Autore Topic: Calcio jugoslavo, una storia gloriosa  (Letto 5858 volte)

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Offline AlenBoksic

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Calcio jugoslavo, una storia gloriosa
« : Mercoledì 1 Giugno 2016, 19:45:35 »
Se il calcio è lo specchio di un popolo, quello jugoslavo ha regalato immagini di grandezza, classe finissima e miseria umana, sempre in bilico tra il mito dolce-amaro di trionfi sempre vicini e quasi mai raggiunti
Quando gli fu chiesto di designare un’avversaria per la sua partita d’addio con la nazionale, lui non ebbe alcuna esitazione. Nemmeno davanti allo stupore dei dirigenti della Federazione calcistica brasiliana, che le provarono tutte pur di convincerlo a procrastinare l’evento, o almeno a selezionare uno sparring partner più blasonato. Niente da fare, la decisione era presa. E la scelta era caduta sulla compagine che per storia e natura più si avvicinava alla sua idea di calcio, al “suo” Brasile. L’incontro amichevole si tenne, come previsto, il 18 luglio 1971, di fronte a duecentomila spettatori, in un Maracanà che traboccava lacrime di orgoglio e di rimpianto. Lui si chiamava Edson Arantes do Nascimento. Per i non intenditori: Pelè. La squadra che scese in campo quel giorno contro i verdeoro era la Jugoslavia. Per i tassonomici: finì 2-2.
Tra gli amanti della disciplina si è soliti dire, o dare per scontato, che il calcio, inteso come espressione estetica che diventa fenomeno popolare, sia lo specchio di un paese, che traduca in un linguaggio universale attitudini e stilemi di un’intera comunità nazionale, mettendone a nudo le componenti ataviche, vere o presunte, sacre o pagane. Che nel calcio si proiettino non soltanto vocabolari emotivi e aspettative più o meno legittime o razionali, ma anche criteri di appartenenza, istanze identitarie, archetipi condivisi. E tuttavia, quando simboli e destini di una nazione paiono seguire le traiettorie di una sfera di cuoio, finiscono talvolta per evidenziare contenuti paradossali, riservando esiti inattesi. In questo senso la storia calcistica della Jugoslavia non fa eccezione, anzi, diventa vicenda paradigmatica. Con un dettaglio tutt’altro che trascurabile: già in epoca non sospetta la macchina del football preconizza l’epilogo tragico di un’esperienza collettiva a metà strada tra la realtà e l’utopia, al culmine della quale, però, quella stessa macchina si rifiuta di assecondare il disegno della Storia – o di chi ne fa arbitrariamente le veci ‑, prova a sottrarsi fino all’ultimo al suo abbraccio mortale.
Per il suo essere stata una regione tra due mondi, per la sua composizione multiforme e frammentaria, per il particolarissimo mosaico sociale e culturale che ha saputo configurare, la Jugoslavia ha potuto annoverare, tra le tante specificità, una scuola calcistica autoctona rivelatasi un serbatoio inesauribile di talenti. Un modello distante anni luce dall’organizzazione tattica militaresca e dall’atletismo spinto delle compagini del blocco socialista, ma anche dalla predominanza muscolare dei tedeschi, dall’inveterato difensivismo italico, dal classico giropalla iberico (di cui il recente tiki-taka è solo una più scientifica messa a punto), e soprattutto alieno dalle varie elaborazioni del modulo Chapman, o dalla concezione “totale” dell’Olanda anni settanta.

Un calcio unico

Il calcio jugoslavo ha rappresentato un unicum, un’inedita combinazione di geometria e fantasia, un ordinato componimento da spartito intervallato da improvvise jam session. Un calcio pulito ed elegante, sofisticato e incostante, votato alle giocate di pregio e alla tecnica individuale, dalle trame ipnotiche e dalle fulminee verticalizzazioni, che ha dato spazio a straordinari quanto fragili solisti inquadrati in un’orchestra dai ritmi compassati e dall’insana abitudine allo sperpero. Un certo virtuosismo mitteleuropeo, che tracima in un lezioso senso di superiorità, si è fuso con l’estro malinconico e l’anarchia dissipatrice che caratterizzano il verace spirito balcanico.
Da questo connubio ha preso forma il futebol bailado d’Europa, e non è un caso, né solo il frutto di un’ironica e sfrontata emulazione, che gli stadi di Rio de Janeiro e Belgrado portino lo stesso nome. A questo intreccio di affinità elettive, due dettagli decisivi hanno distinto i campioni slavi dai loro cugini d’arte brasiliani. Il primo è condensato nel verbo nadmudrivati, di per sé intraducibile, che denota un “giocare con astuzia”, un prendere atto della supremazia naturale dell’avversario superandolo con furbizie e malizie degne dell’eroe omerico, e in cui però la pervicace volontà di rimirarsi può diventare il preludio di un’imminente quanto inevitabile disfatta. Il secondo è molto più semplice e attinge a un dizionario comprensibile a tutti: arrestarsi sempre a un passo dalla vittoria, trasformare l’epos in melodramma e inchinarsi così alla dura legge di Eupalla. Come se prima del salto finale verso l’Eden cedesse puntualmente la pedana; come se la genialità non potesse mai smarcarsi da amnesie e ingenuità.
È questa la chiave di lettura che offrono del calcio jugoslavo due recenti pubblicazioni, entrambe dai titoli emblematici: A un passo dal Paradiso. Il calcio slavo, gli artisti dei Balcani rivali della Storia di Fabrizio Tanzilli (Ultrasport, pp. 144, € 15,00) e Il Brasile d’Europa. Il calcio nella ex Jugoslavia tra utopia e fragilità di Paolo Carelli (Urbone Publishing, pp. 128, € 12,00). Due volumi agili quanto pregevoli, che puntano i riflettori su uno dei fenomeni sportivi più eclettici e interessanti del Novecento.
Il libro di Tanzilli è una puntuale ricognizione storica sul movimento calcistico jugoslavo con particolare attenzione alle vicende della Nazionale e alle due società che di questo movimento hanno lasciato traccia indelebile sulla scena internazionale, il Partizan e la Stella Rossa. Il saggio di Carelli, invece, si sofferma maggiormente sulle vicende interne, sullo stretto legame tra i club più rappresentativi e le città di appartenenza (Spalato e l’Hajduk, Sarajevo divisa tra la borghese FK e il proletario Željezničar, e Belgrado tra il Partizan dell’Armata popolare e la Zvezda dei quartieri popolari, quindi Mostar e il Velež, Novi Sad e il Vojvodina ‑ Zagabria purtroppo non pervenuta), sui talenti duraturi ma anche su qualche bizzarra meteora, con contrappunti extra-sportivi che fanno da necessaria cornice storica e sociale.

Tra Kant e il "Maradona dei Balcani"

Ne emerge un quadro a tinte vivide, un tableau vivant di assi del pallone sacrificati non solo ai bilanci societari, ma a una vera e propria congiura degli eventi. Calciatori "incoscienti e pragmatici, lucidi avventurieri costretti a cambiare continuamente latitudine per rinnovare la propria missione", ma anche uomini-simbolo che hanno legato a doppio filo la propria carriera a una maglia, come le celebri Zvezdine zvezde (le Stelle della Stella), portabandiera della Stella Rossa, tra cui spiccano gli immortali Dragoslav “Šeki” Šekularac, Dragan Džajić e Dragan “Piksi” Stojković, il “Maradona dei Balcani”. Autentici artisti del pallone, per i quali Tanzilli scomoda addirittura Kant, chiamando in causa quel "libero gioco di intelletto e immaginazione produttiva" da cui ha origine il sentimento del bello. Interpreti fuori dai canoni abituali che duellano in punta di fioretto, anteponendo il genio alla forza bruta o all’esecuzione schematica, condannati però al ruolo di romantiche vittime di una Storia che maledettamente si ripete, di una perenne precarietà imposta da un destino crudelmente beffardo.
Va detto che per il calcio jugoslavo la Storia non ha inizio nel 1945, con l’avvento ufficiale del socialismo e del nuovo assetto federale dello stato, e con la nascita delle polisportive volute dal regime. Come raccontato da un recente film di successo, per la regia di Dragan Bjelogrlić, Montevideo, Bog te video (2010), già ai primi Campionati mondiali del 1930 in Uruguay, quella che da soltanto un anno può fregiarsi della denominazione di Jugoslavia, con appuntata sul petto l’ingombrante aquila bicipite dei Karadjordjević, dà del filo da torcere alle migliori formazioni. Una squadra sorprendente, un dream team che gioca con disarmante naturalezza e tra cui spicca Blagoje “Moša” Marjanović, attaccante del BSK Belgrado (antenata dell’odierna OFK) e futuro allenatore in Italia negli anni cinquanta. Un drappello di audaci che nonostante il boicottaggio dei croati (una storia che si ripeterà sessantun anni più tardi) riesce ad arrivare in semifinale contro i padroni di casa, sconfitto, più che dall’ambiente ostile e da un avversario di caratura non certo inferiore, da discutibili scelte arbitrali. Il terzo posto finale rimarrà il miglior risultato mai raggiunto dalla nazionale maggiore alle competizioni mondiali.

Sfida al Destino

Da quel momento in poi prende vita un sentimento tipico di chi sa di poter vincere ‑ ma anche perdere ‑ contro chiunque, e si culla nel narcisismo autoconsolatorio e languidamente vittimista di colui che si crede destinato a vestire i panni di "coprotagonista di una leggenda in corso d’opera", nonché perseguitato da sfortuna e altri fattori più genuinamente umani: il vero contendente comincia a essere il Destino, che riserva ogni volta l’avversario sbagliato al momento sbagliato nel posto sbagliato. La Svezia del mitico tridente Gre-No-Li alle Olimpiadi di Londra del 1948, i brasiliani al Mondiale del 1950, spensierati e ignari di ciò che li attenderà di lì a poco nel celebre maracanaço. O ancora la gloriosa Aranycsapat guidata da Gustav Sebes ai Giochi Olimpici di Helsinki del 1952: i plavi resisteranno oltre settanta minuti, prima che Ferenc Puskás e Zoltán Czibor pongano fine al sogno. La Jugoslavia arriva sempre e immancabilmente seconda, dopo cavalcate irresistibili e avversari spazzati via con disinvoltura e sfoggio di preziosismi. È il mito di Davide contro Golia con il finale rinviato a data da destinarsi. Un mito che si nutre di un capitolo speciale, quello delle sfide contro l’Unione Sovietica, che si ammantano di inevitabili significati extra-calcistici e si portano dietro la rottura tra Tito e Stalin, l’uscita della Jugoslavia dal Cominform e l’orgogliosa e coraggiosa scelta dell’Autogestione interna e del non allineamento in politica estera. Partite sentitissime e combattutissime (indimenticabile il 5-5 di Tampere nel 1952), con il consueto epilogo su cui, da un certo momento in poi, distende inevitabilmente la sua ombra il Ragno Nero, al secolo Lev Jašin.
Gli anni d’oro del calcio nazionale jugoslavo sono senz’altro i cinquanta e i sessanta. Sono gli anni di Rajko Mitić e Stjepan Bobek, di Miloš Milutinović e dell’indimenticato “filosofo” Vujadin Boškov, di Milan Galić e di un Partizan che arriva a disputare la finale della prima edizione della Coppa dei Campioni contro il Real Madrid (anno 1956, anche qui il solito refrain). Il sipario si chiude a Roma nel 1968, quando il Destino prenderà le sembianze di Riva e Anastasi nella ripetizione della finale dell’Europeo.
Nel primo round, finito in pareggio, Osim e compagni dominano in lungo e in largo, vanno in vantaggio con l’ala sinistra Džajić e sfiorano più volte il colpo del ko, raggelando il pubblico dell’Olimpico nonostante la torrida serata di giugno, prima di essere raggiunti nel finale da una punizione (assai dubbia) di Domenghini: la solita esuberanza priva di sostanza, la solita recidiva irresolutezza, la solita apoteosi soltanto accarezzata. I settanta saranno anni di evanescenza e scarsi risultati.

