Autore Topic: Palmira  (Letto 2464 volte)

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Offline disabitato

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Palmira
« : Venerdì 22 Maggio 2015, 00:06:48 »
L'Isis entra anche a Palmira e punta Damasco.
Il mondo guarda.

Scusate l'ingenuità: ma il mondo cosa aspetta a bombardare a tappeto le colonne del califfato?
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Offline Wild Bill Kelso

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Re:Palmira
« Risposta #1 : Venerdì 22 Maggio 2015, 00:57:23 »
La bomba atomica, unica soluzione.
Cosa? È finita? Hai detto finita? Non finisce proprio niente se non l'abbiamo deciso noi. È forse finita quando i tedeschi bombardarono Pearl Harbour? Col cazzo che è finita! E qui non finisce, perché quando il gioco si fa duro, i duri cominciano a giocare.

Offline Er Matador

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Re:Palmira
« Risposta #2 : Venerdì 22 Maggio 2015, 05:38:40 »
L'Isis entra anche a Palmira e punta Damasco.
Il mondo guarda.

Scusate l'ingenuità: ma il mondo cosa aspetta a bombardare a tappeto le colonne del califfato?
Aspetta che rovesci Assad, scopo per cui l'Isis è stato fondato, finanziato e addestrato da Usa e alleati.
Un colpo a Russia e Iran, alleati dell'attuale regime, e la destabilizzazione a tempo indeterminato di un Paese cruciale.
Perché una parte delle risorse energetiche giacenti sui fondali del Mediterraneo Orientale rientra nelle sue acque territoriali.
Perché di lì passano la nuova Via della Seta e il corridoio eurasiatico, che permetterebbero al Vecchio Continente di uscire dallo strangolamento del monopolio colonialista a stelle e strisce.
A proposito dei nostri attuali occupanti: durante l'invasione dell'Iraq, anche il sito di Babilonia subì gravi danneggiamenti da parte delle loro truppe.
Esigenze strategiche? Menefreghismo? Effetti collaterali? Nulla di tutto questo: i danni vennero causati deliberatamente, in sfregio a quella che nella Bibbia viene descritta in negativo per via della Cattività e della sua fama di città corrotta.
E questi dovrebbero difenderci da chi distrugge i Buddha di Bamiyan o il sito di Nimrud?
Il nostro errore è credere che la Bible Belt e il suo humus culturale siano più laici e civili dei loro corrispondenti sauditi.
E che gli interventi risolutivi debbano avvenire a valle (Isis e suoi simili) anziché a monte (Washington e Riad).

Offline Frusta

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Re:Palmira
« Risposta #3 : Venerdì 22 Maggio 2015, 07:41:33 »
Il nostro errore è credere che la Bible Belt e il suo humus culturale siano più laici e civili dei loro corrispondenti sauditi.
100%
Lazio, ti amo con tutta la feniletilamina, l’ossitocina, la dopamina e la serotonina che mi circolano nel cervello, che rendono il mio pensiero poco logico e che mi procurano strane sensazioni in tutta l’anatomia e battiti sconclusionati nell’organo principale del mio apparato circolatorio.

Offline AlenBoksic

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Re:Palmira
« Risposta #4 : Venerdì 22 Maggio 2015, 10:45:00 »
Palmira, addio al gioiello che il raiss Assad ha protetto e l’Occidente ha lasciato solo

La città patrimonio dei monumenti ellenistici


Probabilmente quelli dello «Stato islamico» di Al Baghdadi ci sopravvalutano, hanno un troppo alto concetto di noi.

 Nella loro barbara ma lucidissima logica e nell’intento di provocarci e d’indignarci fino al punto di farci reagire alla cieca per dimostrare al resto dell’Islam sunnita che i «crociati occidentali» li odiano, dal momento che le decapitazioni non bastano adesso provano con le distruzioni di splendide, insostituibili opere d’arte. 

Non riusciranno nemmeno in tale intento. Ma, in attesa che ci privino di una delle Meraviglie del Mondo, riflettiamo: che cos’è Palmira, che molti italiani conoscerebbero se non le avessero preferito le Seychelles o le Mauritius? 

Semplicemente una gloria del genere umano, una città ellenistica di assoluta bellezza e molto ben conservata. In Siria, tra Eufrate e Mar di Levante, s’incrociavano fino dall’antichità remota le vie commerciali che collegavano la Cina con il Mar di Levante (la «Via della Seta») e quelle che dai porti meridionali della penisola arabica, dove approdavano le flottiglie provenienti dalla Indie, risalivano fino a Damasco per proseguire verso l’Anatolia (la «Via delle Spezie», o «degli Aromi»). 

I romani conoscevano poco del subcontinente indiano, che fino dal tempo di Alessandro Magno i geografi avevano fasciato di fantastiche leggende, mentre i Seres, i cinesi, erano per loro poco più di un puro nome. Eppure le sete, i bronzi, le gemme, gli aromi pregiati per farne profumi e unguenti arrivavano in quantità sino al Caput mundi.

E tutto passava da quei fasci di piste carovaniere che convergevano in un’area ristretta fra gli odierni Libano, Siria e Giordania. Fungevano da collettori di essi alcune città-mercato, le «città carovaniere» ch’erano altrettante città-stato rette da un’aristocrazia di mercanti-predoni di stirpe araba, come gli idumei, i sabei, i nabatei. Queste città carovaniere, che l’opulenza dei loro padroni aveva fatto diventare degli autentici capolavori dell’eclettica arte ellenistica, si chiamavano Baalbek, Jerash, Petra: e ancor oggi le loro rovine incantano, ci lasciano senza parole. 

Ma Palmira, al centro di una sterminata oasi dal quale prendeva il nome (Tadmor, «la città dei datteri») era senza dubbio la più splendida. Il piccolo prospero regno che essa si era costruito attorno, «cuscinetto» tra l’impero romano e quello parto-persiano, assurse nel corso del III secolo d.C. a una tale fama e a una tale potenza che i romani, suoi confinanti occidentali, si resero conto di non poter fare a meno di conquistare se volevano dominare le vie carovaniere e assicurarsi la frontiera che guardava la loro grande avversaria, la Persia.

