Vabbè, lassamo perde le elezioni e parliamo di una (felicissima) ricerca che mi sta appassionando da quasi due anni.
Se andate a digitare su google il nome di Alberto Grapputo ci troverete scritto: "Genio e sregolatezza: Alberto Grapputo e il suo Ariberto Furioso / Mario Cavazza. - [4] c. : ill. ; 30 cm. ((Estr. da: Almanacco storico carmagnolese. - Carmagnola: Scolastica editrice, 1996. P. 19-22" e niente altro.
Al massimo, frugando ancora, ci potete trovare il nome di sua figlia Annarita, la bellissima ragazza Algida-cuore-di-panna del Carosello che fu e poi attrice di un qualche successo dei primi anni settanta di un paio di film di Lizzani. Poi niente altro.
Dell' Ariberto, tranne una decina di ottave pubblicate nell' almanacco di cui sopra, niente di niente.
Uno strepitoso poema cavalleresco iniziato nella prima metà degli anni quaranta e terminato un decennio dopo e che sembra un affresco dipinto quattro mani dal Tassoni e dall' Ariosto, perso o sepolto chissà dove.
Un pozzo senza fondo di ironia e di autoironia scavato da un genio folle che considera se stesso, la politica ed il potere di un mondo che l' opprime e lo assedia, attraverso la lente della sua sessualtà bislacca, ingenua e disperata, i cui pezzi di manoscritto, dietro le indicazioni di Mario Cavazza, un pittore novantaduenne dalla memoria spettacolare, sono riuscito a reperire parte a casa di un avvocato carmagnolese, parte a casa di sua figlia a Roma e parte nella biblioteca di un vecchio maestro elementare a Sgurgola, e che ho pazientemente trascritto (ora mi sto giocando le ultime diottrie terminando di copiare le note esilaranti in calce ad ogni pagina) e poi regalerò l' opera completa alla biblioteca comunale di Carmagnola.
In appendice al poema una lettera ad uno dei suoi amori sparpagliati per la Penisola e una serie di ottave intitolata "La morte del Doge" in cui preconizza un paio di mesi prima dei fatti di Piazzale Loreto la morte di Mussolini, responsabile indiretto della morte dell'omologo (reale, non immaginario!) dell' Angelica ariostesca.
P.s.
Grapputo è stato un grecista appassionato, allievo di Lorenzo Rocci, e, nella sua parentesi romana, amico e frequentatore di Trilussa, Taggi, Pascarella, Jandolo eccetera, insomma del Gruppo dei Romanisti (intendo dire quello vero, che niente ha a che spartire con la monnezza trigoriese), e morto prematuramente in seguito agli strascichi di una affezione polmonare contratta in Russia durante l'infausta campagna che travolse migliaia di ragazzi della sua generazione.
Dice: e perché starobba la posti qui?
...
E perché no?
Grapputo era un genio sregolato quindi a questo punto mettere qualcosa di suo a Villa Scorciosa è d' uopo assai.
Metto qui il prologo dell' Ariberto e poi la morte del Doge.
Quell’ io che d’ Ariberto un dì cantai,
mesto, in riva al bel fiume, il furor grande,
e per più dì le donne disprezzai
preferendo alla vulva il rozzo glande,
oggi, fatto virìl, peno d’assai
a trattenere dentro le mutande
l’asta di Marte che ne balza fuora
quand’ io veggio mia donna, ed altre ancora.
LA MORTE DEL DOGE
Quando seppe, Ariberto, errare ormai
sulle sponde di Stige il giovinetto,
in orribili grida e in alti lai
tosto proruppe, e si percosse il petto:
“Dunque per questo udire attraversai
-dicea il tapin- di Cadice lo stretto;
per sentire ch’ iniqua è a me la sorte
ed il Doge d’ Italia a te diè morte?”
…………………..
Il testo è mutilo. Indi riprende così:
……………….
E pensa già qual sia più degna sorte
per chi privollo di cotanto bene:
se in cul gli debba con maniere accorte
porre di notte un affocato pene;
troppo dolce gli par ciascuna morte
e più supplizi immaginando viene
or, veggendo l’ oriol con la catena,
un mirabil progetto in lui balena.
Son le cose del mondo in guisa fatte
che l’ ugual appetisce a sé l’ uguale
così vediam che ‘l fulmine s’ abbatte
sovra la piante che più alta sale;
la concorde natura è di siffatte
cose la legge: orben, se nel pitale…
Quivi si tacque, e di stregone prese
l’ abito e il volto, e in Campidoglio ascese.
E di là, ritto al prosternato gregge
de l’ italiche genti egli dicea:
“Venite a me, la cui sapienza legge
l’ avvenir dei mortali.” E sorridea
il Doge allor, che de l’ Italia regge
gl’ infelici destini, anzi reggea,
quando dai vetri lo stregone scorse,
come donnetta, curïoso accorse.