Calcio su, Jugoslavia giù

La analisi di Tanzilli e Carelli sembrano confluire su una tesi difficilmente confutabile, per quanto in apparenza paradossale. Il vero boom del calcio jugoslavo coincide con il lento dissolversi della Repubblica federale e del suo tessuto istituzionale, minato all’interno dalla crisi economica e dal risorgere dei nazionalismi. Già nel 1979, un anno prima della morte di Tito, la Stella Rossa raggiunge la finale di UEFA, sconfitta, manco a dirlo, dal Borussia Moenchengladbach. Da lì in poi sarà un progressivo salire alla ribalta nazionale e internazionale di talentuosi virgulti del pallone, ma anche dei primi rigurgiti separatisti, che troveranno negli spalti degli stadi una potente cassa di risonanza e un corredo simbolico in grado di modellare il nuovo immaginario collettivo. Il linguaggio delle cronache sportive, circonfuso di retorica neorevanscista e palesemente ancillare a ben più strategici piani di manipolazione delle masse, fa il resto: le tifoserie organizzate diventano l’avanguardia della disgregazione politica, prima di trasformarsi, all’apice del tracollo, in luoghi di reclutamento per milizie paramilitari e di selezione di fresca carne da cannone. Illuminante su questo tema è la raccolta di saggi dell’antropologo belgradese Ivan Čolović dal titolo Campo di calcio, campo di battaglia (traduzione di Silvio Ferrari, Mesogea 1999), cui fa da aggiornamento il recente Dio, Calcio e Milizia. Il Comandante Arkan, le curve da stadio e la guerra in Jugoslavia di Diego Mariottini (Bradipo Libri, 2015, pp. 184).
Di questo fenomeno sempre meno strisciante il pubblico italiano fa conoscenza diretta il 31 marzo 1988. Allo stadio Poljud di Spalato va in scena l’amichevole Jugoslavia-Italia, trasmessa in diretta senza la consueta telecronaca per uno sciopero dei cronisti sportivi Rai (ce ne fossero più spesso oggigiorno...). Ebbene, i fischi assordanti dei tifosi di casa non sono rivolti agli avversari, ma ai giocatori serbi ogniqualvolta entrano in possesso del pallone. Preludio di un altro, chiarissimo sintomo dell’incombente dissoluzione, che si palesa agli occhi degli italiani nell’esordio della Jugoslavia ai Campionati mondiali del 1990 contro la corazzata Germania Ovest. Un mese prima, il 13 maggio, il Maksimir di Zagabria è stato teatro di cruenti scontri tra tifosi serbi della Stella Rossa e croati della Dinamo, preambolo di altri scontri, stavolta armati, che avranno luogo un anno più tardi in Slavonia. San Siro è gremito in ogni ordine di posto e nonostante il dinaro ipersvalutato nutritissima è la rappresentanza jugoslava sugli spalti. Sono presenti i maggiori gruppi organizzati (la Torcida dell’Hajduk, i Bad Blue Boys di Zagabria, l’Horde Zla di Sarajevo, i Delije belgradesi e altri), ciascuno con il proprio striscione e ciascuno con i vessilli jugoslavi (forse in un ultimo, contraddittorio sussulto di Fratellanza e Unità), ma separati chirurgicamente e distribuiti a chiazza di leopardo.

Ultimo capitolo

E qui si apre il capitolo conclusivo di questa gloriosa e mesta storia, fatalmente ostaggio dell’inesorabile gioco delle possibilità negate, così diffuso al di là dell’Adriatico. L’ipotetica dell’irrealtà si nutre al solito della scontata domanda inevasa: che cosa sarebbe potuto accadere se...? Già, cosa sarebbe potuto accadere se Faruk Hadžibegić, roccioso difensore bosniaco, avesse insaccato l’ultimo rigore contro l’Argentina, anziché gettare il pallone tra le braccia di Goycochea? Cosa sarebbe successo se quella compatta e armonica Nazionale ("molto migliore del paese che rappresentava" affermò più tardi il tecnico Ivica Osim) avesse proseguito il cammino nei Mondiali italiani, raggiungendo magari la finale? "Le cose nel nostro paese sarebbero andate diversamente" giurano alcuni; "saremmo comunque arrivati secondi", chiosano altri con un sorriso amaro. E se a quella generazione irripetibile di fuoriclasse ‑ laureatisi, giovanissimi, campioni mondiali Under 20 in Cile nel 1988 ‑ fosse stato concesso il futuro che si meritava? Se il Destino non avesse disperso in mille rivoli un patrimonio di inventiva e di intelligenza calcistica? Se, insomma, ai Boban, Prosinečki, Šuker, Boksić, che spinsero la Croazia fino all’incredibile terzo posto al torneo mondiale del 1998, si fossero potuti affiancare gli Stojković, Savicević, Mihajlović, Mijatović? E se provassimo a stilare una formazione jugoslava oggi, alla vigilia degli Europei in Francia, mescolando calciatori serbi, croati, sloveni e bosniaci? "Saremmo diventati – o diventeremmo ‑ finalmente, e a pieno titolo, il Brasile d’Europa" scommettono (quasi) tutti.
La realtà, si sa, è un cimitero di sogni, una fabbrica di nostalgie; pone un solido argine alle sterili fantasie e alle iperboli dell’immaginazione, le relega nell’alveo dell’illusione. Ma la realtà dice che il 29 maggio 1991 la mitobiografia di una nazione ebbe il suo congruo epilogo, che Davide riuscì finalmente a uccidere Golia. Quel giorno, a Bari, la Stella Rossa salì sul tetto d’Europa e vinse la sua prima e sinora unica Coppa dei Campioni. Un mese più tardi il pallone venne schiacciato dai cingolati e quelle emozioni uniche e irripetibili che solo "il gioco senza fine bello" sa regalare furono barbaramente soffocate. Ma questa è un’altra storia. Una brutta storia.

http://www.balcanicaucaso.org/aree/Balcani/Calcio-jugoslavo-una-storia-gloriosa-170996
Voglio 11 Scaloni

Offline Er Matador

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Re:Calcio jugoslavo, una storia gloriosa
« Risposta #1 : Venerdì 3 Giugno 2016, 07:18:01 »
Gli anni d’oro del calcio nazionale jugoslavo sono senz’altro i cinquanta e i sessanta. Sono gli anni di Rajko Mitić e Stjepan Bobek, di Miloš Milutinović e dell’indimenticato “filosofo” Vujadin Boškov, di Milan Galić e di un Partizan che arriva a disputare la finale della prima edizione della Coppa dei Campioni contro il Real Madrid (anno 1956, anche qui il solito refrain).

[...]

Ultimo capitolo

E qui si apre il capitolo conclusivo di questa gloriosa e mesta storia, fatalmente ostaggio dell’inesorabile gioco delle possibilità negate, così diffuso al di là dell’Adriatico. L’ipotetica dell’irrealtà si nutre al solito della scontata domanda inevasa: che cosa sarebbe potuto accadere se...? Già, cosa sarebbe potuto accadere se Faruk Hadžibegić, roccioso difensore bosniaco, avesse insaccato l’ultimo rigore contro l’Argentina, anziché gettare il pallone tra le braccia di Goycochea? Cosa sarebbe successo se quella compatta e armonica Nazionale ("molto migliore del paese che rappresentava" affermò più tardi il tecnico Ivica Osim) avesse proseguito il cammino nei Mondiali italiani, raggiungendo magari la finale? "Le cose nel nostro paese sarebbero andate diversamente" giurano alcuni; "saremmo comunque arrivati secondi", chiosano altri con un sorriso amaro. E se a quella generazione irripetibile di fuoriclasse ‑ laureatisi, giovanissimi, campioni mondiali Under 20 in Cile nel 1988 ‑ fosse stato concesso il futuro che si meritava? Se il Destino non avesse disperso in mille rivoli un patrimonio di inventiva e di intelligenza calcistica? Se, insomma, ai Boban, Prosinečki, Šuker, Boksić, che spinsero la Croazia fino all’incredibile terzo posto al torneo mondiale del 1998, si fossero potuti affiancare gli Stojković, Savicević, Mihajlović, Mijatović? E se provassimo a stilare una formazione jugoslava oggi, alla vigilia degli Europei in Francia, mescolando calciatori serbi, croati, sloveni e bosniaci? "Saremmo diventati – o diventeremmo ‑ finalmente, e a pieno titolo, il Brasile d’Europa" scommettono (quasi) tutti.
Articolo interessante, anche se bisognoso di qualche precisazione.

Primo: la finale persa dal Partizan, in un Heysel non ancora maledetto dalla tragedia e dalla colpa, risale a un decennio dopo rispetto a quanto indicato.
Il trionfo del Real nella prima edizione avviene ai danni dello Stade Reims, sconfitto una seconda volta dai madrileni nell’atto conclusivo – anche se questo non consolerà certo i loro rivali cittadini – per la quarta delle cinque vittorie che aprono l’Albo d’Oro della manifestazione.
La “sindrome jugoslava” dei belgradesi emerge, tutt’al più, dal fatto che sono loro a sfatare un mini-ciclo di finali perse dai blancos, sia pure al cospetto di avversari non banali come il Benfica di un ancora giovane Eusébio e la Grande Inter.

Secondo: non convince appieno la ricostruzione degli anni ‘80 e del Mondiale che segna l’uscita di scena della Jugoslavia.