Era allora sovrano di Palmira l’abile e colto Odenato, che morì lasciando il regno nelle mani del figlio. Ma la vera padrona del potere era una donna, la terribile e affascinante Zenobia: una di quelle inquietanti figure femminili che hanno dominato il mito e la storia orientale antica - da Hautshepet alla leggendaria regina di Saba, a Semiramide, a Pentesilea, a Sofonisba, a Tomiri, a Cleopatra, fino alla stessa Giulia Domna moglie di Settimio Severo - tutte memoria, forse, di fasi arcaiche segnate dal matriarcato regale.

Contro l’autocratica signora che trattava da pari a pari i Cesari di Roma e i Gran Re di Persepoli dovette scendere in guerra l’imperatore Aureliano, il cui culto monoteistico-solare trionfa anche negli stessi splendidi monumenti dell’arte palmirena. Zenobia, sconfitta nel 272, venne condotta a Roma dove rifulse come la preda più splendida del trionfo imperiale.

Da allora, Palmira si avviò lentamente sul viale del tramonto: che fu tuttavia lungo, perché ancora nel XII secolo il sultano Saladino l’arricchì di una formidabile fortezza. Più tardi dimenticata e ridotta a cava di pietre come altre sue consorelle, fu riscoperta nel secolo XIX grazie a scavi soprattutto inglesi e tedeschi. Fino a ieri, costituiva uno dei siti archeologici più noti e visitati del mondo. Il governo siriano manteneva in perfetto stato la sua area archeologica e aveva dotato il territorio circostante di ottimi alberghi e di eccellenti strutture turistiche. Ma nel 2011 il presidente francese Sarkozy e il premier britannico Cameron decisero che Bashar al Assad era un dittatore da abbattere e appoggiarono a tale scopo i suoi oppositori armati, tra i quali forti erano gli jihadisti. Adesso abbiamo dinanzi agli occhi, a Palmira, gli esiti di tale dissennata politica: che naturalmente molti media occidentali cercano di attribuire al solo fondamentalismo islamico. 

Franco Cardini
http://www.lastampa.it/2015/05/22/esteri/palmira-addio-al-gioiello-che-il-raiss-assad-ha-protetto-e-loccidente-ha-lasciato-solo-IQ4GSwrnZyeKd7zMiJ7lcO/premium.html
Voglio 11 Scaloni

Offline DinoRaggio

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Re:Palmira
« Risposta #5 : Venerdì 26 Giugno 2015, 18:51:51 »
La cosiddetta Primavera Araba col passare del tempo ha lasciato posto ad un'estate bollente, una continua serie di guerre fra popoli e tribù varie per la conquista del potere. Cinicamente, i dittatori garantivano una sorta di controllo ferreo su quei territorio, altrettanto cinicamente non so che cosa ora preferiscano i popoli che abitano quegli stati e quei territori, se la dittatura o il terrore al quale sono stati condannati anche dagli "esportatori di democrazia".
E ra gisumin all'ùart!

La serie A è un torneo di limpidezza cristallina, gli arbitri non hanno alcunché contro la Lazio e si distingueranno per l'assoluta imparzialità, non ci saranno trattamenti di favore o a sfavore nei confronti di alcuno. Sarà un torneo di una regolarità esemplare. (19-8-2016)

Offline cartesio

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Re:Palmira
« Risposta #6 : Sabato 27 Giugno 2015, 19:00:22 »
Il nostro errore è credere che la Bible Belt e il suo humus culturale siano più laici e civili dei loro corrispondenti sauditi.

Sottoscrivo.
e ffforza lazzzio

Ai nostri giorni si può scegliere la propria religione, Hadouch, ma non la propria tribù. D. Pennac, La Prosivendola.

Giglic

Re:Palmira
« Risposta #7 : Sabato 27 Giugno 2015, 21:22:56 »
C'è una differenza sostanziale, anche se non dipende da nessuno dei due.

Offline chemist

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Re:Palmira
« Risposta #8 : Lunedì 29 Giugno 2015, 16:25:44 »
La Turchia decide oggi l'intervento militare in Siria per mettere in sicurezza i confini con la Siria. Non perche' realmente preoccupata dall'ISIS, ma piu' probabilmente perche' preoccupata a  limitare le avanzate curde che recentemente hanno preso all'ISIS un'importante citta' (Tal Abyad) che collegava la loro capitale Raqqa al confine turco, permettendogli di far entrare armi, approvvigionamenti e combattenti. I curdi sono a 50km da Raqqa, per i turchi questo e' un fatto pericolosissimo.
Dunque l'ultimo baluardo di civilta' e democrazia (cosi' come noi la intendiamo) che cosi' efficacemente sta combattendo sul terreno i pazzi sanguinari, a costo di immani sacrifici (basta vedere cosa e' successo a Kobane in questi ultimi giorni), verra' minacciato anche dai turchi al nord. Voi che ne pensate? Secondo me questa cosa e' gravissima.

Offline Er Matador

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Re:Palmira
« Risposta #9 : Martedì 30 Giugno 2015, 08:59:12 »
Giusta sottolineatura, chemist: il ruolo dello Stato turco è un buco nero fra i più inquietanti nella sporca faccenda dell'Isis.
Che Ankara rientri tra i principali finanziatori è un fatto tanto mistificato in una prima fase quanto ormai acclarato: ma in base a quali logiche?

Forse, più che puntare a una spiegazione esaustiva, è il caso di ragionare in termini di concause strettamente intrecciate fra di loro.
Una concerne il ruolo, sottolineato fino alla noia, dell' "alleato turco" all'interno della NATO: ma questa sembra solo una componente accessoria, dato che troppe sfumature antepongono la soggettività del Paese kemalista alla sua mera appartenenza atlantica.
La sensazione è che tutto ruoti attorno alla figura di Recep Tayyip Erdoğan.

