Addirittura la rubrica personalizzata?!
Spero di essere all'altezza, piuttosto...
Parto dalla domanda di DinoRaggio sulla Jugoslavia 1990: cosa le impedì non solo di arrivare più avanti, ma anche di opporre una resistenza un po' meno blanda ai tedeschi allora dell'Ovest (4-1 il finale nella gara di esordio per entrambe) e di procedere con un minimo di sicurezza?
Già, perché il risultato più significativo - il 2-1 ai supplementari contro la Spagna negli ottavi - dipese da una leggendaria doppietta di Stojković che vinse praticamente da solo.
Mentre i suoi compagni, letteralmente mangiati dal caldo bolognese, opponevano barricate allo sconclusionato assedio delle Furie Rosse.
Perché una cifra tecnica così modesta nonostante un potenziale tecnico impressionante (e mancava Boban, squalificato dopo gli incidenti di Dinamo Zagabria-Stella Rossa)?
Alcune concause:
1) lo spogliatoio, come ricordato da RB. Contrapposizioni etniche? No, quelle nel calcio - a parte il precedente di Zvone citato pocanzi - non sono mai arrivate.
Casomai furono i nazionalisti delle varie repubbliche, persino nella relativamente quieta Macedonia, a minacciare le federazioni locali se avessero concesso i giocatori a ciò che restava della Nazionale jugoslava.
Clan di altra natura? Nemmeno quelli, l'organizzazione necessaria per crearli e contrapporli era già troppa per quegli splendidi e folli solisti.
Personalismi forti, e con una quantità di galli nel pollaio superiore persino a certe storiche edizioni della Seleção: non la premessa migliore per formare una squadra, che infatti non fu mai tale fino in fondo
2) L'allenatore, categoria che, a differenza di quanto accaduto nel basket, non ha mai potuto contare su una scuola di successo.
Con un gruppo del genere non serviva un genio della strategia, che non avrebbe trovato seguito.
E neppure un Maestrelli, poiché si trattava di canalizzare contraddizioni e clamorosi alti e bassi, non tanto energie selvagge ma autentiche.
Chissà, forse ci sarebbe voluto un eretico di un'altra scuola calcistica, abbastanza matto per relazionarsi con quel contesto ma anche in grado di portarvi qualcosa di culturalmente complementare.
Non a caso, quanti fra quei campioni si sono confermati all'estero lo hanno fatto in Paesi con una mentalità piuttosto diversa in ambito pallonaro: ad esempio non nella Liga, troppo permissiva con chi gigioneggia palla al piede, ma in un campionato agli antipodi per cinismo tattico come il nostro.
Ivica Osim, pur tenendo conto delle non facili condizioni in cui si trovò a lavorare, non riuscì ad essere nulla di tutto questo, limitandosi a un grigio ruolo di selezionatore.
Dall'autogestione di fatto nello spogliatoio - che si trasformava in un caleidoscopio di autogestioni individuali - alle epurazioni che seguirono il disastroso debutto con la Germania Ovest, non vi fu mai il modo di creare un collettivo né in campo né fuori.
L'anarchia tattica era tale che le individualità, anziché trovare spazi incontrastati, vennero penalizzate: pagando, fra l'altro, lo scarso possesso palla che un centrocampo informe in fase di recupero palla riusciva a garantire
3) Il differente grado di maturità fra i singoli. A rileggerli nell'elenco siglato da DinoRaggio sembrerebbero costituire un undici di mostri, ma l'illusione ottica è generata dal fatto che i loro nomi evocano prodezze successive a quel Mundial.
Bokšić e Šuker, per dire, erano ventenni o poco più ancora lontani dai fasti di Francia '98 con la Croazia o da certe prestazioni dell'alieno in maglia biancoceleste
4) Lo squilibrio fra i reparti. Da metacampo in su si è detto; in difesa il teorico punto di forza era tale Predrag Spasić, passato alla storia per un demenziale autogol in un
Clásico che lo spietato commento di Massimo Marianella e la riproposizione a
Mai dire gol resero popolarissimo anche in Italia.
Se è vero che i tornei si vincono anche con la difesa, con
quella difesa - sia per i singoli sia per concentrazione e atteggiamento tattico - anche Pelé e Garrincha si sarebbero trovati costretti agli straordinari
5) La discontinuità mentale. Prendiamo una Jugoslavia che ha vinto, la Stella Rossa della Coppa dei Campioni.
Nella semifinale d'andata a Monaco di Baviera la
Crvena Zvezda fu semplicemente immensa; si dimostrò all'altezza anche al ritorno, pur ricordando che in quella gara - fra le più belle nella storia del calcio - le note epiche vennero soprattutto dall'infinito orgoglio con cui il Bayern compensò, sfiorando il colpaccio, l'evidente inferiorità tecnica.
Nell'atto conclusivo al San Nicola di Bari, Savićević e compagni si convinsero di essere più scarsi del forte ma non invincibile Marsiglia e improvvisarono un'assurda difesa a uomo con annesso catenaccio, che contribuì in maniera decisiva allo scempio di 120 minuti soporiferi.
Certi labirinti mentali hanno un loro fascino: ma se i tedeschi arrivano quasi sempre in fondo è perché, forse, nel calcio di alto livello serve altro
6) Il dilettantismo organizzativo, almeno in certi aspetti. Incredibile che un calcio di quel livello non avesse alcuna nozione di medicina sportiva, mandando in campo atleti affetti da stiramenti con un plantare o una fasciatura.
Si spiegano così, con la cronicizzazione di infortuni mal gestiti, i muscoli di seta che penalizzarono non poco fisici di per sé corroborati da una straordinaria forza sulle gambe, non secondaria nel rendere letali i loro scatti e dribbling.
Altro dettaglio: nella serie dei rigori contro l'Argentina, un bisticcio o un qui pro quo cambiarono all'ultimo momento il quarto rigorista.
Toccò a Brnović, che si avviò verso il dischetto con la stessa concentrazione di un turista in infradito favorendo la parata di Goycoechea (neppure parente di quello attualmente in forza alla xxxx): impensabile quando si punta ai vertici
7) Limitatamente al quarto di finale contro l'Argentina: l'arbitro Roethlisberger.
Venne radiato qualche anno dopo per un tentativo di corruzione, ma anche all'indomani di interviste in cui aveva minacciato di vuotare il sacco coinvolgendo in primis il suo mandante di sempre: Sepp Blatter.
Maradona e soci dovevano andare avanti: non troppo avanti, come confermò la direzione di Codesal Méndez in finale - e la fine della sua carriera all'indomani di quella partita -, ma più di quanto meritasse una rosa modesta e lacera.
Dopo il mani non visto dallo svedese Fredriksson contro l'URSS - lo svedese aveva già "segato" gli uomini di Lobanovsky quattro anni prima, nell'ottavo vinto dal Belgio -, l'altra mano tesa arrivò dal fischietto elvetico con l'espulsione di Šabanadžović, inventata a colpi di doppio giallo in poco più di un quarto d'ora, e una direzione di gara a senso unico.
Non bastò per chiuderla prima dei rigori, a conferma del divario fra le due squadre
Più tardi rispondo a cuchillo, promesso.