All’indomani della sua scomparsa vengono effettivamente a galla tutti gli errori del Maresciallo: dalla diffusa corruzione a un’economia in crisi, dall’ “effetto molla” in reazione a una coesistenza forzata alla folle decisione di riconoscere ai musulmani bosniaci lo status di nazionalità autonoma.
L’errore di prospettiva consiste nel presentare il calcio come una sorta di eccezione in quel progressivo e latente sfacelo, laddove la felice stagione dei fertili estri locali appare piuttosto come un dato diffuso e caratterizzante di quel periodo.
Dal teatro alla vita intellettuale in genere, è un fiorire di idee, esperimenti, voglia di esprimersi e confrontarsi.
Forse è proprio la fine di un regime comunque duro, anche se imparagonabile a quelli di uno Stalin o un Hoxha, a determinare il dato che tiene insieme contraddizioni solo apparenti: un’improvvisa, tellurica liberazione di energie represse.
Che danno altrettanto vigore da un lato al pensiero, alla cultura e al calcio stesso, dall’altro a istanze (auto)distruttive.
La Jugoslavia di quel decennio ricorda in piccolo l’Europa della Belle Époque: in fermento, piena di vitalità e futuro, e al tempo stesso lanciata a folle velocità verso la catastrofe della Grande Guerra.

Altra pagina scritta in modo approssimativo è quella relativa al Mundial italiano.
La percezione dei destini della Nazionale come una sorta di ordalia su quelli del Paese riflette fedelmente l’atmosfera dell’epoca.
Lo stesso Slobo, alla vigilia della semifinale col Bayern del 1991, esortò i giocatori della Stella Rossa collegando senza perifrasi vittoria e unità nazionale.
Dove il racconto perde di precisione è nella parte squisitamente tecnica: altro che Nazionale “compatta e armonica”!
La squadra di Osim, accreditata come outsider per arrivare fino in fondo, deluse clamorosamente presentando una formazione sfilacciata, lacerata da clan (magari non su base etnica, ma non per questo meno agguerriti), nella quale ciascuno fondamentalmente pensava agli affari propri dentro e fuori dal campo.
Ricordo, ad esempio, l’esclusione di Zoran Vulić ed Elvir Baljić – uno dalmata l’altro bosgnacco, quindi senza appartenenze etno-religiose in comune – dopo la disfatta nel debutto con la Germania Ovest: non si trattò di normali avvicendamenti, ma di qualcosa a metà fra un’epurazione, la ricerca di un capro espiatorio e un regolamento di conti.
La stessa quasi-sparizione di Savićević, titolare nella citata gara di esordio, e la permanenza nell’undici titolare dell’anziano e cadente Capitano Zlatko Vujović non avevano l’aria di decisioni esclusivamente tecniche.
Dilaniati da faide interne, i plavi affrontarono un cammino assai accidentato, spuntandola di misura con la Colombia – vittoria decisiva per la qualificazione alla seconda fase – solo grazie a un marcatore inatteso come il libero cesenate Davor Jozić.
La terza partita del girone contro gli Emirati Arabi, di fatto un’esibizione, servì a stemperare le tensioni e a ritrovare un po’ di spirito di squadra almeno sul piano agonistico.
Sul campo rimase un undici abborracciato, che si difendeva alla bell’e meglio sperando in qualche prodezza individuale.
Andò bene con la Spagna, domata dalla canicola bolognese, da una mentalità ancora solidamente perdente e dall’apparizione divina di Stojković – per il resto impalpabile – con una doppietta: forse un attacco fra i più violenti alla teoria secondo la quale a calcio si vince in undici.
Ma ciò non toglie che le Furie Rosse avessero giocato gran parte dei 120 minuti, e anche prima di passare in svantaggio, a una porta sola.
La prestazione paradossalmente migliore rimane quella contro l’Argentina, annullando l’inferiorità numerica determinata già al quarto d’ora dall’arbitro Roethlisberger – poi squalificato a vita, come accade ai servi più viscidi dopo essere stati usati, nella fattispecie da Blatter – con due cartellini gialli chirurgici a Šabanadžović.
Da rileggere anche i dettagli in merito ai tiri dal dischetto.
Intanto Hadžibegić non calciò affatto “tra le braccia di Goycochea”: il difensore bosniaco ebbe il torto di non imprimere alla palla la necessaria forza alzandola sulla sinistra del portiere, ma quest’ultimo – mai ripropostosi in seguito a quei livelli: forse perché originario del Dipartimento di Zárate? – ci arrivò con un’autentica prodezza.
In secondo luogo, perdere una semifinale per un errore sull’ultimo tiro è una storia beffarda ma abbastanza comune.
Più interessante la vicenda legata al vero giro di boa di quel confronto: il quarto rigore, che i plavi calciavano per secondi trovandosi in vantaggio di un tiro dopo gli errori di Stojković, Maradona e Troglio.
La dinamica dell’avvicinamento al dischetto fu particolarmente confusa, causa forse un equivoco nella designazione del rigorista.
Fatto sta che dal gruppo a metacampo uscì Dragoljub Brnović, generoso tornante di fascia e discreto crossatore ma certo non titolare dei piedi più delicati in quel gruppo di virtuosi.
E che, soprattutto, risentì del clamoroso calo di tensione collettivo: presentandosi dagli undici metri con un’andatura ciondolante, da spiaggia, cui fece coerentemente seguito uno straccio bagnato facilmente respinto dal portiere.
Due ore di lotta feroce in dieci contro undici per poi cedere mentalmente, e nella maniera più insensata, proprio in occasione della stretta finale: ecco, questa è davvero la Jugoslavia.
Altra storia da raccontare è quella del già citato rigore fallito da Maradona.
O, meglio, neutralizzato da Tomislav Ivković, il più bravo nel capire che contro il Pibe bisognava rimanere in piedi fino all’ultimo: tant’è che gliene aveva respinto un altro a inizio stagione, quando il Napoli era stato sorteggiato nel primo turno di Coppa UEFA contro il suo Sporting Lisbona.
E non sono in molti a poter raccontare di aver parato due rigori a una simile divinità del calcio.
Dov’è il “dettaglio jugoslavo”, allora? Beh, nel fatto che, in entrambe le serie dal dischetto, la squadra di Ivković uscì alla fine sconfitta...

Offline Breizh

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Re:Calcio jugoslavo, una storia gloriosa
« Risposta #2 : Venerdì 3 Giugno 2016, 08:19:03 »
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L’ultimo rigore di faruk» (Sellerio)

L’errore dal dischetto ai Mondiali
E sulla Jugoslavia calò il sipario


Calcio, secessioni e guerre balcaniche nel racconto del giornalista Gigi Riva

di Gian Antonio Stella



E se il carretto di Jean-Baptiste Drouet non si fosse messo di traverso a Varennes alla carrozza di Luigi XVI in fuga? E se Alessandro Magno non fosse stato ucciso trentaduenne da un morbo misterioso? E se Bartali non avesse trionfato al Tour mentre l’Italia comunista era furente per l’attentato a Togliatti? «Coi se e coi ma/ la storia non si fa», dice il proverbio. Figurarsi se in ballo c’è solo un penalty, quello parato a Firenze dal portiere argentino Goycochea a Hadžibegic, il capitano della Jugoslavia buttata fuori ai rigori dai Mondiali del 1990.

Eppure Ivica Osim, l’ultimo l’allenatore della nazionale che teneva insieme serbi e bosniaci, croati e macedoni, sloveni e montenegrini prima della guerra civile, della mattanza, della disgregazione, sospira 26 anni dopo: «Mi chiedo cosa sarebbe successo se avessimo sconfitto l’Argentina. (…) Forse non ci sarebbe stata la guerra, se avessimo vinto la Coppa del Mondo…». E con lui sospira Faruk Hadžibegic, che con la fascia al braccio cercò di compattare fino all’ultimo quell’armata di campioni sempre più divisi e eccitati da parole d’odio. Anche se vive ormai a Parigi, viene riconosciuto per strada un quarto di secolo dopo da tutti i serbi o croati o bosniaci vittime di quell’impazzimento e quella carneficina: «Ah, se non avesse sbagliato quel rigore…».

Mette i brividi, la storia della disgregazione della Jugoslavia riletta in parallelo alla disgregazione della sua nazionale. Gigi Riva (non il calciatore: il giornalista dell’«Espresso») nel libro L’ultimo rigore di Faruk, accolto da sperticati elogi in Francia ancor prima che uscisse in Italia per Sellerio, tiene insieme tutto. Le vicende più tragiche come l’ecatombe di Srebrenica, che vide i serbo-bosniaci del generale Ratko Mladic (quello che bombardando Ragusa sghignazzava: «La faremo più bella e più antica di prima») massacrare in un solo giorno 8.372 civili musulmani, e quelle più paradossali, come la scelta del Klub Sarajevo di assumere uno psichiatra che incitava i giocatori «a superare ogni divisione etnica e religiosa per essere veramente un gruppo coeso»: era Radovan Karadžic, che di lì a poco sarà il teorico dalla «pulizia etnica» in nome della superiorità razziale dei serbi dimostrata dal fatto che «hanno il femore più lungo d’Europa».

Che calcio e guerra abbiano un linguaggio comune si sapeva: «Il “bomber” “spara” una “fucilata”, se è molto violenta un “missile”. Una squadra “cinge d’assedio” l’area avversaria, va “all’assalto”. In trasferta “si espugna” il campo “nemico”…». Ma Riva, nella serrata ricostruzione dello sfacelo parallelo calcistico e politico, mette in fila date, episodi, aneddoti, che dimostrano in modo agghiacciante come i «signori della guerra» usino il calcio e anzi si sovrappongano spesso ai «signori del calcio».

Un paio di casi? Di qua Franjo Tudjman, futuro condottiero dell’irredentismo croato morto alla vigilia della scontata incriminazione per crimini di guerra, che negli anni Cinquanta era stato il presidente del Partizan Belgrado, la squadra dell’esercito jugoslavo. Di là Želiko Raznjatovic, la «tigre Arkan», bandito comune, sicario, hooligan alla testa dei tifosi più fanatici e bestiali della Stella Rossa di Belgrado, trasformati da lui in una milizia pronta ad ogni efferatezza.

Trasforma una trasferta della Stella Rossa a Zagabria in una spedizione bellica, andando allo scontro con gli hooligan della Dinamo, «ma è chiaro che non sono due tifoserie, sono due piccoli eserciti in formazione e le stesse facce si ritroveranno davanti a Vukovar». Compra una squadra di B, l’Obilic (il nome dell’eroe di Kosovo Polje), e la porta in due anni allo scudetto senza che alcuno indaghi sui suoi metodi: «Arbitri intimiditi, avversari minacciati fisicamente se avessero segnato, rapimenti di calciatori riottosi nel firmare un contratto». Accoglie alla scaletta dell’aereo come un capo di Stato (lui, inseguito da un mandato di cattura Interpol) gli amici della Stella Rossa che gli porgono l’appena vinta Coppa Intercontinentale e ricambia: «Voi mi avete portato questa, io vi ho portato la terra di Slavonia».