Salutato da molti come esempio di una "democrazia cristiana islamica", in grado di mediare con le istanze religiose, ha brillato soprattutto nel saper proporre il suo Paese come un prisma: occidentale con Europa e Usa, islamista moderato con gli Stati arabi più evoluti, fervente musulmano e fautore di una reislamizzazione con gli altri, turanico con le ex Repubbliche sovietiche turcofone.
Tanta abilità nel giocare su più tavoli ha trasformato la Turchia in un vero e proprio hub, uno snodo cruciale non solo nell'attrarre capitali: da non confondere comunque con un'autentica crescita, poiché l'apparato industriale e manifatturiero sottostante al vorticoso giro di soldi rimane un fragilissimo basamento d'argilla.
Comunque lo si giudichi, di tutto questo si parla ormai al passato: il leader dell'Akp è da tempo uscito dai binari, in un'escalation a metà strada fra tentazioni autoritarie, attacchi sempre più diretti ai fondamenti dello Stato kemalista, velleità neo-ottomane, farneticazioni neo-califfali, culto della personalità, il tutto condito da dubbi sempre più ricorrenti sulla sua salute mentale.
Se la sua prima fase rimane quella di un leader aggressivo e congenitamente unilaterale, ma sostenuto da risultati concreti, l'insano superomismo costituzionale e geopolitico cui si è votato in seguito gli sta sottraendo il controllo della situazione.
Il rinascimento religioso da lui voluto dopo decenni di laicismo forzato ha prodotto un effetto non previsto, anche per una conoscenza della Storia ottomana troppo opacizzata dalla propaganda: il riaffiorare delle comunità presenti nell'Impero, non solo di quella turca e sunnita.
I rum, ad esempio: benché ridotti a poche migliaia dai pogrom facendosi beffe degli accordi con la Grecia sullo scambio di popolazioni, i greco-ortodossi rimangono un gruppo estremamente vitale e organizzato.
Che ha riproposto con forza una questione passata in secondo piano negli ultimi anni, come la riapertura del seminario di Khálki in cui formare le nuove leve del loro clero.
Ma lì si tratta di una minoranza numericamente esigua, sia pure dal valore simbolico inestimabile.
Diversa la questione relativa ai curdi, la cui consistenza si misura in decine di milioni.
Ad aggravare la situazione dal punto di vista di Ankara è soprattutto l'atteggiamento della pubblica opinione, anch'esso oggetto di un ritorno al passato.
Giova ricordare che la persecuzione dei curdi è un'invenzione del laicismo etnomaniacale di Kemal Atatürk: probabilmente dovuta alla necessità di puntellare con un nemico pubblico un concetto, quello della razza turca, sin lì inimmaginabile.
Prima di allora, le leggi dell'Impero e il senso comune organizzavano i popoli dell'area in comunità religiose: i curdi maomettani condividevano coi turchi l'appartenenza alla millet sunnita; quelli di religione alevita, yazida, zoroastriana, cristiana o che altro mantenevano come referente, in maniera più o meno mimetizzata, la propria comunità.
Le più accese rivalità, come quella con gli Armeni, nascevano più dal contrasto fra uno stile di vita seminomadico e uno stanziale che da questioni etnoreligiose.
Tant'è che, soprattutto dopo essere stati inquadrati in milizie dal Sultano Rosso Abdul Hamid II, furono proprio i curdi a spalleggiare i turchi nel Genocidio Armeno fornendo la soldataglia.

Tutto questo trascorso giacente sotto una conflittualità artificiale e imposta sta riemergendo nella pubblica opinione, allentando pregiudiziali che solo un decennio fa apparivano inamovibili.
Ne fa fede la fotografia del Paese uscita dalle elezioni parlamentari del 7 giugno.
L'Akp, il partito di Erdoğan, ha perso dopo anni la maggioranza assoluta.
Il Chp, fondato da Kemal Atatürk, continua a rappresentare un quarto dell'elettorato.
I nazionalisti dell'Mhp salgono al 16%.
Il partito dei popoli di Selahattin Demirtaş (Hdp), in partenza una sorta di Herri Batasuna curdo, rompe gli argini superando lo sbarramento del 10% e mettendo piede per la prima volta in Parlamento.
Cosa dedurne?

1) Il vulnus al sin qui indiscusso carisma di Erdoğan conferma le inquietudini suscitate dal suo sempre più esasperato personalismo

2) I kemalisti perdono un punto e non approfittano del calo dell'Akp che li aveva scalzati, dimostrando una spinta propulsiva per il momento esaurita

3) L'Hdp curdo non solo cresce nei consensi, ma estende la propria base elettorale a Smirne e ad altre aree a bassa densità curda: votato dal ceto medio più preoccupato (cfr. punto 1) come un partito "normale", quindi per la prima volta nazionale e non semplicemente etnico

4) L'affermazione dei nazionalisti, paradossalmente, segna lo scivolamento delle loro istanze dal mainstream a un movimento numericamente minoritario: i curdi escono politicamente dal ghetto, loro vi entrano

Un simile terremoto, che rischia di creare una vicenda belga nella formazione del governo o in alternativa nuove elezioni, ha portato la tensione alle stelle.

Mentre i turchi abbassano la guardia e i curdi di Turchia rialzano la testa, i loro omologhi prendono una forma sempre più compiuta in altri Paesi.
In Iraq, la no-fly-zone settentrionale ha evidenziato capacità di autogoverno e di buona amministrazione al di là di ogni aspettativa, garantendo stabilità e sicurezza finché gli Usa non si sono lanciati nella catastrofica Seconda Guerra del Golfo.
In Siria, dove pure erano distribuiti in maniera meno compatta e identificabile, stanno tenendo testa a dei criminali invasati e ipersponsorizzati con un eroismo da soli contro tutti.
Davvero troppo per il ràs di Ankara, che ha recentemente tuonato contro la formazione - mai evocata, fra parentesi - di uno Stato curdo in Siria.

