Aspetto fremente l'intervento di ErMatador che ci parli di un'Ungheria-Cecoslovacchia, amichevole del 1967, con arbitraggio scandoloso e coi primi vagiti della zona mista...
Aspettiamo un intervento del Matador e un parere di Eva Henger.
Eccomi, carissimi (ma non mi starete sopravvalutando?!), purtroppo senza Eva Henger.
Mi associo ai complimenti per il bellissimo topic e parto da una risposta altrui, data alla stessa domanda da Sándor Puhl.
Lo ricordate? Arbitro imponente e bravissimo. Il più intelligente fra quanti mi è capitato di vedere all'opera nel comporre le scaramucce con una paterna reprimenda, che calmava la partita, anziché aizzarla con cartellini dispensati a petto in fuori.
Finché non inciampò in una finale di CL tra Borussia Dortmund e Juventus, che la Merkel avrebbe diretto in maniera più imparziale, e da lì la sua carriera imboccò una rapida discesa chiudendosi pochi anni dopo.
Scusate la breve digressione, ma trattandosi dell'unica gloria calcistica ungherese negli ultimi due decenni credo di non essere andato fuori tema.
Arrivando al dunque, l'analisi in merito al declino del suo Paese verteva su un punto: la progressiva biforcazione tra un calcio basato sulla tecnica e uno basato sul fattore atletico e tattico.
La scuola calcistica ungherese si era attardata nel tentativo di fondere le due caratteristiche, cosa riuscitale magnificamente qualche decennio prima ma in un calcio troppo diverso: e quella mancanza di specializzazione l'aveva resa né carne né pesce, tagliandola fuori dal grande giro.
Puhl collocava la Grande Indecisione tra gli anni '60 e '70, con effetti a partire dal decennio successivo, e la recente cronistoria del football magiaro sembra dargli ragione.
Nel '78 l'inserimento degli eredi dell'
Aranycsapat nel raggruppamento degli Azzurri sembrava affiancare degnamente la presenza della Francia e dei padroni di casa nel definire un super-girone di ferro, il cui superamento da capolista rimane forse l'impresa di maggiore spessore tecnico nel dopoguerra della nostra Nazionale.
Nell'82 arrivarono con discrete credenziali, ma mai come quattro anni dopo: alla vigilia, indicarla come outsider per il titolo non richiedeva particolari sforzi di fantasia.
A farle da volano aveva provveduto anche il Videoton, sconfitto solo nella doppia finale di Coppa Uefa del Real di Butragueño-Michel-Santillana-Gallego-Valdano, giusto per limitarsi agli ultimi cinque della filastrocca.
Piccolo dettaglio: la stagione era quella tragica dell'Heysel. Quindi l'ultima coi club inglesi in gara, il che aumenta il valore di tale risultato.
Il suo status era simile - ma con argomenti all'apparenza più solidi - a quello della Colombia negli anni '90, quando i sacchiani
à la Padovan relegavano nel ghetto del patetico e dell'incompetente chi non considerava Valderrama, Rincón e il pretenzioso 4-2-2-2 di Maturana come la nuova frontiera del calcio.
Finì come per tutte le idee portate avanti da questa intellighenzia di cialtroni: con una doppia eliminazione al primo turno ('94 e '98), sulla quale non mi va di scherzare oltre solo perché quella vicenda richiama obbligatoriamente alla memoria il nome di Andrés Escobar (una prece).
L'Ungheria dell'86 sembrava assai meno aleatoria come candidatura, grazie a un portiere sulla carta assai quotato (László Disztl, una preforma un po' più slanciata del rugbista francese Chabal) e una difesa con interpreti moderni dei rispettivi ruoli, in cui molti volevano vedere gli eredi dei celebri terzini magiari di un tempo.
La vera macchina da guerra partiva, però, da metacampo in su: Kiprich giocava alla destra del tridente sdoppiandosi sia verso mansioni di raccordo alla Rambaudi sia verso quelle di centravanti aggiunto, grazie anche a una discreta elevazione.