E fendendo la folla: “Olà –gridava-
libero il passo a chi l’ imper vi diede!”
La turba qua e là tutta ondeggiava
come irato talvolta il mar si vede;
quegli a passo roman così marciava
ch’ ora a questo ora a quel fiaccava il piede;
giunse infine a la vetta, ove l’ attende
il falso vate in usurpate bende.
Quel fellon che il signor si vide avanti,
tutto di ferro e d’ alterigia armato,
ben potete pensar come tremanti
sentì le gambe, e tutto il cor turbato;
anzi, gli uscì dagli sfinteri affranti
un romoroso e pestilente fiato,
onde il Doge esclamò: “ Ben parla in lui
nume presente, e profetizza a nui!”
Ben vorrebbe saper ciò che l’ aspetta
il panciuto signor dal rio governo,
e l’ indovino impazïente affretta
che del buio avvenir gli apra il quaderno,
ma quei risponde: ”A fin che sia perfetta
l’ opera nostra, un mio desir t’ esterno,
ed è che lungi da le turbe un poco
con me tu venga in solitario loco.
Se cosa ingrata io ti dicessi mai,
mi saria da costor la vita tolta,
e che il sol torni a riveder giammai
chi morto fu non accadde altra volta;
ancor convien che tu ti bendi i rai,
che ad occhi aperti oracol non s’ ascolta:
e di ciò essemplo è certo più felice
la leggenda d’ Orfeo e d’ Euridice.
Ma perché più di me stima tu faccia,
un po’ ti vo’ de l’ avvenir svelare:
primieramente da quest’ esil traccia
a vita eterna ti convien passare;
questo vuol dir che mai non fia che taccia
la fama tua, ma sempre a risonare
avrà lo nome tuo per tutti i liti,
e nell’ Ade puranco, e in altri siti.
E ciò perché le mani insanguinasti
in un fanciullo dalle bionde chiome,
e dispietato a morte lo mandasti
che de la madre avea sul labro il nome.
Ed è legge fatal scritta negli astri
che chiunque ferito gli ha l’ addome,
sia d’ ignobile razza o cavaliero,
in un lampo assoggetti il mondo intero.
Così d’ Etiopia il caldo imper riavrai
e dell’ Ivrìst ancor le fredde cime
e i deserti d’ Arabia e il Paraguaj
e del Fuherer torrai le spoglie opime.
Il tapinel che un dio si sente ormai,
le gote gonfie ed il pancion sublime,
ride il falso indovin che presso vede
la sua vendetta, e trionfar già crede.
Così parlando, appresso a sé lo tira,
che dietro a domator par lion forte,
e intorno a sé l’ occhio prudente gira
che non vengan milizie od altra corte.
Fuor de la calca alfin, fuor d’ ogni mira
escono, e lascia l’ Aureliane porte;
bendato è Il Doge, e lì indovin qui vuole
che per l’ ultima volta ei veda il sole.
Perciò lo sbenda, e verso l’ occidente
volger lo fa, dove Ocean si vede:
“Questo sol che tramonta, o re possente,
lieto presagio a te Giove concede:
Come lui la tua fama ad altra gente
presto n’ andrà, com’ esso a lei rïede,
perciò fa core e i miei consigli ascolta,
e chiudi gli occhi per l’estrema volta.
Condotto là dove s’ innalza un cesso
ben costruito, e corre intorno un muro,
e vi spinge col capo il Doge istesso
nudo e senz’ arma e sol di sé securo.
“Quivi vedrai -egli dice- a te confesso,
dispiegato e real tutto il futuro,
e se puzzo o romore od altro senti,
il magnanimo cor non si spaventi.
Ma curva il dorso, e più e più ti spingi,
col capo che d’ allor fia coronato,
e quell’ occhio aquilino apri e sospingi
che l’ italica gente ha soggiogato.”
O misero, o infelice, a che t’ accingi?
Ecco ove t’ ebbe ambizïon portato!
Il fellon, che lo vide arcuar la schiena,
ratto si scosta, e tira la catena.
Vien l’ onda irosa, e gorgogliando inonda
il vaso sì che nessun grido vale,
spumando cresce, e quella testa immonda
da tutti i lati furïosa assale:
il Maestroom che le navi circonda
nel gorgo suo non ha potenza uguale,
ed il Doge, o lettor, ch’ è tutto merda,
nel bidòn, alla fin, convien si perda.
Convien che muoia e a la gran madre antica
sparso ritorni, e ne gioisca il mondo;
quell’ elemento che di sé nutrìca
le fogne e i campi e fa il terren fecondo
lo riceve esultando, e par che dica:
“Ben sé tornato, o mio figliol giocondo!
Oggi tutto si purga, e negli stalli
molto sterco di più fanno i cavalli.”