L’abbraccio più fraterno, racconta Riva, è con Siniša Mihajlovic, «il battagliero alfiere dell’orgoglio serbo, il più politico tra i calciatori: “Il mondo sostiene che noi serbi abbiamo compiuto delle atrocità. Ma non c’era il mondo a vedere cosa succedeva davvero a Vukovar”». Alla morte del macellaio, ucciso nel 2000 da un poliziotto, gli dedica un necrologio. I tifosi della Lazio si accodano con uno striscione: «Onore alla Tigre Arkan». Dirà anni dopo: «Lo rifarei, quel necrologio. Arkan era un mio amico vero e un eroe per il popolo serbo. Io gli amici non li tradisco…». Non «tradirà» mai neppure il criminale di guerra Mladic: «Lo rispetto perché è un guerriero che combatte per il suo popolo».

Sciovinismo uguale e rovesciato rispetto a quello del croato Zvonimir Boban, ora nominato vicesegretario alla Fifa, ma arrestato e squalificato nel 1990 dopo la rissa Dinamo-Stella Rossa per aver «fratturato la mascella» a un agente con un calcio: «Ero un volto pubblico, ma ero preparato a rischiare vita, carriera e tutto quello che la fama mi avrebbe potuto portare per una causa ideale, la causa croata. Posso solo aggiungere che ho reagito a una grande ingiustizia…».

E insomma non si sa mai, nel ripercorrere quelle storie, dove finisca il calcio e dove cominci la guerra. Emergono, piuttosto, il patriottismo mite e la statura di pochi. Su tutti Faruk Hadžibegic, che il 25 marzo 1992, dopo un’amichevole con l’Olanda, chiude così: «Ragazzi, sapete quanto io sia attaccato a questa maglia. L’ho difesa contro tutto e tutti. È stato il mio sogno di bambino che si è avverato. Ho tenuto duro sino adesso. Siamo arrivati fin qui, ci aspetterebbe il campionato europeo. Ma non posso più giocare in queste condizioni. Ora che la mia città, la mia gente, sono bombardate. Ora che la guerra è arrivata nella mia Sarajevo. Io sono il capitano, io mi assumo la responsabilità di sciogliere la squadra. Perché la nazionale di calcio jugoslava non esiste più».

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Re:Calcio jugoslavo, una storia gloriosa
« Risposta #3 : Venerdì 3 Giugno 2016, 08:49:13 »
Nella prima occasione mi par di ricordare che Ivković si avvicinò a Maradona prima che calciasse per scommettere 100$ sulla sua parata
 :D
La compagine di Italia '90 in effetti presentava delle vere e proprie mummie come Zlatko Vujović e "Pape" Sušić,
i quali giocarono addirittura tutte le partite da titolari, nonostante la canicola del periodo, la veneranda età e la presenza in panchina della freschezza atletica e mentale dei vari Prosinečki, Savićević, Bokšić e Šuker.
Un inchinarsi all'antica maestria di eroi ormai spompati che si è ritrovato (e si ritrova) anche nelle nazionali delle repubbliche succedute, con i soliti nefasti risultati.
Da notare anche che nella gara con l'Argentina, nonostante l'inferiorità numerica e il caldo asfissiante, Ivica Osim (da calciatore soprannominato lo "Strauss di Sarajevo"), effettuò un solo cambio - giustappunto Sušić -  nonostante in panchina avesse cursori del calibro di Katanec e Jarni.
Quanto al rigore di Hadžibegić - che nell'amichevole disputata con l'Olanda a Zagabria prima del mondiale quando l'inno nazionale venne sommerso dai fischi avrebbe battuto le mani esclamando "siamo 11 contro 30mila" - è oggetto di un altro libro appena uscito



http://espresso.repubblica.it/visioni/cultura/2016/05/23/news/l-ultimo-rigore-prima-della-guerra-1.266940
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Re:Calcio jugoslavo, una storia gloriosa
« Risposta #4 : Venerdì 3 Giugno 2016, 09:00:32 »
P.S.
Breizh mi ha preceduto
:D
L'articolo di Stella chiude con un paio di sviste colossali: la guerra a Sarajevo comincia ai primi di aprile e Hadžibegić era ancora con la squadra che venne esclusa da Euro 1992 pochi giorni prima del'avvio e da cui mancavano solo i croati.
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Re:Calcio jugoslavo, una storia gloriosa
« Risposta #5 : Venerdì 3 Giugno 2016, 19:05:30 »
L'articolo di Stella chiude con un paio di sviste colossali: la guerra a Sarajevo comincia ai primi di aprile e Hadžibegić era ancora con la squadra che venne esclusa da Euro 1992 pochi giorni prima del'avvio e da cui mancavano solo i croati.

Fossero solo quelle:

la scelta del Klub Sarajevo di assumere uno psichiatra che incitava i giocatori «a superare ogni divisione etnica e religiosa per essere veramente un gruppo coeso»: era Radovan Karadžic, che di lì a poco sarà il teorico dalla «pulizia etnica» in nome della superiorità razziale dei serbi dimostrata dal fatto che «hanno il femore più lungo d’Europa»

Come lo stesso Stella ha raccontato altrove - credo in Negri, froci, giudei -, Radovan Karadžić applicava tale bizzarra teoria ai montenegrini, popolo cui appartiene per ascendenza etnica, quando ancora veniva considerato uno psichiatra di scarso successo e un innocuo mattacchione.
In seguito non fu affatto un teorico, ma prestato alla politica a pieno titolo.
Questo per dire della sprezzante approssimazione con cui questo personaggio scrive quando tratta di bersagli mediaticamente e politicamente indifesi: compresa la Lazio, che ovviamente mette in mezzo anche stavolta.
Se la sua serietà è questa, mi viene da dubitare che la Casta, cui ha dedicato pagine e pagine di accuse, sia in realtà un gruppo di brave persone.

Offline AlenBoksic

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Re:Calcio jugoslavo, una storia gloriosa
« Risposta #6 : Sabato 4 Giugno 2016, 18:44:02 »
Letti di botto i libri di Tanzilli e Riva
(quello di Carelli ancora non è disponibile sulle maggiori piattaforme di vendita online).
Il libro di Tanzilli è una storia del calcio jugoslavo che ne copre tutta l'esistenza, quello di Riva è invece incentrato sugli anni della dissoluzione. Sono entrambi godibili, anche se a me è piaciuto più il secondo molto avvincente nel racconto di Italia '90 ma, per chi non ne conosca le vicende, è utile anche il primo.
Riva racconta l'addio di Hadžibegić nella versione riportata da Stella, ero invece sicuro ancora fosse tra i convocati,
te ricordi nulla Mata?
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Re:Calcio jugoslavo, una storia gloriosa
« Risposta #7 : Martedì 7 Giugno 2016, 06:57:56 »

Letti di botto i libri di Tanzilli e Riva
(quello di Carelli ancora non è disponibile sulle maggiori piattaforme di vendita online).
Il libro di Tanzilli è una storia del calcio jugoslavo che ne copre tutta l'esistenza, quello di Riva è invece incentrato sugli anni della dissoluzione. Sono entrambi godibili, anche se a me è piaciuto più il secondo molto avvincente nel racconto di Italia '90 ma, per chi non ne conosca le vicende, è utile anche il primo.
Riva racconta l'addio di Hadžibegić nella versione riportata da Stella, ero invece sicuro ancora fosse tra i convocati,
te ricordi nulla Mata?
Rieccomi qua. A mente ricordavo Hadžibegić ancora in squadra dopo quel presunto discorso.
Ho preferito verificare, trovando difficoltà impreviste nel reperire i dati come se quella squadra fosse stata oggetto di una damnatio memoriae.
Come se si volessero cancellare, insieme alle testimonianze su quell’ultima Jugoslavia, le circostanze che portarono alla sua esclusione e alla sua fine.
Ma procediamo con ordine.



LE DATE

16 maggio 1991: la vittoria per 7-0 contro le Fær Øer nelle qualificazioni europee vede in campo per l’ultima volta la “vera” Jugoslavia, compresi i croati che da lì a poco abbandoneranno il gruppo.
Ruota attorno a quel momento anche la scelta di campo di Siniša Mihajlović, sin lì considerato da molti croato (come la madre) per il fatto di essere nato in Slavonia (regione alle dipendenze di Zagabria, ma con una forte e radicata presenza serba, comunità cui appartiene anche suo padre).
Ricordo distintamente, anche a distanza di qualche anno, figurine in cui la sua foto era associata a un vessillo con la scacchiera, e c’è da sperare per lui che l’autore dell’accostamento non abbia mai incontrato di persona l’interessato.

13 novembre 1991: Austria - Jugoslavia 0-2 (Lukić, Savićević), gara di chiusura per la Jugoslavia nel girone di qualificazione agli Europei, diventa la sua ultima partita in una competizione internazionale.
Da lì in poi, salvo l’amichevole con l’Olanda di cui al paragrafo successivo, non risultano altre tracce di attività ufficiale.
Considerato che ad Amsterdam la Jugoslavia non segnò, quello di Savićević al Prater – oggi Ernst Happel Stadion – dovrebbe essere l’ultimo gol nella sua Storia.

1° marzo 1992: si tiene il referendum per l’indipendenza della Bosnia-Erzegovina dalla Federazione Jugoslava.

25 marzo 1992: la già citata amichevole con l’Olanda (0-2) ad Amsterdam è l’ultima partita ufficiale disputata dalla Nazionale degli Slavi del Sud, dopo la quale si sarebbe tenuto il discorso di Hadžibegić.
La gara ne ricorda una disputata contro lo stesso avversario, allo stadio Maximir di Zagabria, anche lì in preparazione a una fase finale, quella di Italia ‘90: col pubblico di casa che sosteneva a gran voce gli ospiti giocando anche sulla somiglianza delle rispettive bandiere.

5 aprile 1992: ha inizio l’assedio di Sarajevo.

2 maggio 1992: dopo un tentativo di conquista “convenzionale”, la città viene completamente isolata e, di lì a poco, inizia il sistematico cannoneggiamento dalle alture circostanti.
Sembra essere il prolungarsi delle ostilità in questa forma, più dell’assedio in sé, il passaggio cruciale che spinge alcuni componenti di origine sarajevese o bosniaca ad abbandonare i plavi.

24 maggio 1992: in seguito al protrarsi dei bombardamenti su Sarajevo, città della quale è originario, il Ct Ivica Osim (di etnia croata) rassegna le dimissioni dalla panchina della Nazionale.

