Autore Topic: Quel “cimelio” a Belgrado che ricorda la vergogna delle bombe vent’anni fa  (Letto 1092 volte)

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Offline AlenBoksic

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  • Belgrado: se non la ami, non ci sei mai stato
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Nel fossato della rocca di Kalemegdan che da sempre a Belgrado funziona come museo a cielo aperto delle guerre passate, da qualche giorno fra i cannoni del primo conflitto mondiale ed il piccolo carro armato catturato all’esercito italiano è comparsa una rampa mobile per lanci missilistici. È un arnese di fabbricazione russa a cui è legata una piccola, indimenticabile impresa: il famoso abbattimento dell’F117 Nighthawk americano, il cosiddetto “aereo invisibile”, buttato giù il 27 marzo del 1999, quando la campagna di bombardamenti della Nato era iniziata da appena tre giorni.

Poche ore dopo quel fatto, in Serbia cominciarono a circolare distintivi con l’immagine del jet americano e l’ironica scritta “Scusate, non sapevamo che fosse invisibile”, ma oltre a provocare imbarazzo nell’Alleanza quell’episodio in qualche modo determinò le sorti di tutto un Paese: da quel momento in poi, gli alti comandi dell’Alleanza decisero che le missioni dei “caccia” si svolgessero da non meno di tre chilometri di altitudine, con la conseguenza che da allora in poi l’identificazione dei bersagli si fece molto casuale. In altre parole, se i missili lanciati da così in alto nel cielo potevano colpire agevolmente aeroporti e centrali elettriche, da quell’altezza diventò difficile distinguere i bersagli più piccoli, e così si cominciarono a vedere autobus distrutti perché scambiati per convogli militari, stragi di civili su treni passeggeri “colpiti per errore” e perfino un convoglio di trattori di rifugiati albanesi devastato poiché poteva sembrare una colonna di carri armati.

Quasi vent’anni dopo, rileggendo la storia della più controversa campagna militare mai condotta dall’Alleanza Atlantica con la distruzione sistematica di un intero Paese, si capisce meglio come quella non sia stata solamente un’autentica idiozia sul piano etico e politico, ma anche una sorta di gioco condotto male, di cinico “wargame” nel quale insufficienze, errori tragici e gravi disfunzioni organizzative vennero coperti da una campagna di disinformazione martellante, che pure non riuscì a raggiungere pienamente i suoi scopi.

Jamie Shea, allora agguerritissimo capo della comunicazione della Nato, anni dopo ha confessato: “I generali pensavano che dopo due o tre giorni di incursioni, una settimana al massimo Milošević avrebbe capitolato, e invece non andò così…”. Quel che restava del vecchio esercito jugoslavo non era certo in grado di opporsi all’attacco concentrico di tredici Paesi, ma questo i generali di Milošević lo sapevano bene e dunque adottarono da subito quasi una tattica di guerriglia: i radar venivano spenti per confondere i missili nemici, i soldati restavano nei bunker, anziché muovere i carri armati i serbi disseminarono il terreno di sagome in legno con dentro stufette elettriche che con le loro onde attiravano missili teleguidati. Uno dei risultati fu che al termine dei bombardamenti la Nato denunciava duecento carri nemici distrutti, mentre in realtà furono in tutto dodici. E per colpire ciascuna di quelle sagome veniva impiegato un ordigno che allora costava quasi due miliardi delle vecchie lire.

Questo però è solo un piccolo elemento della gigantesca farsa bellica. All’Italia, per esempio – che pure in quel momento aveva un primo ministro come Massimo D’Alema e nella quale quattrocentomila persone erano scese in piazza contro l’ intervento – la partecipazione a quella campagna decisa contro il divieto delle Nazioni Unite costò almeno 61 miliardi, e nessuno è mai riuscito a calcolare il suo costo complessivo per l’Occidente. Un po’ più chiare invece sono le cifre sui danni subiti dalla popolazione serba.