L'escalation militare al confine con Damasco rappresenta, dunque, un punto di convergenza per:

a) appartenenza ribadita all'ambito atlantico

b) Velleità di espansionismo territoriale

c) Volontà di mettere fuori gioco a tempo indeterminato un competitor per le risorse energetiche sottomarine, in acque territoriali contese anche da Grecia e Cipro (entrambe saltate per aria, che coincidenza)

d) Una strizzatina d'occhio a Israele dopo qualche tensione di troppo negli ultimi anni

e) Un tentativo di invertire la tendenza sul fronte curdo

f) Un'esibizione di muscoli per il narcisismo e l'irrequietezza di un leader dall'equilibrio comportamentale sempre più precario

Uno scenario davvero preoccupante: anche per il rischio destabilizzazione ad Ankara, con l'effetto domino incontrollabile che potrebbe derivarne.

Offline Andre

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Re:Palmira
« Risposta #10 : Martedì 30 Giugno 2015, 09:22:10 »
(Sai che, in senso buono, a volte incuti timore ? Esiste un argomento che non conosci o sul quale non ti documenti in maniera più che approfondita prima di intervenire ?)

Inviato dal mio HTC One utilizzando Tapatalk

da qualche parte la Lazio è in vantaggio (V.)

Offline chemist

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Re:Palmira
« Risposta #11 : Martedì 30 Giugno 2015, 16:10:28 »
Ottimo matador come al solito.

Sara' interessante vedere i precari equilibri che si formeranno con gli Stati Uniti, che in questa fase hanno trovato nei curdi dei validissimi "boots on the ground", e che iniziano ad irritarsi dall'osteggiante atteggiamento turco.

Per chi volesse documentarsi da un punto di vista curdo, io leggo quotidianamente questi due siti:

ekurd.net
e
rudaw.net (in inglese)

Offline AlenBoksic

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Re:Palmira
« Risposta #12 : Lunedì 6 Luglio 2015, 11:33:58 »
ALL’ARMI ALL’ARMI, LA CAMPANA SONA, IL CALIFFO E’ SBARCATO ALLA MARINA…

Chi attacca? Chi è attaccato?

Di primo pomeriggio del 26 giugno mi chiamano affannosamente da due o tre quotidiani e debbo mettermi al lavoro con fretta febbrile. Tragiche, terribili notizie provengono da Lione, dalla Tunisia, dal Kuwait e dalla Somalia. E dal canto mio la cosa che mi sorprende, mi fa da una parte quasi ridere e dall’altra – lo confesso – mi spaventa è una coincidenza tra il fascinoso e l’agghiacciante. Appena il display del mio PC si è liberato della foresta iniziale di simboli e di sigle, quel che la invade è una luminosa visione del deserto tunisino: dune dorate a perdita d’occhio all’orizzonte, una coppia d’innamorati dinanzi a una tavola e a due coppe di champagne, in primo piano una cortina di lampade arabe di delicatissimo argento traforato. Ho pensato con una stretta al cuore che magari, qualche giorno fa, è stata proprio quell’immagine serena e fiabesca a condurre qualche ignaro turista al resort di sogno nel quale ha trovato la morte.

Mentre scrivo, il mio eterno hi-fi spande sulle colline di Firenze che si vedono dal mio studio le note della Sheherezade di Rimski-Korsakov (la colonna sonora del Lawrence d’Arabia interpretato da Peter O’ Toole: ricordate?). Più sogno d’oriente di così…E io mi chiedo, quasi atterrito: ma chi, ma che cosa ci sta circondando di tanto funesti presagi? In quale maledetto gorgo d’orrore stiamo per naufragare, o siamo già naufragati?

Calma. Tanto per parafrasare un noto adagio, è quando il gioco si fa serio che le persone serie debbono cominciar a giocare. Che cosa mai sappiamo di quel che è successo? Non fatevi accalappiare da chi, sui giornali o in TV, ve lo ha subito spiegato a colpi dei soliti luoghi comuni, sostenendo che tutto si tiene; che i disperati di Lampedusa, i tagliatori di teste di Lione e gli assassini di turisti sono la stessa cosa, una-faccia-una-razza; e che i musulmani vogliono portarci via o la vita o l’anima e che noi non dobbiamo dar loro né l’una né l’altra.

Purtroppo, un avvenimento non è ancora un fatto: ne è solo un sintomo. E anche due, tre, quattro, dieci, cento avvenimenti non sono ancora altrettanti fatti. Abbiamo avuto un episodio di sangue in una fabbrica francese, una testa umana separata dal corpo, una bandiera nera dell’ IS, un responsabile subito acchiappato ma che forse ha ancora dei complici a piede libero; una quarantina di turisti occidentali massacrati in un elegante resort di Sousse a sud-est di Tunisi, da un tizio (ma forse erano di più) che pare sia un ingegnere (come se “la cultura” mettesse al riparo dal fanatismo; e come se avere una laurea significasse aver cultura…); un’altra trentina di morti e circa duecento feriti in un attentato di un kamikaze sunnita nella moschea sciita di Al-Imam al-Sadek in Kuwait; un’autobomba lanciata contro le forze delle truppe di peacekeeping dell’Unione Africana a Leego in Somalia, 130 chilometri a sud di Mogadiscio, seguita da una sparatoria provocata dalle milizie di al-Shabaab, legate ad al-Qaeda, con un’ulteriore trentina di morti.