26 maggio 1992: il gruppo con giocatori superstiti e Ct della Jugoslavia parte per la Svezia, dove si svolge la fase finale degli Europei.

30 maggio 1992: viene emessa la risoluzione numero 757 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, che decreta l’embargo per la Repubblica Federale di Jugoslavia prevedendo inoltre l’immediata sospensione degli scambi scientifici, tecnici e culturali, nonché l’esclusione da tutte le manifestazioni sportive.

1° giugno 1992: l’UEFA recepisce la direttiva formalizzando via fax l’esclusione della Jugoslavia dai Campionati Europei.
Di fatto tale decisione sancisce la fine della Nazionale jugoslava, sin lì tenuta in vita  dalla prospettiva di partecipare alla manifestazione cui si era regolarmente qualificata sul campo.
Nei mesi seguenti viene fondata la Federazione calcistica della Bosnia ed Erzegovina, mentre l’analoga istituzione della Repubblica di Macedonia, costituita nel 1949 in seno a quella jugoslava, inoltra la richiesta di affiliazione a UEFA e FIFA.
Entrambe inizieranno a disputare qualificazioni europee e mondiali negli anni successivi.



LE PRIME CONVOCAZIONI

Ed eccoci a indagare sul gruppo dei convocati per la fase finale degli Europei, per capire quando Hadžibegić ha smesso di farne parte.
Questa la rosa apparsa sull’Album Panini dedicato alla manifestazione:


PORTIERI
Fahrudin Omerović
Zvonko Milojević

DIFENSORI
Predrag Spasić
Darko Milanić
Vujadin Stanojković
Ilija Najdoski
Budimir Vujačić
Faruk Hadžibegić

CENTROCAMPISTI
Vladimir Jugović
Branko Brnović
Slaviša Jokanović
Dejan Savićević
Mehmed Bazdarević
Đoni Novak
Siniša Mihajlović

ATTACCANTI
Dragan Stojković
Vladan Lukić
Mario Stanić
Darko Pančev
Predrag Mijatović

COMMISSARIO TECNICO
Ivica Osim


Il supplemento della rivista inglese World Soccer riporta alcune varianti:

PORTIERI
Dragoje Leković
Fahrudin Omerović

DIFENSORI
Branko Brnović
Faruk Hadžibegić
Predrag Spasić
Ilija Najdoski
Miroslav Đukić
Budimir Vujačić
Dzoni Novak

CENTROCAMPISTI
Dragan Stojković
Sinisa Mihaljović
Mehmed Bazdarević
Predrag Mijatović
Vladimir Jugović
Vujadin Stanojković

ATTACCANTI
Dejan Savićević
Slaviša Jokanović
Darko Pančev
Mehmed "Meho" Kodro

COMMISSARIO TECNICO
Ivica Osim


Nonostante WS si basi in teoria sulla lista consegnata all’UEFA, il numero di giocatori – 19 in luogo dei 20 consentiti – e qualche approssimazione nei ruoli la fa apparire meno credibile rispetto alla versione Panini.
Sfumature che non modificano il quadro generale: a questo punto ci sono ancora tutti, tranne i croati di Croazia.
Sì, perché per quelli originari delle altre Repubbliche, Bosnia-Erzegovina in testa, affiora qualche distinguo.
Rimane nel giro Mario Stanić, ne sono invece già usciti gli anziani Zlatko Vujović e Davor Jozić.
Tutti e tre nati in territorio bosniaco, i primi due a Sarajevo il terzo in Erzegovina, tutti e tre etnicamente croati.
Motivo di scelte così divergenti? Due ipotesi:

1) Stanić milita all’epoca nella sua città natale, con la maglia dello Željezničar.
Zlatko Vujović è transitato al Sochaux, crocevia anche per le carriere dei bosgnacchi Hadžibegić e Bazdarević, per poi proseguire altrove nel campionato transalpino.
Jozić si fa onore nel torneo di casa nostra col Cesena.
Vedremo in seguito, con l’ultima Jugoslavia alla vigilia dell’esclusione, come il fatto di militare in un club dell’ex Prva Liga anziché all’estero possa rivelarsi determinante in certe situazioni

2) Gli altri due sono ultratrentenni e a fine carriera, Stanić va per i vent’anni e ha appena esordito in Nazionale.
Probabile che pensi anche agli sviluppi di una carriera poi rivelatasi di tutto rispetto, sia coi club (buon protagonista con la maglia di un Parma allora ai vertici, prima di approdare al Chelsea) sia con la selezione della Croazia (titolare quasi inamovibile nella formazione che, al Mundial 1998, conquista un clamoroso terzo posto)


IL DOPO OSIM

Il 24 maggio il Ct Osim si dimette per protesta contro gli sviluppi della guerra in Bosnia: da qui in poi si esce dall’ufficialità.
Nelle convocazioni, date le defezioni alla spicciolata, si prosegue con la logica del “chi c’è c’è”.
Nella documentazione – a partire da quella ufficiale UEFA – non vi è traccia scritta di una Nazionale sin lì parte a pieno titolo del torneo, e per ricostruirla ci si deve affidare a testimonianze personali o giornalistiche.
La Jugoslavia, o ciò che ne rimane, parte per la Svezia il 26 maggio con un numero di giocatori inferiore rispetto ai 20 convocabili.
Si parla di 18 effettivi, almeno secondo la testimonianza di Mijatović che li classifica in base alla Repubblica di provenienza senza fare nomi:

- otto dalla Serbia (verosimilmente Dubajić, Petrić, M. Đukić, Stojković, Mihajlović, Jokanović, Jugović, Petković)
- sei dal Montenegro (quasi sicuramente Savićević, lo stesso Mijatović, Vujačić, Brnović, Leković, Radinović)
- uno dalla Bosnia (verosimilmente Omerović, musulmano nativo della Repubblica Serba di Bosnia)
- uno dalla Macedonia (quasi sicuramente Stanojković, vedi sotto)
- due dalla Slovenia (sicuramente Milanić e Novak, vedi sotto)

I due che si aggiungono poco dopo dovrebbero essere Jakovljević (nato a Konjic come Davor Jozic e oggi cittadino bosniaco, verosimilmente di etnia croata) e Krčmarević (serbo), come confermato dal fatto che sembrava proprio l’attacco il reparto maggiormente sguarnito.
Sommando quanto sopra alle fonti giornalistiche – in particolare El Mundo Deportivo – la lista degli effettivi che si trovano in Svezia al momento dell’esclusione, pronti a partecipare regolarmente al torneo, dovrebbe essere a tutti gli effetti questa:


PORTIERI
Fahrudin Omerović (26/08/1961 – FK Partizan Beograd)
Dragoje Leković (21/11/1967 – FK Crvena zvezda Beograd)

DIFENSORI
Vujadin Stanojković (09/09/1963 – FK Partizan Beograd)
Slobodan Dubajić (19/02/1963 – VfB Stuttgart, RFA)
Gordan Petrić (30/07/1969 – FK Partizan Beograd)
Duško Radinović (08/02/1963 – FK Crvena zvezda Beograd)
Budimir Vujačić (04/01/1964 – FK Partizan Beograd)
Miroslav Đukić (19/02/1966 – Real Club Deportivo La Coruña, ESP)
Darko Milanić (18/12/1967 – FK Partizan Beograd)
Đoni Novak (04/09/1969 – FK Partizan Beograd)

CENTROCAMPISTI
Dragan Stojković (03/03/1965 – Hellas Verona, ITA)
Siniša Mihajlović (20/02/1969 – FK Crvena zvezda Beograd)
Slaviša Jokanović (16/08/1968 – FK Partizan Beograd)
Vladimir Jugović (30/08/1969 – FK Crvena zvezda Beograd)
Branko Brnović (08/08/1967 – FK Partizan Beograd)
Dejan Petković (10/09/1972 – FK Radnicki Niš)

ATTACCANTI
Dragan Jakovljević (23/02/1962 – Royal Antwerp FC, BEL)
Predrag Mijatović (19/01/1969 – FK Partizan Beograd)
Dejan Savićević (15/09/1966 – FK Crvena zvezda Beograd)
Slobodan Krčmarević (12/06/1965 – FK Partizan Beograd)


Si tratta, con poche eccezioni (ed escluso Hadžibegić, a questo punto), di una rappresentativa del campionato jugoslavo o di ciò che rimaneva della Prva Liga.
Selezione che include gli sloveni Darko Milanić e Đoni Novak in forza al Partizan.
Lubiana ha proclamato la propria indipendenza il 25 giugno 1991 ed è stata ammessa all’ONU il 22 maggio dell’anno seguente: per cui i due, al momento dell’esclusione della Jugoslavia, figurano giuridicamente come stranieri a tutti gli effetti.
Di fatto portano a termine una sorta di contratto a progetto legato agli Europei: esaurito il quale confluiranno nella Nazionale del loro nuovo Paese, diventandone autentiche colonne fino agli inizi del decennio successivo.
Diverso il destino di Srečko Katanec, senz’altro l’elemento di maggior prestigio fra quelli nati a Lubiana e dintorni.
Pare che, già prima del quarto di finale contro l’Argentina a Italia ‘90, avesse chiesto al Ct Osim di essere escluso dalla formazione titolare – della quale era stato sin lì un inamovibile – causa le gravi minacce ricevute: la sua carriera coi plavi finirà lì.
La differenza di trattamento con gli altri due, a carico dei quali non risultano particolari pressioni, dipende probabilmente da tre fattori:

1) la loro minore rappresentatività, soprattutto in ambito internazionale
2) Il fatto che la Slovenia, rispetto al periodo di Argentina-Jugoslavia, avesse ormai esaurito con esito positivo il proprio percorso indipendentista
3) La loro militanza nel Partizan, quindi la loro permanenza in territorio serbo, che li rendeva bersagli meno immediati

Interessante la storia di Vujadin Stanojković: è nato a Kumanovo, nella Repubblica di Macedonia, e con la Nazionale di quel Paese giocherà alcune partite negli anni successivi “macedonizzando” il cognome in Stanojkovski.
Eppure, dopo gli abbandoni di Najdoski e Pančev, continua imperterrito rimanendo l’unico rappresentante della non ancora proclamata Fyrom.
Piccolo particolare: come rivela il suo cognome anagrafico, è di etnia serba...

Rimane da capire la distribuzione dei compiti in panchina, faccenda poco chiara anche nelle Nazionali nate dalla dissoluzione di quella jugoslava.
Il capo allenatore, questo sembra certo, è l’ex collaboratore di Osim Ivan Cabrinović.
Non sono chiare le mansioni di Slobodan Santrač: Ct più o meno alla pari col titolare, secondo o che altro?
Commissario Tecnico della Jugoslavia lo sarebbe divenuto a pieno titolo in occasione di Francia ‘98.
Ma lì si parla ormai della selezione che rappresentava la neocostituita Federazione serbo-montenegrina, quella col vecchio tricolore federale senza la stella rossa al centro: e che comunque sancì il rientro di Belgrado nel giro delle Nazionali dopo l’esclusione del 1992.
Slobodan Santrač è scomparso nel febbraio di quest’anno per un arresto cardiaco.