Tibor Nyilasi popolava già da qualche anno le fantasie italiane, un po' spauracchio un po' oggetto del desiderio quando ai giocatori dell'Est non era quasi mai consentito trasferirsi all'estero: sorte simile a quella di László Bölöni, delizioso fantasista di etnia ungherese ma impostosi con la maglia della Romania e il nome di Ladislao Boloni.
Esterházy, transitato nell'orbita dei nostri club (in Coppa Uefa) con l'AEK Atene, era un attaccante esterno particolarmente abile nello sfruttare gli spazi aperti dalla punta centrale.
Alle loro spalle, la cerniera di centrocampo veniva impreziosita da due mezzali di pregevole qualità come Nagy e, naturalmente, Detari.
Sulla carta una macchina da gol, magari con qualche rischio di troppo.
Sul campo la comparsa fatta a pezzi da un'URSS mostruosa e una fortissima Francia: due avversarie di indiscusso livello alle quali, però, persino la cenerentola del gruppo (il Canada) aveva opposto maggiore resistenza.
Da allora il calcio ungherese è sparito, inviando al massimo qualche oscuro professionista verso campionati di secondo piano come quello belga.
Il campionato? Inesistente. Tant'è che, in occasione di una partita contro l'Italia, proseguì tranquillamente nell'indifferenza generale perché non forniva uno straccio di riserva neppure a una Nazionale allo sbando.
I recenti sussulti parlano di una vittoria contro gli Azzurrini di Francesco Rocca nel Mondiale Under 17 e di qualche talento dagli esiti sinora dubbi.
Fra parentesi Koman, quando arrivò alla Sampdoria nel 2006, era ucraino: venne naturalizzato in seguito perché di origini ungheresi - come altre famiglie rimaste nella Rutenia Subcarpatica dopo l'ultima guerra, quando la regione passò della Cecoslovacchia all'URSS in seguito a una rettifica del confine - e immigrato in Ungheria con la famiglia da bambino.
Perché, dunque, un crollo così rovinoso? Analizziamo alcune possibili concause:
- LA TATTICA La tesi di Puhl, intesa soprattutto come incapacità di adattarsi ai tempi. Tutt’altro che campata in aria, se si pensa che l’evoluzione del calcio dopo gli anni dell’
Aranycsapat ha riguardato in particolare l’intensificazione della fase difensiva.
Il catenaccio, il libero, i grappoli di uomini attorno al portatore di palla con cui l’Olanda di Cruyff irretiva l’avversario, l’italianismo illuminato e modernissimo di Bearzot, il pressing asfissiante da Sacchi in poi non sono tutti tentativi per rendere la fase difensiva sempre più metodica e implacabile, fino a farne la base del gioco e della sua efficacia?
Nulla di tutto questo è penetrato nel calcio ungherese, che ha continuato ad ammassare qualità nelle prime due linee lasciando il resto ad avventurosi uno contro uno.
Sarebbe stato improponibile schierando i campioni del tempo che fu, contro strategie offensive ormai troppo sofisticate, figuriamoci coi mediocri pedatori ormai a disposizione in quei ruoli.
E con terzini estetizzanti, più impegnati a imitare la falcata dei loro predecessori con le maglie 2 e 4 che a marcare e difendere, non si va molto lontano
- IL RITMO Ripercorrendo la leggendaria prestazione dei ragazzi di Lobanovsky, si ha la sensazione di assistere a una gara tra una Ferrari e un uomo, neppure troppo in salute, a piedi.
Inizialmente si è portati ad attribuire il tutto al divario tecnico e tattico; poi ci si rende conto che la differenza di velocità non è percepita, ma reale.
“Il motore del 2000” (cit.), montato su un impianto di gioco avveniristico, contro uno stinto valzer d’epoca.
Mentre Detari e compagni tentavano di palleggiare a metacampo in maniera quasi scolastica, i Velociraptor avversari erano già in porta: difficile competere a queste condizioni.
Si spiega così, fra l’altro, il risultato ottenuto contro il Brasile di allora, non ancora europeizzato e non certo portato a stroncare gli avversari sul piano della corsa.