E qui si delinea anche se è ardua a comprendersi la logica interna di questi avvenimenti: essi divengono fatti. L’avvenimento, cioè l’evento (da evenire), è qualcosa che avviene, che càpita; il fatto (da facere) richiede in qualche modo l’intervento umano, sia pure soltanto sotto forma esegetica; e per sua intrinseca natura necessita d’interpretazione. Ora, non c’è bisogno di essere più decostruzionisti di Derrida per obiettare che quel che interessa dei fatti non sono i fatti in sé, bensì la plausibilità della loro interpretazione: ma le interpretazioni possono essere molteplici. A fatti del genere siamo ormai purtroppo abituati. Per tacere i precedenti – dal Vicino Oriente al sudest asiatico all’Africa all’America latina -, è dai tempi della crisi balcanica (vale a dire da un quarto di secolo) che viviamo in queste condizioni – altro che Anni di piombo… -, nonostante il nostro felice Occidente, che si riteneva un’isola più o meno immune dalla violenza che magari esportava nel mondo, sembra essersi accolto di esserne coinvolto anche come vittima solo dall’indomani dell’11 settembre 2001. Peraltro, abbiamo fino ad oggi convissuto con l’orrore quotidiano senza farcene poi troppo scuotere: come se un afghano o un irakeno o un somalo o un nigeriano, se feriti a morte, soffrissero di meno (o valessero di meno) di un americano o di un europeo. Anche nel quadruplice evento del 26 giugno scorso (a parte comunque il caso di Lione, che si va rivelando piuttosto come una faccenda di vendetta privata travestita da operazione terroristica), la quarantina di morti europei di Sousse ci ha fatto incommensurabilmente più impressione della settantina (feriti a parte) di morti tra Kuwait e Somalia: ma i nostri opinion makers, al solito, starnazzano di attacco all’Occidente e continuano a ignorare o a sottovalutare la fitna, la guerra intermusulmana tra sunniti e sciiti, tra sunniti “jihadisti” e sunniti “moderati”, tra sunniti “jihadisti” di differenti tendenze come quelli dell’IS e quelli dei vari rami di al-Qaeda.

L’Occidente quindi, e in particolare l’Europa, sono senza dubbio coinvolti: ma dev’esser chiaro che una cosa sarebbe l’attacco musulmano diretto ed esclusivo contro la “fortezza crociata”, lo Scontro di Civiltà, che è reale solo nelle architetture ideologico-politiche di qualche teorico islamista e nelle non innocenti “ricostruzioni” esegetico-pubblicistiche di quelli che da noi fantasticano di musulmani che vorrebbero portarci via “la vita o l’anima”; mentre un’altra sarebbe se si è dinanzi a un’offensiva di alcuni musulmani diretta prevalentemente contro altri, ma che coinvolge anche gravemente il mondo non-islamico.

E’ comunque un fatto che gli attentati ci siano stati e che ci si debba aspettare ancora qualcosa del genere, magari di peggio. Essi, chiunque li metta in scena, servono a intimidire o a indignare: cioè, in tutti e due i casi, sono segnali che hanno come obiettivo l’indurre l’avversario a valutazioni e a mosse sbagliate. E più la cosa sembra chiara, più è ingarbugliata. Gli episodi dell’11 settembre 2001 a New York e a Washington e del 7-10 gennaio 2015 a Parigi dovrebbero ben averci insegnato qualcosa (per quanto vi sia da dubitarne).

Lasciamo quindi ad altri il blaterare sullo Scontro di Civiltà e il farneticare sulla chiusura delle frontiere (la globalizzazione, nella e della quale viviamo tutti, significa anzitutto impossibilità di chiudere la frontiere; tanto più che gli attentatori di solito ci arrivano dall’interno di esse). Chiediamoci invece: chi può aver interesse a farci cadere nell’incubo – degno degli scenari del film Matrix – di una guerra totale scatenata dal Grande Satana Musulmano contro il libero e civile Occidente? E chi può giovarsi di un mondo nordafricano – una delle principali risorse delle quali è da decine di anni il turismo occidentale – preda del terrore e abbandonato dai suoi abituali prosperi visitatori? E che cosa significa l’accaduto, se non un nuovo anello della lunga catena di violenze e di delitti alla quale speravamo che le “primavere arabe” mettessero fine, mentre il loro fallimento ha segnato invece un passo avanti nella guerra senza quartiere delle differenti forze che si agitano nell’universo islamico?

La sincronia tra l’episodio lionese e quello tunisino era senza dubbio impressionante: tuttavia, era ingannevole. Si trattava a quanto apre di un episodio di vendetta che il protagonista aveva cercato di camuffare da attentato politico-religioso. Teniamolo presente, dovunque ciò torni a capitare. Una bandiera nera non basta e comunque non è una prova: può essere il biglietto da visita del regista al-Baghdadi, ma anche semplicemente l’insegna di un’adesione unilaterale e solitaria; o magari l’alibi sventolato (è il caso di dirlo) da qualcuno che ha interesse a farci vedere le cose diverse da come sembrano. Pensate a Matrix, appunto.

La vera domanda da porci oggi non è quindi tanto e soltanto chi abbia armato le mani degli attentatori di Sousse, di Kuwait City e di Leego, e se essi dipendano (e in quali modi) da una stessa centrale o da più centrali fra loro collegate o meno, quanto se ciò condurrà o no a una risposta del mondo occidentale – e dello stesso Islam – a quello Stato Islamico che ormai da molti mesi sembra unanimemente condannato il “nemico pubblico Numero Uno” della società civile mondiale ma contro il quale – a parte un pugno di guerriglieri e guerrigliere curdi, un po’ di soldati dell’esercito regolare siriano e alcuni volontari iraniani – nessuno o quasi si muove, a cominciare dagli Stati Unit paralizzati dal braccio di ferro tra il presidente Obama e il Congresso; e pare anzi perfino che qualche forza “filoccidentale” protegga il califfo. I turchi, ad esempio, che intendono fermamente impedire il profilarsi di uno stato curdo alle loro frontiere meridionali.

Poche migliaia di fanatici di varia provenienza musulmana, col pittoresco contorno di alcuni foreign fighters occidentali e un buon gruppo di quadri del vecchio esercito sunnita, socialista e praticamente ateo dell’esercito di Saddam Hussein: sono queste le forze armate del califfo. Ma la sua forza più vera è quella mediatica, quella propagandistica: qui siamo davanti a un conflitto che è anche virtuale, e da questo punto di vista l’IS è forte. E da chi prende fondi, da chi acquista armi, a quali lobbies vende il petrolio che continua a estrarre? Queste le domande alle quali l’ONU e i servizi occidentali dovrebbero rispondere: ed è impossibile che non abbiano informazioni per farlo.