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Re:Calcio jugoslavo, una storia gloriosa
« Risposta #8 : Martedì 7 Giugno 2016, 07:00:08 »
CONCLUSIONI

Dopo questa lunga carrellata, arriviamo al dunque e alle domande da cui eravamo partiti:

A) in quale momento Hadžibegić abbandona la Nazionale?
B) In quale momento la Nazionale arriva al rompete le righe, sia pure ufficioso e in anticipo sullo scioglimento ufficiale?

I dati cruciali a tale proposito appaiono due:

1) la data in cui è il Ct Ivica Osim a lasciare la rappresentativa della Federazione: come detto, 24 maggio 1992

2) Il fatto, confermato da tutte le fonti, che alcuni giocatori originari di Sarajevo o della Bosnia (Hadžibegić stesso, Bazdarević, Kodro, tutti bosgnacchi) seguono l’esempio del Ct.
Il loro pronunciamento non può essere antecedente al 24 maggio né successivo al 26 maggio, giorno in cui ciò che rimane della Nazionale parte per la Svezia senza di loro

Se ne desumono due considerazioni fondamentali:

a) il 24 maggio, quindi due mesi dopo il presunto discorso, Hadžibegić sta ancora lavorando con la Nazionale
b) Il 1° giugno la Nazionale medesima, sia pure fra difficoltà e assenze, è ancora attiva e si sta preparando per gli Europei

Cosa rimane, dunque, della ricostruzione di Stella & co.?
Sul piano delle implicazioni materiali è presto detto: nulla.
Olanda-Jugoslavia diventa l’ultima partita dei plavi solo dopo l’esclusione dagli Europei, non col senno di allora.
Può essere, come ipotesi alternativa, che il presunto discorso di Hadžibegić rifletta un clima di smobilitazione poi rientrato?
Non è possibile escluderlo: per quanto tutti gli indizi, dalla determinazione nell’onorare la qualificazione ottenuta sul campo alla collocazione cronologica assai tardiva delle defezioni, lascino intendere ben altro.
Del tutto insanabile, invece, l’anacronismo della motivazione: 25 marzo il discorso, 2 aprile l’assedio, inizio maggio il bombardamento.
Anche ammettendo che nella neo-capitale bosniaca tirasse una gran brutta aria e che i preparativi militari lasciassero presagire qualcosa di spiacevole, persino durante la prima fase dell’assedio – quindi già dopo il famoso discorso – parlare di bombardamenti rimane prematuro.
A Sarajevo è già successo parecchio, fra movimenti interni, self-cleaning etnici e spostamento in proprio di parte della popolazione verso le montagne: lecito aspettarsi delle conseguenze sul piano militare, ma non un’escalation protratta a simili livelli.
Che infatti non sembra rientrare nei piani iniziali, votati a una rapida conquista via terra e spiazzati dal protrarsi delle operazioni, contro un’opposizione più coriacea del previsto.
Che infatti sorprende non poco una popolazione civile preparata – si fa per dire – magari a combattimenti per le strade, non a un attacco via aria.
Gira e rigira, la realtà sembra molto più semplice.
Qualche scribacchino che, non contento di spargere disinformazione, si crede Tacito e inventa versioni moderne del discorso di Calgaco.
Qualche suo collega che, anche in un contesto documentale più riflessivo, va di copia e incolla senza verifiche e con tanti saluti alla deontologia professionale.


ANCORA SULL’ESCLUSIONE

Ah, manca qualche precisazione in merito alla decisione dell’UEFA sull’esclusione della Jugoslavia.
Il massimo organo calcistico continentale può accampare come pretesto l’aver ottemperato a un provvedimento di natura extra-sportiva e, in teoria, gerarchicamente superiore.
In teoria poiché, non avendo l’ONU la competenza diretta in materia, quest’ultima – e quindi l’ultima parola su un provvedimento del genere – spetta all’organismo competente nello specifico.
Sicuro che l’UEFA non avesse alternative al recepire, e in tutta fretta, la risoluzione del Consiglio di Sicurezza?
E poi: l’esclusione dalle competizioni sportive vale per quelle avviate a decorrere dalla risoluzione o anche per quelle già in corso?
Già, perché la possibile controdeduzione – l’esclusione andava ratificata prima dell’inizio del torneo, onde garantire i tempi tecnici per il ripescaggio della sostituta e l’integrità della manifestazione – cozza contro un dato di fatto: l’edizione degli Europei è già in corso.
Poiché il suo intero svolgimento include le qualificazioni, che stanno alla fase finale più o meno come la fase a gironi sta a quella a eliminazione diretta.
E quella svoltasi in Svezia – o nel Paese organizzatore di turno – è appunto la fase finale: quindi solo una parte dell’edizione in corso, non il suo inizio.

Oltre ai dubbi di carattere giuridico, pesa anche una vera e propria calunnia, sia pure velata: l’accusa alla Federazione di aver escluso, o indotto ad andarsene, i giocatori originari delle Repubbliche “infedeli”. Nulla di più falso.
Della decisione di Osim e di chi lo segue, nonché del suo carattere personale e unilaterale, si è detto.
Quanto agli slavo-macedoni, con la già citata eccezione del serbo di Macedonia Stanojković, anche qui ciascuno getta la spugna con modalità proprie e con una tempistica non facile da ricostruire nei dettagli.
Pančev finisce le qualificazioni europee, ma non figura più in formazione nell’amichevole del 25 marzo: eppure il 4 marzo, il 18 marzo e il 1° aprile scende regolarmente in campo con la Stella Rossa nelle gare del girone di CL, il che rende poco plausibile un problema fisico come spiegazione per la sua assenza.
C’entra, più probabilmente, la convinzione con cui sposa la causa della secessione a pieno titolo, che la Repubblica della quale è originario ha proclamato già l’8 settembre 1991 (per il riconoscimento effettivo occorreranno ancora quasi due anni, fortunatamente senza gravi conflittualità).
Per dire, nella già citata gara del 4 marzo decide con una doppietta la trasferta ateniese contro il Panathinaikos: al momento di completare la documentazione per l’ingresso in Grecia, alla voce “nazionalità” ha la geniale idea di rispondere “macedone”.
Creando un caso diplomatico, sia per le note posizioni elleniche sull’utilizzo del nome sia per il riferimento in un documento ufficiale a un Paese non ancora riconosciuto.
Najdoski, invece, figura fra i titolari nell’amichevole del 25 marzo ma non nella lista dei partenti il 26 maggio.
Pressoché impossibile risalire al momento esatto del suo abbandono, mentre i ricordi dell’epoca gettano una luce sinistra sulle motivazioni: pesantissime minacce, che provengono ovviamente da Skopje e dagli indipendentisti meno pacifici.
La Federcalcio di Belgrado, per parte sua, schiera tranquillamente giocatori ormai stranieri come gli sloveni, e ribadisce fino all’ultimo la disponibilità ad accogliere tutti gli ex jugoslavi, a prescindere dalla provenienza.

Analogo scenario si era verificato nell’autunno precedente in Coppa Davis, dove tutta la competitività della Jugoslavia dipendeva dai croati Ivanišević e Prpić.
Invece a Pau, per la semifinale contro la Francia, si recano solo il declinante “Bobo” Živojinović e tre semisconosciuti per l’inevitabile 5-0, poiché anche una credibile prima riserva come Bruno Orešar rimane escluso causa origini croate.
Escluso da chi? Anche in quel caso da decisioni proprie più o meno convinte, non certo da Belgrado.

Il clima in cui spira il venticello della calunnia sembra, tornando agli Europei di calcio, adeguatamente preparato: si prendano le numerose dichiarazioni, da parte di politici e Primi Ministri di vari Paesi, nelle quali ci si interroga sull’opportunità o addirittura sul diritto della Jugoslavia di partecipare alla fase finale.
Ci sarebbe di mezzo una qualificazione conquistata sul campo, ma che importa.
Infine il capolavoro: già in epoca pre-Internet non mancano commenti di dubbio gusto.
E uno ricorrente – quindi di dubbia spontaneità – adombra una sporca manovra di sponsor & c. per portare la Jugoslavia unita del basket alle Olimpiadi contro il Dream Team, grande novità di quell’edizione.
Capito? Il gomblotto mirerebbe a conservare artificialmente la vecchia Nazionale: non, come tutto lascia intuire, ad archiviare frettolosamente quell’esperienza.
E va da sé che a Barcellona saranno poi ammessi Slovenia e Croazia – magari con qualche deroga su tempi tecnici e dettagli del genere – e gli atleti serbo-montenegrini impegnati negli sport individuali.
Mentre l’embargo verrà esteso agli sport di squadra: basket compreso, naturalmente.

Alla fine di questo viaggio, prende corpo la sensazione che nella damnatio memoriae, dalla documentazione “sparita” alla difficoltà di ricostruire quegli eventi, incida non poco una componente di coscienza sporca e di oblio indotto.
Per la precisione: indotto dalla vergogna, ammesso che certa gente sia in grado di provarne.

Offline AlenBoksic

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Re:Calcio jugoslavo, una storia gloriosa
« Risposta #9 : Martedì 7 Giugno 2016, 08:39:23 »
Grandissima e meticolosa ricostruzione
 ;)
L'unica cosa che aggiungo è che su Mario Stanić credo abbia agito in qualche misura Osim, visto che militava nella stessa squadra in cui aveva giocato il CT, lo Željezničar di Sarajevo.
Il rompete le righe effettivo lo possiamo situare nell'abbandono di Osim, vero garante dell'unità del gruppo, come lo era già stato ai mondiali assieme a Miljanić, di fronte alle crescenti pressioni delle varie nazionalità.
Quanto all'esclusione avvenne fuori tempo massimo e fu dettata da illogiche considerazioni di carattere politico,
ma questa è un'altra storia.

