Ammiraglio, sempre col massimo rispetto per la tua e altrui opinione: ma credi veramente a favole assassine come l'esportazione della democrazia?
O fingi di non vedere che, fra Gheddafi e ominidi come la merde de Paris, l'uomo di Stato con un minimo di credibilità e serietà è ancora il primo?
Non parlo da estimatore del defunto colonnello, ci mancherebbe. Si tratta pur sempre di colui che ha cacciato gli Italiani dalla Libia, privando fra l'altro il Paese di una minoranza fondamentale per le competenze che poteve mettere a disposizione: di lui ricordo soprattutto questo, e il mio unico dispiacere è che a registrare l'ultimo grugnito della sua maleodorante esistenza non siano stati dei nostri connazionali.
Si tratta pur sempre di un criminale conclamato, del quale si dimenticano le angherie riservate ai migranti prima di rovesciarli sulle nostre coste come strumento di pressione: non a caso i loro racconti concordano nell'identificare la tratta compiuta in mano ai libici come la più disumana e umiliante nel loro percorso.
Ma il problema ora non è cosa pensiamo di Gheddafi, bensì cosa accadrà dopo di lui: democrazia? Libertà? Futuro? Non siamo ridicoli.
Nel mondo arabo la democrazia è un discorso prematuro per numerosi motivi, molto diversi dalla presunta inadeguatezza di quelle popolazioni ai sublimi modelli occidentali e molto più mirati rispetto alle immancabili considerazioni di carattere religioso-civile.
A mancare sono due premesse fondamentali: la pubblica opinione e l'iniziativa privata.
Quanto alla prima, in Egitto non pochi credono in piena buona fede che il responsabile di problemi non esattamente riconducibili a logiche militari o di intelligence - la presenza di squali nel Mar Rosso o la perdita di fertilità della terra nel Delta del Nilo, per dire - sia il Mossad.
C'è una e-generation motivata e promettente anche più della nostra, senza dubbio, ma non sufficientemente numerosa e compatta per costituire massa critica e compensare amenità come quelle appena citate.
Peggio ancora sul secondo fronte, dove le uniche istanze "private" vengono da aspiranti uomini d'affari più vicini all'idealtipo dell'oligarca russo che a un'economia di mercato presentabile.
Da parte dei "piccoli", che ne dovrebbero costituire l'ossatura, nessun segnale di vita: decenni di socialismo malinteso, più la dissuasione burocratica nei confronti di chi intendesse muovere una foglia in tale ambito, hanno atrofizzato la concezione di tutto ciò che attiene all'economia, riducendola a un'emanazione dell'onnipresente Stato che ci si può solo limitare a subire.
Declinando i sacri (?) principi del liberismo a tanti "arabi medi" il rischio non è quello di non essere seguiti, ma di non essere neppure capiti.
Un conto è auspicare maggiori libertà, limitare le violazioni dei diritti umani, promuovere uno sviluppo che intercetti l'unica vera istanza condivisa e interclassista, vale a dire un avvicinamento al nostro stile di vita e alla sua componente consumistica.
Ma questo, almeno per ora, può venire solo da regimi e luogotenenti più evoluti rispetto a quelli della passata generazione: di democrazia, responsabilizzazione del cittadino e tutto il resto si può parlare solo in termini di progetto a lunghissimo termine.
Nel caso della Libia intervengono, poi, alcune aggravanti. Se Tunisia ed Egitto possono essere considerati nelle loro strutture di fondo come Stati perieuropei, che altre variabili interne provvedono a distinguere dalla nostra parte di mondo, per l'ex "scatolone di sabbia" è difficile identificare persino una struttura statuale degna di tale nome.
La ridottissima densità di popolazione, le modalità abitative solo in parte urbane o rurali, le distanze interne, il groviglio di suddivisioni tribali definiscono qualcosa di irrimediabilmente non assimilabile al concetto di Nazione che siamo soliti associare sbrigativamente a un Paese sovrano sulla carta.
A questa realtà si è tolto l'unico e pur discutibile collante, rappresentato appunto dalla "Grande Jamahiriya", disegnando così lo scenario di un'apocalisse: la dissoluzione di fatto non del vecchio regime, ma di ciò che rimaneva dello Stato libico.
Cosa significa tutto ciò per il futuro e la libertà - non il partito di Fini: almeno quello per ora se lo sono risparmiati - di quelle genti non è difficile da immaginare: armi in circolo a gogò, unite all'incontrollabile retroterra desertico in cui mimetizzarsi con l'aiuto delle tribù dopo aver colpito, costituiscono l'habitat ideale per la cronicizzazione di un conflitto tutti contro tutti e l'inevitabile affermarsi di signori della guerra - magari lo stesso Seif-al-Islam, se non è morto o non preferisce godersi i soldi all'estero? - o loro stretti parenti.
Qualcuno ha detto "Afghanistan"? Beh, è ancora ottimista. Perché le condizioni al limite della sopravvivenza per la maggior parte della popolazione, e la decomposizione ancor più pulviscolare di qualsiasi struttura aggregante, evocano lo spettro di quella catastrofe che per pura convenzione chiamiamo ancora Somalia.
Riassumendo: avevamo un pur ripugnante alleato, che ci garantiva una discreta collocazione nell'accesso a risorse petrolifere di altissimo livello qualitativo e un minimo di stabilità oltremare.
Ci ritroviamo il disastro di cui sopra e milioni di disperati alle porte, più un riposizionamento sullo scacchiere dell'oro nero che difficilmente (eufemismo) si rivelerà vantaggioso per noi.
Il tutto nella partecipazione alla festa dopo prove tecniche di 8 settembre libico condotte al riparo "dell'Europa", "dell'ONU", dei "diritti umani"... di tutto tranne che di un briciolo di dignità, di iniziativa autonoma e di considerazione per l'interesse nazionale.
Nulla di strano quando si ha per classe dirigente una pariniana parata degli imbecilli i cui componenti, come confermato nelle intercettazioni, da soli non sono neppure in grado di andare a puttane.
Da oggi italiani e libici tornano ad essere connazionali, come qualche decennio fa: entrambi cittadini di uno Stato che non c'è più.