Ma tutto tace, tutto è oscuro. Quel che sappiamo è che i due paesi più forti e più filoccidentali del mondo arabo-musulmano vicinorientale, l’Egitto semineonasseriano di al-Sisi e l’Arabia saudita wahhabita per il momento sono uniti, nonostante si detestino allegramente, per schiacciare non già al-Baghdadi bensì gli sciiti dello Yemen, gente che senza dubbio non ama i jihadisti: ed ecco un’altra “guerra dimenticata”, come quella che negli Anni 0ttanta Saddam Hussein, istigato dagli americani, scatenò contro l’Iran. Quante contraddizioni, quanti voltafaccia, quanto oblio… Notte e nebbia.

C’è del metodo, in questa follìa…

Quando qualcuno commette qualcosa di orribile contro qualcun altro, i casi sono due: o è molto arrabbiato con lui o agisce freddamente in quanto qualcuno l’ha pagato o comunque indotto al crimine. E quando qualcuno subisce un atto di violenza, o se ne sente comunque direttamente toccato, l’intenzione di chi l’ha colpito può avere di solito due soli scopi: l’indignarlo o l’intimidirlo. Comunque, l’indurlo a una risposta affrettata ed errata.

E alla base dell’errore di valutazione, in questi casi, c’è il semplicismo: chi, se non un pazzo fanatico, può macchiarsi appunto di un atto di fanatica pazzia come il decapitare un suo simile? E chi può essere così folle, così irresponsabile, da massacrare degli innocenti turisti oltretutto portatori non solo di valuta pregiata in un paese che ne ha estremo bisogno, ma soprattutto segno evidente che il mondo non si è lasciato scuotere più di tanto dai massacri come quelli del 19 marzo scorso nel Museo del Bardo di Tunisi e prova quindi, secondo gli attentatori, che si deve alzare il tiro e far di peggio per provocare il fuggi-fuggi generale, il si-salvi-chi-può suscettibile di gettare un paese intero nello scompiglio e nella miseria, di screditare per sempre il suo governo, di provocare magari dure e indiscriminate rappresaglie? In fondo, proprio a Tunisi, le bombe americane e israeliane di una trentina di anni fa se le ricordano ancora… Mentre noi abbiamo dimenticato le elezioni del dicembre del 2013, tutt’altro che ineccepibili, che portarono al governo una composita formazione “laica” e provocarono un discreto numero di arresti e una repressione (prontamente approvata dai governi occidentali e taciuta dai nostri media ) contro i gruppi fondamentalisti: il che deve aver fatto per reazione il gioco di al-Qaeda e poi dell’IS.

Suona dunque ancora saggia ed efficace, mezzo millennio circa più tardi, la battuta del buon Orazio dell’Amleto di Shakespeare dinanzi all’ostentata insensatezza del principe di Danimarca: “C’è del metodo in questa follìa…”.

Proviamo a partire da qui; proviamo a ordinare, movendo da due episodi terroristi differenti per località e qualità ma legati anzitutto da una semisincronicità ardua a credersi casuale, i “fatti” che potrebbero sembrare delle prove mentre sono ancora solo degli indizi.

Da dove viene la regia dei recenti attentati? Ce n’è davvero una sola? Davvero IS e i vari rami di al-Qaeda sono in grado di controllare e coordinare una complessa e disciplinata “piramide di comando”? Oppure, come accadeva nella “classica” al-Qaeda, siamo dinanzi a una maglia di cellule autonome e autocefale, una rete di gruppi che perseguono analogo compito e ostentato segni e riti simili (la decapitazione, ad esempio), magari in concorrenza e spesso in lotta. E tutto ciò sempre ammesso che il linguaggio esplicito delle prove dinanzi con le quali siamo chiamati a confrontarci non nasconda un inganno: che cioè per esempio l’attacco ai turisti di Sousse non sia qualcosa di simile al Reichstag incendiato del 1933 o allo Harvey L. Oswald, il “comunista “ presunto attentatore di John F. Kennedy provvidenzialmente caduto sotto i colpi di un “vendicatore”. Lo abbiamo già ripetuto altre volte, l’indignato grido del Gran Sacerdote dinanzi all’enormità delle supposte evidenze: “Che bisogno abbiamo di testimoni?”, abbiamo ripetuto con Caifa l’11 settembre del 2001 per le “Due Torri” e poi il 7 gennaio del 2015 per quelli di “Charlie Hebdo”. Eppure, su entrambi quei due casi, pur ancora richiamati e celebrati, il silenzio e l’oblìo sono di fatto caduti ben prima che ricevessimo, a proposito delle responsabilità e dei mandanti, le risposte che attendevamo e che in parte fingevamo di avere già avuto. Ad esempio, il governo tunisino ha risposto all’attentato di Sousse chiudendo un’ottantina di moschee nel paese: tutte centri di gruppi davvero sospetti di poter nascondere un’attività di appoggio o una tendenza alla simpatìa nei confronti dell’IS, oppure semplici oppositori del governo di Tunisi? E se la repressione politica è stata la risposta all’attentato, chi ci dice che esso non sia stato in qualche modo provocato da chi aveva appunto interesse a costituirsi un alibi per quel tipo di risposta? Da noi, alcuni imbecilli hanno lodato il governo di Tunisi e hanno auspicato anche da noi al chiusura di almeno alcune moschee: ma, a parte il fatto che in Italia non ce ne sono ottanta, chi ha alzato in tal senso la voce ha dimenticato che oggi in tutti i paesi musulmani aprire una nuova sala di preghiera è in un modo o nell’altro il mezzo più semplice per essere esentati da alcune tasse: altro che “jihadismo”…