P.S.: Non sapevo la storia della dichiarazione di Pančev. Sempre attento il vecchio Kobra
:D
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Re:Calcio jugoslavo, una storia gloriosa
« Risposta #10 : Giovedì 9 Giugno 2016, 17:50:37 »
«Robert Prosinecki non era un granchè da vedere. Con la sua chioma bionda, trasandata e intrattabile, le guance barbute e un aspetto particolarmente vissuto, sembrava più un libertino appena rientrato da una notte di baldoria piuttosto che un mago moderno. Non avrebbe battuto nessun record in quanto a corsa o a contrasti fatti, e il suo debole per le Marlboro era superato solamente dalla sete di espresso, che beveva in quantità industriale. Ma Prosinecki aveva una destrezza nel tocco in grado di far parlare la palla. I suoi sontuosi mezzi tecnici creavano spesso accostamenti con Eric Cantona, e Redknapp capì che non erano affatto ingiustificati.
Certamente pochi giocatori di First Division avevano affrontato un tale talento. Una volta, contro il Rotherham, Prosinecki saltò il sempre più disorientato Alan Lee per quattro volte in rapida successione, con quel suo tocco talmente adesivo che il pallone sembrava incollato agli scarpini. Alla quarta volta, la sfortunata vittima del croato andò a terra.
l verdetto di Rednkapp? "È uno dei giocatori più forti che io abbia mai visto"»
Fonte: Roospanarine L., "Harry Rednkapp, the Biography", 2011
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Offline AlenBoksic

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Re:Calcio jugoslavo, una storia gloriosa
« Risposta #11 : Giovedì 16 Giugno 2016, 16:01:18 »
Finisce tutto con un signore di Klis che si ammazza sparandosi alla testa. Sergio Goycoechea, il vero eroe delle Notti Magiche, distende la mano, e la palla destinata alla rete viene respinta. Il mondo che fino ad allora aveva conosciuto frana. L’uomo di Klis non è il più intelligente, è solo il più spaventato. Ha capito che ormai il piano è inclinato. Che la sfera ha iniziato a rotolare e che da allora andrà sempre peggio. Ha paura, più di tutti, e la fa finita.

Poco prima. L’Orso è lapidario: “La squadra ha fatto moltissimo nonostante l’assedio della stampa e la totale assenza della Federazione. Fra due anni la Jugoslavia vincerà l’Europeo. Se non si spappola, se la curano, se la seguono. Ma so già che non sarà così. Che si avvereranno le previsioni peggiori”. Non ne può più Ivica Osim. Ha fatto da parafulmine per tutto il Mondiale. Sembrava che da casa aspettassero solo che la Nazionale perdesse. E ora che niente conta più, l’allenatore si toglie tutti i sassolini dalle scarpe. Difende ancora i suoi ragazzi, anche chi ha remato contro. Ma quelli a Belgrado, a Zagabria, devono solo vergognarsi. Andate a farvi fottere.

Quarto rigore. Il capitano Faruk Hadžibegić, il rigorista della squadra, si avvicina al punto di battuta. La stempiatura inizia già a fare il suo lavoro. I capelli sono ancora neri e resi più scuri dal sudore che li incolla alla fronte. Il caldo dell’Artemio Franchi di Firenze in estate è qualcosa che solo chi l’ha provato può descrivere. L’arbitro, l’elvetico Kurt Rothlisberger, lo fissa. C’è qualcosa che non va. Controlla il numero. Non tocca a te. Tocca al numero 7. Dragoljub Brnovic viene ridestato dal torpore, era a centrocampo che cercava la concentrazione per il quinto tiro. Si avvicina al dischetto, ma non è pronto. Parato. La storia dirà che l’arbitro si era sbagliato.

Flash. Maradona la può chiudere. La mette sul 3-1. Se non lo segna lui il rigore, allora chi? Parte. Parato. Flash. Stojokovic. E’ il suo mondiale. Deve d-i-m-o-s-t-r-a-r-e. Quante volte gliel’hanno ripetuto? L’occasione. Buttala dentro. Parte. Traversa. Flash. 120° minuto. L’arbitro fischia una mano a Burruchaga. E’ la vendetta dell’86. Quella volta fu fallo, ma il direttore di gara non la vide. Questa volta la vede, ma forse la mano non c’è. Si va ai rigori. Flash. Il Genio non è stato geniale. Un Mondiale anonimo. Osim l’ha messo spesso fuori. Dragan Stojkovic sembra di un’altra categoria. E’ proprio Pixie che lo mette in condizione di segnare. E’ fatta. E’ facile. Tiro. Alta.

L’arbitro sta sventolando un cartellino rosso. Siamo al 31° minuto del primo tempo. Diego Armando Maradona è ancora a terra che si rotola per il dolore. I replay, pochi a quei tempi, diranno che non si era fatto assolutamente niente. Ma l’arbitro non è dello stesso avviso e cade nella farsa del miglior calciatore del mondo. Il destinatario del provvedimento disciplinare è attonito. Sa, nell’ordine: di essere già ammonito, di lasciare la sua squadra in dieci per 60 minuti (non può prevedere che ci sarà anche la mezz’ora dei supplementari) e, soprattutto, sa di non aver fatto niente. Non vuole lasciare il campo. Non è giusto. Non per lui che solo qualche tempo prima ha lottato fra la vita e la morte. Colpito da una ginocchiata alla testa, con l’osso temporale sfondato. I medici hanno detto: morirà. Lui che sul rettangolo di gioco del Marakana di Belgrado corre e lotta come un diavolo per i colori della Stella Rossa ha detto: no. Io non muoio. E si è ripreso. E’ Rafik Sabanadzovic, è bosniaco, è considerato il figlio prediletto di Osim e oggi doveva marcare Maradona.

La situazione è tesa da morire. Gli analisti più fini hanno già previsto: ci sarà la guerra. Troppi cupi presagi. Ma forse si sbagliano. Forse andrà tutto bene. Forse, la Jugoslavia vincerà il Mondiale e forse questo servirà. Tutto si rimetterà a posto. Alla fine perché mai dovremmo scegliere di ammazzarci? Troveremo un compromesso. Un accordo. Ivica Osim, detto l’Orso, è nervoso, dentro la sua immancabile tuta dell’Adidas annuncia la formazione: Ivkovic, Spasic, Vulic, Hadzibegic, Jozic, Brnovic, Susic, Prosinecki, Sabanadzovic, Stojkovic, Vujovic. Battendo l’Argentina tutto può succedere, tutto si può ancora salvare…forse. Forza Plavi!

http://www.storiedelboskov.it/la-partita-che-poteva-salvare-la-jugoslavia/
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Offline DinoRaggio

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Re:Calcio jugoslavo, una storia gloriosa
« Risposta #12 : Domenica 13 Novembre 2016, 12:51:57 »







Da eurosport

Inviato dal mio ASUS_Z00ED utilizzando Tapatalk

E ra gisumin all'ùart!

La serie A è un torneo di limpidezza cristallina, gli arbitri non hanno alcunché contro la Lazio e si distingueranno per l'assoluta imparzialità, non ci saranno trattamenti di favore o a sfavore nei confronti di alcuno. Sarà un torneo di una regolarità esemplare. (19-8-2016)

Offline AlenBoksic

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Re:Calcio jugoslavo, una storia gloriosa
« Risposta #13 : Domenica 13 Novembre 2016, 19:28:55 »


La versione integrale per ErMata
 ;)



Le azioni salienti con un genio scatenato.
Yugonolstalgija
 :'(
Voglio 11 Scaloni

Offline Er Matador

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Re:Calcio jugoslavo, una storia gloriosa
« Risposta #14 : Lunedì 14 Novembre 2016, 09:29:06 »
Grazie mille per la versione integrale. ;)
Sensazioni di fronte a certe immagini? Tante, troppe.
Quella prevalente, rimanendo alla parte razionale, riguarda una componente di cui è rimasta minore traccia nella memoria: l'atletismo.
Nelle prodezze creative del Mago Dejan - come in quelle dell'Alieno, che coi plavi esordì solo a livello di Under 21 - tutto parte da un'impressionante forza sulle gambe.
Da cui un'esplosività che, abbinata a un'inventiva e una tecnica di stampo sudamericano, diventava inarrestabile anche per l'avversario disposto a usare le maniere forti.
Muscoli possenti quanto fragili, data la pessima abitudine di schierare gli atleti anche in presenza di stiramenti più o meno gravi, col risultato di cronicizzare la propensione a quel tipo di infortuni.
Ma, quando tutte le coordinate convergevano nella "giornata sì", in pochi si sono avvicinati in maniera così plastica al concetto di "immarcabile".
Dal filmato emerge anche la capacità di dividersi fra il tiki-taka ante litteram, con pallone letteralmente incollato al piede, e momenti di soffocante pressing collettivo da calcio totale all'olandese.
Testa permettendo, con quell'organico al completo non ce ne sarebbe stato per nessuno.
Anche perché, fra una Germania all'inizio della parabola discendente, una Francia ancora acerba e un'Italia non qualificata, solo l'Olanda avrebbe potuto impensierire lo squadrone di Osim.
E fuori dal campo? Con gli eventuali successi sarebbe davvero cambiato qualcosa?
Per quel che può valere, in una controstoria resa impossibile dai troppi fattori in gioco: a giudizio di chi scrive no.
Meglio: se ci si limita al raptus collettivo interno - più ci si allontana dai fatti più appare in questi termini, persino a chi l'ha vissuto direttamente - non è escluso che la labirintica e sempre spiazzante umoralità di quelle genti potesse seguire un percorso del genere.
Ma a dare fuoco a quelle polveri, sia pure infiammabilissime in proprio, fu almeno in parte una mano esterna.
E quella non si sarebbe fermata, neppure davanti a un Mondiale.

Offline AlenBoksic

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Re:Calcio jugoslavo, una storia gloriosa
« Risposta #15 : Mercoledì 23 Novembre 2016, 18:02:34 »
E fuori dal campo? Con gli eventuali successi sarebbe davvero cambiato qualcosa?
Per quel che può valere, in una controstoria resa impossibile dai troppi fattori in gioco: a giudizio di chi scrive no.
Meglio: se ci si limita al raptus collettivo interno - più ci si allontana dai fatti più appare in questi termini, persino a chi l'ha vissuto direttamente - non è escluso che la labirintica e sempre spiazzante umoralità di quelle genti potesse seguire un percorso del genere.
Ma a dare fuoco a quelle polveri, sia pure infiammabilissime in proprio, fu almeno in parte una mano esterna.
E quella non si sarebbe fermata, neppure davanti a un Mondiale.

Analisi condivisibile.
Sposterei un minimo la lancetta dalla parte dello sbocco positivo perché mi sovviene il filmato "The last yugoslavian team" in cui si vedono manifestazioni oceaniche a Sarajevo dopo la vittoria con la Spagna.
Uno shock nazionalistico del genere avrebbe sicuramente dato una discreta mazzata al nascente e fiammeggiante nazionalismo etnico, però...boh..certo è che la sorte ha regalato un bel fardello a capitan Hadžibegić

Tornando a bomba mi sono perso, complice anche l'incredibile disinteresse della stampa generalista, il 50imo compleanno del Genio Savićević,
un giocatore cui solo la forza degli interessi economici (pure quelli nascenti) ha tolto uno strameritato pallone d'oro.
Lo ricorderei con questo filmato


http://zonacesarini.net/2016/02/23/dejan-savicevic-il-genio/
Voglio 11 Scaloni

Offline SAV

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Re:Calcio jugoslavo, una storia gloriosa
« Risposta #16 : Giovedì 24 Novembre 2016, 01:47:02 »
Bello, Alen, però per vedere un gol ci abbiamo messo 5'23" su un video di 6 minuti e mezzo...