Due mesi di incursioni continue che dagli aeroporti e dalle basi militari presto si spostarono su raffinerie, ponti e perfino ospedali per infine dirigersi senza alcun ordine verso le installazioni civili ed alla fine si stimò che la Serbia avesse subito “danni diretti” per almeno quattro miliardi di dollari, oltre a 2,3 miliardi di “perdite di capitale umano” e ad un crollo del prodotto interno di 23,2 miliardi , il che porta il totale ad una trentina di miliardi. Ancora più terrificante era costo stimato dal G7 per la ricostruzione del Paese: secondo i Paesi più industrializzati dei mondo, per rimettere in piedi la Serbia sarebbero stati necessari circa 190 milioni all’anno per vent’anni, ma i vent’anni sono passati e la Serbia è ancora in ginocchio.

Fino a questo punto però abbiamo parlato di cifre, ma se invece esaminiamo gli effetti politici di quella campagna il bilancio si fa ancora più vergognoso . La campagna fu decisa per ragioni “umanitarie”, allora si disse che bisognava impedire il genocidio degli albanesi del Kosovo. Bene: le cifre vere oggi raccontano che in tutto il 1998 nella regione che oggi è diventata indipendente c’erano stati 1007 morti, e che quasi il sessanta per cento di quelle vittime era stato rappresentato da contadini e poliziotti serbi.

A far scattare la dichiarazione di guerra fu la cosiddetta “strage di Račak” il 15 gennaio 1999 i kosovari albanesi denunciarono l’assassinio di 45 civili, fra cui dei bambini, da parte dell’esercito serbo. Non molto tempo dopo, divenne chiaro il fatto che i corpi di quegli sventurati erano stati portati a Račak da zone diverse dopo scontri fra reparti serbi e guerriglieri dell’Uck per simulare il massacro. E forse per rendere lo spettacolo ancora più raccapricciante qualche corpo era stato aggiunto all’ultimo momento con una pallottola nella nuca.

Ancora: l’obiettivo dichiarato di quella campagna era di far crollare il regime di Milošević, mentre si ottenne il risultato opposto, quello di ricompattare intorno all’orgoglio nazionale un Paese che fino ad allora mal sopportava il suo presidente. Appena qualche anno prima, trecentomila persone avevano marciato per settimane nel centro di Belgrado per chiedere che “Sloba” se ne andasse, ed a quella stessa gente toccava scoprire che l’Occidente adesso le tirava dei missili in testa e distruggeva il suo Paese. Giusto per dare un’idea dei risultati di quella gigantesca idiozia, ancora oggi oltre l’ottanta per cento dei serbi si dichiara contrario ad entrare nella Nato, e la reazione è più che ovvia.

Fra l’altro, dopo tutti quei disastri Milošević non cadde affatto, e per raggiungere lo scopo un anno più tardi si dové mettere in piedi una delle tante “rivoluzioni colorate” che almeno non fecero vittime. Tanto per completare il quadro, andrebbe aggiunto che molti anni dopo Milošević sarebbe stato assolto “post mortem” dal tribunale Internazionale dell’Aja, ma questo oggi diventa un dettaglio di fronte alla tragedia che si è abbattuta sulla Serbia.

Vogliamo ricordare anche le perdite umane? La campagna Nato uccise un po’ più di cinquecento civili serbi, e la prima vittima fu una bambina di tre anni raggiunta dalla scheggia di una bomba mentre era seduta sul vasino, e gridano ancora vendetta i diciassette giornalisti e tecnici uccisi dai missili lanciati sulla sede della televisione di Stato. Nessuno ha mai indagato a fondo sull’utilizzo e gli effetti dei proiettili ad uranio impoverito, ma è abbastanza evidente il fatto che hanno seminato morti soprattutto fra i militari d’Occidente che subito dopo le incursioni si stanziarono in Kosovo. E forse continuano a farlo.

Sarebbero centinaia gli episodi feroci e grotteschi che oggi tornano alla memoria, ma si scivolerebbe in un reducismo inutile.

Mettiamola così: ripercorrendo a mente fredda la storia di quei bombardamenti, il bilancio dell’operazione “Allied Force” ( già, fu chiamata così) può essere solo quello di un’inutile vergogna che rimane scolpita nella storia.
GIUSEPPE ZACCARIA
https://ytali.com/2017/03/26/quel-cimelio-a-belgrado-che-ricorda-la-vergogna-delle-bombe-ventanni-fa/
Voglio 11 Scaloni

Offline MCM

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Oggi sono stati arrestati jihadisti che preparavano attentati a Venezia.
Tutti kosovari.

Giustamente noi abbiamo bombardato i serbi per importare queste bellissime risorse.