the trauma inflicted on me by Don Rogers at the 1969 League Cup Final.
There is no dramatic story behind Fever Pitch – the writing came easily, and I found a publisher relatively quickly. But several publishers turned it down on the grounds that "football books don't sell", and it seemed to me that there was a similarly undemocratic notion underpinning this perception, too. What it apparently meant was: "Football fans are stupid, but they don't even buy the shoddy ghostwritten autobiographies we churn out. So what chance do you have, with your references to postmodernism and your Jane Austen quotes?" The idea that shoddy ghostwritten autobiographies weren't selling because they were shoddy and ghostwritten didn't seem to have occurred to them. Fever Pitch may not have changed the social make–up of football crowds, but I hope it helped wake publishers up to the commercial potential of a different kind of sports writing. I don't want to make extravagant literary claims for this book, but I knew when I was writing it that a lot of football fans could read without moving their lips. Two of the inspirations for this book were American: Tobias Wolff's memoir This Boy's Life, Frederick Exley's neglected classic A Fan's Notes (hence the subtitle of Fever Pitch, "A Fan's Life"). Perhaps because popular culture is America's glory, nobody in the US ever seems surprised when authors are as conversant with baseball scores as they are with contemporary poetry; in the UK, however, that kind of cultural inclusion is still viewed with suspicion. A football fan who reads is pretentious and posh; a poet with a season ticket is slumming it.
I knew, too, that football's reach had extended a long time before Fever Pitch. A lot of the people I watched and played the game with were, like me, first–generation middle class; we were the beneficiaries of post–war social mobility. We had been to university, but our parents hadn't, and in many cases we loved football because our fathers and grandfathers loved football. And in any case, when England won the World Cup in 1966, and George Best became the Fifth Beatle, the game threw off a lot of its old class connotations, and loving it became as uncomplicated as loving pop music. Lots of these kids stopped attending games in the Eighties, when football was sick, and then came back in the mid–Nineties, when it got well again. (I didn't stop, although I should have done, and my persistence was one of the ways in which I was qualified to write the book in the first place.) When young men stopped trying to beat each other to a pulp – or when the police learnt how to stop them, at least – everyone came back. There didn't seem anything very sociologically complicated about that. But Fever Pitch was published just as our stadiums were becoming healthier, more populated, friendlier to families and women, and, as a consequence, it got credit it didn't earn, and, sometimes, blame it didn't deserve. Later, I found out that the same patterns and debates were taking place in other countries, notably the US, a country that mostly ignored Fever Pitch, for obvious reasons. Everywhere, it seems, professional sport has become monetised and gentrified. Executives are no longer interested in entertaining their clients at the theatre and the opera; the middle classes everywhere are different people now, with different backgrounds, different tastes.
When Birmingham City scored their 89th–minute winner, I felt all the old familiar feelings associated with Arsenal losing – the disbelief, the nausea, the determination never to put myself through such a wretched experience again – but it is not just football that has changed over the last two decades. A lot has happened to me, too, and, given that Fever Pitch is a memoir, I was the other subject of this book. Never mind the mysterious players on the pitch – who were these people in the stands with me? When I wrote this book I was unmarried and childless; in 2011 I was at Wembley with my second wife and my two youngest sons. They were eight and seven years old, and they have grown up within walking distance of both Highbury and the Emirates, and this was their first experience of watching their team in a Wembley Cup Final. The youngest one burst into tears, and the eldest started to pull his mother towards the exit. So I felt sick about the goal (neither here nor there now, except Koscielny should have put the ball into row Z), but also sad for them, and guilty too, because, without me, and without the connection to Arsenal explored in these pages, they wouldn't have been there.
On the face of it, that connection hasn't been broken. I have probably missed fewer than 20 home games in the last two decades, and the mood in our home is still lowered by bad results. If anything, the gloom is even less penetrable, now that I live with others who are affected too. But the game is different, and the stadium is different, and the gaping holes in my childhood and younger adulthood have now been filled – by a fulfilling full–time job that Fever Pitch helped secure, by a rich but demanding and complicated family life.
I wouldn't and couldn't write the same book now, but that is not to belittle it, because this inability represents loss, as well as growth. I miss the person who had the time and the energy for all that angst and passion, and if I were to write about him now, I'd probably pat him on the head and tell him that he would become older and wiser, and the whole point of this book would have been lost. I felt these things, and so did many others, millions of them. And though those millions might not recognise much about the game, nor the arenas it is now played in, my sons and millions of others, boys and girls, are just starting out on a journey that will bring them a lot of pain and, very occasionally, moments of transcendental joy. I don't suppose that will ever end.

Offline disabitato

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Re:Arsenal Lazio
« Risposta #4 : Giovedì 24 Gennaio 2013, 00:55:33 »
in inglese e con la parte iniziale assume un altro significato
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Offline ML

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Re:Arsenal Lazio
« Risposta #5 : Venerdì 25 Gennaio 2013, 01:17:28 »
Grazie a tutti e due, una bella lettura.

Offline pizzeman

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Re:Arsenal Lazio
« Risposta #6 : Sabato 26 Gennaio 2013, 10:54:02 »
Una delle cose che mi sono sempre chiesto è come farò a sapere cosa succede alla Lazio dopo che sarò morto.

vero, alle volte mi è capitato di pensare.. cazzo e se muoio come faccio a sapere come finisce la Lazio la stagione ?
Non il nome dietro, ma il simbolo davanti.

V.

Re:Arsenal Lazio
« Risposta #7 : Martedì 19 Febbraio 2013, 13:59:22 »
cioè cioè?
come cambia la nuova nota di hornby?
ditemi