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Re:Calcio jugoslavo, una storia gloriosa
« Risposta #17 : Giovedì 24 Novembre 2016, 08:08:17 »
Il video dei gol l'ha rimosso Zubizarreta
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Offline carminelazio84

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Re:Calcio jugoslavo, una storia gloriosa
« Risposta #18 : Mercoledì 7 Dicembre 2016, 16:55:47 »
Che giocatori erano davvero forti!

Offline AlenBoksic

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Re:Calcio jugoslavo, una storia gloriosa
« Risposta #19 : Martedì 31 Gennaio 2017, 08:27:33 »
Safet Susic, meravigliosamente diverso

«Benchè sia una città, Sarajevo ha l’anima di un villaggio». In “La Bosnia e l’Erzegovina“, seconda tappa del reportage nei Balcani scritto tra il 1935 e il 1938, è probabile che Rebecca West abbia colto appieno l’anima più limpida della capitale bosniaca. Perchè, spiegava, a differenza di quanto avviene quando si confrontano piccoli e grandi centri, nella capitale bosniaca i «passaggi della mente», così come avviene per i fiumi e l’aria, non si inquinano, non tendono a indebolirsi. E la religione, spiegava l’autrice, non rappresenta un’eccezione, ma «irriga la città e la rende fresca come una rosa».

D’altronde, è risaputo che Sarajevo abbia storicamente seguito un percorso a sé, immersa com’è sempre stata in quell’orgoglio proprio di una città diversa ed emancipata dal mondo circostante. Una caratteristica che risale all’epoca degli imperi ottomano e asburgico, e che racconta di una città cosmopolita, civile e moderna, che si piace e che piace ai suoi abitanti. Essere sarajlije, cittadino di Sarajevo, per secoli ha rappresentato l’elemento principale in cui riconoscersi, a prescindere dalle vite parallele e separate che le varie religioni percorrevano per le vie della città, tutte unite intorno alla caršija, la piazza, il luogo di incontro per le varie anime che formavano il tessuto sociale. Diversità, certo, che tendevano comunque a unirsi intorno alla convivenza (zajednički život) e ai rapporti di vicinato (komšìluk), i principi etici alla base della convivenza sulle sponde della Miljacka.

È per questo che, almeno finché bombe e cecchini, ingerenze imperialiste e nazionalismi di ogni sorta, non hanno ritenuto opportuno devastare a più riprese questo delicato equilibrio, la tensione più accesa nella Sarajevo moderna è stata quella derivante tra lo Željezničar, la squadra dei ferrovieri, e l’Fk Sarajevo, il fiore all’occhiello del governo socialista. Nessun conflitto sullo sfondo, quanto una contrapposizione, come ricorda Paolo Carelli ne “Il Brasile d’Europa“, tra la squadra fondata con lo scopo dichiarato di «porre fine alla rivalità di matrice etnico-religiosa che hanno incendiato la Sarajevo calcistica nel decennio precedente, per riunire finalmente sotto un’unica bandiera cattolici e musulmani, ebrei e ortodossi», e quella che, voluta nel 1946 dalle autorità governative, avrebbe dovuto portare in alto il nome della capitale bosniaca. Derby accesi, raramente ad alta quota – con il calcio jugoslavo quasi monopolizzato dall’asse Belgrado-Spalato-Zagabria – ma sempre sentiti, con protagonisti che hanno segnato le diverse epoche del campionato balcanico. Con un passato segnato dai gol di Ferhatović e Živković, il Sarajevski derbi nel corso degli anni settanta è stato illuminato dalle giocate di Safet Sušić, fantasista sopraffino e idolo incontrastato del Koševo, lo stadio del Fk Sarajevo. Dieci stagioni, durante le quali, pur nella difficoltà di reperire dati ufficiali, si contano oltre 100 gol. Pochi trofei, qualche riconoscimento individuale, come il premio per il miglior giocatore del campionato nel 1979 e quello come miglior marcatore nell’anno successivo, ma tante, tantissime giocate che lo hanno iscritto per diritto nell’Olimpo del calcio.



Ma che tipo di giocatore era Safet Sušić? Per capirlo appieno è sufficiente citare una scena che appare nei primi minuti del capolavoro di Jean Pierre Jeunet, “Il favoloso mondo di Amelie“. La protagonista del film, in uno degli spezzoni in cui la voce narrante racconta la sua infanzia, per vendicarsi del dispetto subito dal vicino di casa, sale sul tetto e gli stacca ripetutamente l’antenna della tv, impedendogli di gustarsi le meravigliose azioni con cui Safet Sušić sta deliziando i tifosi del Paris Saint-Germain. Ecco, questa scena ci dice due aspetti del giocatore: intanto ci racconta di quanto Safet Sušić fosse l’idolo incontrastato della Parigi calcistica – e lo è tuttora, considerato che nel 2010 France Football lo ha premiato come miglior straniero del club francese, a discapito di nomi come Ronaldinho e George Weah – fantasista e finalizzatore che traghettò la compagine dell’Île-de-France nel calcio che conta. Ma non è né la coppa di Francia conquistata nel 1983, a bissare quella dell’anno precedente, né il primo storico scudetto arrivato nel 1986 a spiegare con completezza il “fenomeno Sušić, così come non gli rendono giustizia gli 86 gol e il numero imprecisabile di assist sfornati nei nove anni francesi. Semmai, più di ogni altra cosa resta la rabbia del vicino di casa di Amelie, letteralmente scippato dello spettacolo settimanale offerto da “Pape”.

Perché Safet Sušić ha stregato Parigi, Sarajevo e l’Europa intera per quel suo essere un trequartista geniale ma concreto, comprensibile, la nemesi perfetta del fantasista jugoslavo che, da Slišković a Prosinečki, passando per Stojković e Savićević, è rimasta scolpita nell’immaginario collettivo. È come se tra questi ultimi e Sušić corresse una sorta di Concilio di Trento sull’arte del dribbling: mentre difatti gli altri vivono e prosperano in un insieme di giocate – benché solo all’apparenza – confuse e astratte, Sušić regala emozioni fruibili anche al meno acculturato degli osservatori. Il suo genio è allo stesso livello degli altri, ma è più diretto, più comprensibile, estremamente popolare.

Sušić non ha altri vizi oltre l’uno contro uno. Lo adora, lo cerca, vuole il duello che lascia lo spettatore col fiato sospeso e lo fa esplodere quando l’avversario viene lasciato sul posto o cade sbilanciato. Non ci sono segreti: il gioco di Sušić è un misto di tecnica, rapidità d’esecuzione e uso del corpo nella protezione del dribbling. Per capirlo, è sufficiente vedere i primi due gol che l’allora giovane fantasista jugoslavo rifila all’Argentina nell’amichevole del 1979. È tutto molto semplice, poco vistoso, dannatamente mortifero. Il ritmo è cadenzato, mentre i tempi di gioco vengono confusi da un passo spezzato che rende il tiro un’ipotesi realizzabile in ogni momento. Caratteristiche che si notano ancora meglio in occasione della seconda rete, con un lineare taglio in diagonale e un dribbling secco ad anticipare un passo che, beh, chiedete a Miguel Angél Santoro se ancora oggi è riuscito a capirci qualcosa.



Alla fine è sufficiente questo per raccontare il Safet Sušić calciatore, caso raro di talento jugoslavo privo di congegno di autodistruzione. A guardare bene però, anche la sua carriera richiama una serie di rimpianti che è doveroso ricordare: il primo, non essere riuscito a consacrarsi ai livelli più alti del calcio mondiale, nemmeno con la Nazionale, con la quale partecipò alle fallimentari spedizioni ai Mondiali 1982 e agli Europei 1984, oltre alla sfortunata esperienza di Italia ’90. Il secondo, forse più nostro che suo, non essere riuscito a mostrare il suo talento nella Serie A degli anni ’80, all’epoca punto di arrivo per i talenti di tutto il mondo. Eppure qui una parentesi andrebbe aperta, perché, com’è ormai noto, la possibilità per Sušić di arrivare in Italia ci fu sul serio. Anzi ce ne furono due, e il problema fu che Safet scelse di coglierle entrambe, divenendo una sorta di “Figo ante litteram“. La stella bosniaca scelse prima il Torino, con l’accordo tra Bonetto e Moggi, sponda granata, e Nale Natelic, agente del calciatore, e poi l’Inter, con Beltrami che, appoggiato da Sandro Mazzola, concluse l’affare direttamente con la dirigenza del Fk Sarajevo. Alla fine, per farla breve, i trasferimenti vennero annullati e Sušić, “esiliato” dalla Serie A, diede il via alla meravigliosa esperienza francese.

Ce ne sarebbe un altro di rimpianto, e questa volta appartiene sia a Safet che a tutti gli appassionati di calcio: aver visto un Sušić solo, quando, in realtà, il destino ce ne avrebbe confezionati due. Difatti, la storia calcistica difficilmente ricorderà Saed, più grande di due anni rispetto al fratello e con un talento apparentemente di gran lunga più cristallino. Sembra che il suo fosse stato un caso unico di giocatore musulmano invocato dai tifosi della Stella Rossa, dove giocò tra il 1970 e il 1977, ma alla fine non riuscì mai a consacrarsi, perso in una miriade di campionato dal gusto esotico e poco professionale. Colpa di un carattere complicato e di comportamenti sopra le righe, tra cartellini strappati dalle mani degli arbitri e gesti inconsulti rivolti ai portieri avversari dopo il gol. Una volta, racconta Aleksandar Hemon su Blizzard, Sead Sušić uscì dallo Stari Sata di Sarajevo, dove aveva passato la notte a bere prima di partire verso l’ennesima avventura all’estero, e chiamò un taxi: «Parigi, grazie». Si riprese poco dopo, in tempo per fermare la corsa e tornare a casa, risparmiando una quantità difficilmente calcolabile di denaro. Però, l’inconscio era stato chiaro, in quel momento bisognava andare ad abbracciare il fratello. Safet e Sead, così diversi, così uguali, lontani chilometri e anni luce l’uno dall’altro. Idolo di Sarajevo il primo e di Belgrado il secondo, ma comunque legati indissolubilmente l’uno con l’altro, figli di una città, di un Paese e di un’epoca in cui la diversità era ricchezza e la caršija era abbastanza grande per tutti.

http://www.storiedelboskov.it/safet-susic-meravigliosamente-diverso/

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