E allora, cerchiamo di esser chiari. Il punto vero non è stabilire che il califfo è una specie di grande capo dell’Organizzazione Spettro come nei film di 007 e che è il “Pericolo pubblico Numero Uno” della società mondiale, quanto capire com’è stato possibile che una minaccia nata alcuni mesi fa tra un Iraq che mai si era ripreso dopo l’aggressione del 2003 e una Siria che la Francia di Hollande e l’Inghilterra di Cameron avevano deciso fin da quattro anni fa di destabilizzare abbia finito per partorire un grottesco mostriciattolo predicante e nerovestito che però ha unito come d’incanto una pittoresca – eppure efficace e ben disciplinata – legione straniera di musulmani sunniti estremisti provenienti da tutto il mondo, di ex ufficiali irakeni baathisti e saddamisti, quindi “laici” fin quasi a un “laicismo” semiateo (altro che jihad!...) degno di Mustafa Kemal Atatürk, e con essa spadroneggia tra Siria e Iraq trovando una resistenza solo in quel che rimane degli eserciti irakeno e siriano lealisti, in un pugno di curdi splendidamente coraggiosi e in alcuni volontari iraniani. Chi continua a finanziare e ad armare il califfo, chi compra il petrolio pompato dai pozzi che egli controlla? Fuori i nomi delle lobbies che sostengono i cacciatori di teste e delle centrali che riciclano i suoi soldi, subito!, è stato chiesto: senza che nessuno abbia risposto.

Intanto, la voce di Hollande s’innalza dall’Eliseo: e sarebbe patetica, se non facesse rabbia. “E’ terrorismo!”, annunzia lui con lapalissiana sicurezza. E che cos’altro era, anche allora, quello degli jihadisti dei quali il suo predecessore Sarkozy si servì per sbarazzarsi del libico Gheddafi e lui stesso per cercare insieme con Cameron di rovesciare il siriano Assad? E che cos’era quello dei talibani, i guerriglieri-missionari importati nell’Afghanistan degli Anni Ottanta dagli Stati Uniti e dal re dell’Arabia saudita in Afghanistan per combattervi il regime socialista sostenuto dall’URSS e sbarazzarsi del coraggioso e illuminato Massud? In passato, l’Occidente si è servito ipocritamente e spregiudicatamente dei terroristi tutte le volte che gli hanno fatto comodo, salvo poi meravigliarsi se e quando – cioè sempre – essi scappavano dal suo controllo. E allora, forti di queste esperienze, noi che un po’ di memoria ce l’abbiamo e che cerchiamo di ragionare secondo un briciolo di logica, ci chiediamo: com’è che questi quattro gattacci sia pur feroce, coraggiosi e ben armati di jihadisti dell’IS. Dichiarati “pericolo pubblico Numero Uno” della società mondiale, continuano a spadroneggiare tra Kurdistam Iraq e Siria? Che ne è di chi doveva fronteggiarli? Come mai con tanta leggerezza si parla ad esempio di un “probabile (?) appoggio” loro fornito dalla Turchia di Erdoğan che condivide i loro stessi nemici, vale a dire Assad e i curdi? E come mai l’egiziano al-Sisi e il re dell’Arabia saudita, entrambi sunniti e amici degli occidentali, bombardano gli yemeniti sciiti (avversari inflessibili del ramo yemenita di al-Qaeda, il più temibile) fingendo che il califfo non sia alle loro porte?

A meno che al-Baghdadi, predicando la Guerra Santa in conto terzi al ben pagato servizio di chi vorrebbe riorganizzare la sconquassata compagine siroirakena dopo tanti guai e tanti errori e magari riposizionarsi ai confini del vicino Iran (dovrà pure andarsene prima o poi qual negro pacifista di Obama dalla Casa Bianca, mugugnano i falchi repubblicani del Congresso…), non si sia montato un po’ troppo la testa e abbia deciso, come si dice, di “mettersi in proprio”. E allora, magari, un bel po’ d’indignazione per i fatti lionesi e tunisini potrebb’essere una buona base mediatica per una replica che, spazzando via l’IS, riorganizzasse una buona volta la disordinata situazione geopolitica e geopetrolifera del Vicino Oriente, magari portando casualmente un po’ di basi con tanto di missili a testata nucleare il più vicino possibile a quell’Iran che – come continuano a denunziare ispirati i professori Novak e Ledeen – resta il “Primo Vero Nemico dell’Occidente”.
Voglio 11 Scaloni

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Re:Palmira
« Risposta #13 : Lunedì 6 Luglio 2015, 11:34:58 »
D’altronde, anche da noi, non manca chi si lascia scappare sia pure a denti stretti qualche commento positivo nei confronti dei “jihadisti”. Feroci, ignoranti, fanatici quanto volete – si dice -, ma in fondo ( e magari proprio per questo) sinceri e decisi. Sincerità e decisione possono essere una conseguenza e un corollario del fanatismo, ma ne costituiscono comunque diciamo così l’ingrediente “virtuoso”: come faremo a vincere il confronto con questa gente che ha ideali ed è disposta a combattere e a morire per questo, noi che ormai crediamo solo nei soldi, nel consumo, nel profitto? Eppure, basterebbe una rapida inchiesta nei paesi musulmani – molti gestori anche italiani di alberghi tunisini lo hanno confermato – per sapere che là il jihad può essere un lavoro “la nero” ben retribuito, come da noi il manovalato della mafia e della malavita. Anche nella ‘Ndrangheta s’invoca la Madonna e di uccide in nome di Dio. Non affrettiamoci quindi, anche da questo punto di vita, a parlar di Scontro di Civiltà tra un Occidente ateo, edonista e materialista (come fa l’IS a proposito del politische Soldat di Sousse, annunziando che “un nostro militante è entrato nel covo del vizio e della corruzione” a seminar morte tra i bagnanti svestiti) contro un Oriente musulmano ancora in grado di schierare dei martiri Guerrieri. Tra loro ci sono un sacco di ragazzi che pensano all’occidentale come nelle banlieues parigine o nel sobborgo di Scampia, e che ammazzano perché sognano l’iPhone ultimo modello e la moto lucente. Altro che tenebre del fanatismo, come vorrebbero alcuni, o luce della fede, come proporrebbero altri! La corruzione occidentale è durissima da battere: tanto che, magari, marcia alla testa dei suoi stessi nemici.

“Muslim Summer”, ovvero strategie balneari.