Anche qui la spiegazione di Puhl regge, riferendola sia all’arretratezza culturale sia alla scarsa professionalità nella preparazione atletica
- IL FATTORE ECONOMICO La caduta del Muro è risultata fatale anche ad altre scuole calcistiche, ad esempio quella della DDR.
Prima: il gol di Sparwasser, la Coppa delle Coppe vinta dal Magdeburgo, la rimonta del Carl Zeiss Jena, il percorso netto (2-0, 2-0) della Dynamo Dresda di Sammer e Kirsten sempre contro gli escrementi.
Dopo: fallimenti in serie, le vecchie Dynamo Berlino e Lokomotiv Lipsia – primo campione di Germania della Storia, sia pure con altra denominazione – sparite o quasi nelle serie inferiori, una presenza prima sparuta e poi nulla nella Bundesliga, senza alcuna prospettiva di affacciarsi nelle posizioni di testa.
A Budapest e dintorni è andata più o meno così, con un’aggravante: la svendita selvaggia delle risorse nazionali, triste spettacolo andato in onda in quasi tutto il mondo post-comunista, ha preso in larga misura la via dell’estero.
A fronte di una situazione per certi versi non meno grave rispetto a quella della Russia eltsiniana, è mancato l’accumulo più o meno indebito di risorse nelle tasche di oligarchi con interessi – anche di immagine – all’interno del Paese.
Un’Ungheria ridotta a crocevia di capitali da e per oltrefrontiera, e col pallone esposto in una vetrina sempre meno attraente – vedi il punto successivo –, non rappresentava il terreno più fertile per far nascere un Abramovich
- IL SORPASSO DEGLI ALTRI SPORT Oltre a quanto appena esposto, in Ungheria è successo qualcosa di più specifico: di fronte ad un’epocale rimescolata al mazzo e alle nuove opportunità che portava con sé, altri sport di grande tradizione nazionale come la pallanuoto e la scherma hanno saputo cogliere l’occasione, mentre il calcio ha continuato il proprio sonno anche a livello dirigenziale.
Risultato: i giovani atleti più brillanti hanno smesso di orientarsi verso il pallone, preferendo discipline in grado di inserirli in strutture organizzative più efficienti e di offrire sbocchi concreti.
Una dinamica devastante, cui solo la saturazione del settore negli sport più seguiti ha posto in parte rimedio: ma dedicarsi al calcio rimane per ora un semplice ripiego.
Per un movimento già sofferente, la perdita del bacino d’utenza interno ha rappresentato un colpo dal quale non sarà facile riprendersi
A chi paragonare, in ultima analisi, l’Ungheria calcistica attuale? Forse all’Estonia, capace di piazzare una medaglia d’oro olimpica nel ciclismo (Erika Salumae a Barcellona 1992, con la maglia della Comunità degli Stati Indipendenti) prima che la sua indipendenza venisse riconosciuta anche in ambito sportivo, ma così disinteressata al pallone da lasciarlo alla minoranza russofona.
Lì lo sport nazionale rimane il basket, che in riva al Baltico conobbe prima della guerra un vero e proprio monopolio: 1935 Lettonia, 1937 Lituania, 1939 Lituania, recita l’albo d’oro prebellico dell’Europeo di pallacanestro.
Piccolo dettaglio: l’Estonia non ha
mai avuto una tradizione calcistica. L’Ungheria...
P.S. A proposito di brasiliani d’Europa: per tale denominazione compete anche la Georgia, che prima di diventare uno Stato indipendente aveva già piantato la propria bandiera sull’atlante dello sport vincendo la Coppa delle Coppe con la Dinamo Tbilisi e fornendo un buon numero di uomini alla rappresentativa sovietica di rugby.
Ne diedero una rara dimostrazione in una gara di qualificazione a Euro 1996, dove la generazione dei Ketsbaia, dei Kinkladze, dei Kavelashvili, dei fratelli Arveladze rispedì a casa il Galles con un traumatizzante 5-0.
Purtroppo il caos permanente nel Paese, le conseguenti ricadute a livello organizzativo e lo scarso interesse per la Nazionale hanno impedito loro di dare continuità a premesse non banali.