Ma la fantasia di chi poco sa e ancor meno sa inventare non conosce ostacoli. E ora si sta parlando addirittura di una "nuova strategia" dell'IS consistente nel mettere a punto una serie di attacchi via mare sulle spiagge mediterranee; la paura è che tale strategia, dopo il caso tunisino, possa estendersi anche a quelle europee. Anche se oggi (sera del 29 giugno) sembra già assodato che l’attentatore di Sousse non era solo e tantomeno veniva al mare.

Certo, la situazione in corso è tanto grave quanto confusa; e che, se è vero che nessuno può sentirsi al riparo da nulla (il che del resto, a ben vedere, è l'ordinaria condizione umana che l'attuale contingenza sottolinea e aggrava), è non meno vero altresì che noi non sappiamo niente di preciso né sulla strategia dell'IS, ammesso che ce ne sia veramente una e coerente, né sul livello di centralizzazione e di dislocazione degli eventuali gangli di comando ed esecutivi.

Il campo è aperto a ogni ipotesi, anche a quella di un'estensione europea di questo tipo di attacchi: col pericolo tuttavia di spargere un allarme che potrebbe cronicizzarsi nei prossimi mesi, quelli estivi, nei quali le spiagge sono piene, e trasformarsi in una vera psicosi. E a questo bisogna prestare attenzione, perché sappiamo ormai che la strategia del califfo, se ne ha davvero una, è mediatica prima e più che non propriamente militare. In altri termini, è ovvio che il piccolo esercito dell'Isis ha dato esempi temibili di efficienza; ma è non meno ovvio che questa è soprattutto e anzitutto, almeno per il momento, una guerra mediatica.

I conflitti non si vincono né con le minacce, né con le teste tagliate, né con colpi di mano isolati, a meno che si collochino in una precisa contestualizzazione. Chiediamoci allora a che cosa potrebbe mirare un eventuale stendersi delle tecniche di assalto a spiagge piene di turisti. Ma di quali turisti? È più che evidente che i guerriglieri jihadisti oggi vogliono colpire il turismo occidentale in quei paesi arabo-musulmani in qualche modo schierati a fianco dell'Occidente o comunque contrari alla loro linea e i governi dei quali si sono resi responsabili di durissime repressioni nei loro confronti. In Algeria, in Tunisia e in Egitto, dove i fronti jihadisti erano tanto forti da riuscire a vincere persino in competizioni elettorali, ma dove dai governi che a un certo punto hanno controllato sono stati allontanati o con colpi di stato o con elezioni sospette di brogli, è ovvio che si verifichino reazioni tese soprattutto a colpire la fama di efficienza dei nuovi regimi filoccidentali - o supposti tali - e a minarne l'economia che in Africa settentrionale si fonda molto sul turismo

Ma una tecnica del genere è esportabile? Se i jihadisti vogliono impedire ai danarosi o benestanti turisti europei di affollare gli eleganti resorts algerini, tunisini e egiziani, siamo altrettanto sicuri che abbiano anche interesse a colpire le coste della Versilia, delle Cinque Terre o persino della Sicilia affollate da maestri di Vigevano e casalinghe di Voghera? Rispondere affermativamente a questa domanda significherebbe aver ceduto le armi all'idea dello Scontro di Civiltà; chi sostiene tale posizione non si accorge o finge di non accorgersi che quella dell'IS è anzitutto una guerra interna all'Islam, una fitna, e non (al di là delle ispirate farneticazioni di al-Baghdadi) un conflitto apocalittico teso a conquistare, convertire o distruggere l'Occidente cristiano, che tale non è più da ormai parecchi decenni. In Occidente ci sono, è vero, ancora dei cristiani: ma sono più di due secoli che esso ha cessato di essere una Cristianità.

Va inoltre fatto notare che, almeno per quanto sappiamo finora dall'unico esperimento che siamo in grado di giudicare, quello di Sousse, l'attacco via mare è stato condotto – forse - da uomini e natanti che venivano da pochi km di distanza sulla stessa costa. Praticamente, una sorta di semicerchio sul litorale dal punto di partenza alla meta. Non si vede proprio come una tecnica del genere potrebbe credibilmente riuscire in Europa, neppure sulle vicinissime coste siciliane che sono comunque pur sempre abbastanza lontane dalle basi degli jihadisti. Vero è che tra VIII e X secolo c’era una base di corsari saraceni a Fraxinetum, vicino a Saint-Tropez: potrebb’essere un buon suggerimento balneare per jihadisti à la mode di oggi…

Tirando le somme, i motivi tecnici o tattico-strategici che invitano alla prudenza sono molti, praticamente infiniti; ma le ragioni per pensare che una esportazione degli attacchi via mare diretti alle nostre coste e al turismo europeo sono molto tenui. Vero è che i sostenitori di sciocchezze del genere abbiano alto e forte.

Naturalmente, tutte queste considerazioni si scontrano con un problema di fondo, dato dal fatto che noi dell'IS, di com'è organizzato, dei suoi reali meccanismi interni, delle sue tecniche di espansione, e soprattutto (ed è la cosa più importante) dei suoi finanziatori e delle sue finalità – nonché dei suoi princìpi sociali, che gli procurano molti sostenitori - sappiamo ancora poco; e sotto il suo stendardo, l'ormai temibile bandiera nera che porta scritta la shahada, potrebbe celarsi ogni sorta di forza eversiva o provocatrice, ivi comprese quelle di delinquenti comuni o di provocatori intenzionati a intorbidire le acque e accrescere le nostre paure nell'evidente intento di indurci a risposte emozionali affrettate e probabilmente erronee.

Va da sé comunque che nulla va sottovalutato, nulla o il meno possibile lasciato al caso. Debbono esser prese le necessarie misure, intensificando la sorveglianza costiera e soprattutto l'azione dell'intelligence, tenendo tuttavia presenti le ragioni per le quali la prospettata strategia califfale in Occidente appare alquanto aleatoria.
http://www.francocardini.net/
Voglio 11 Scaloni

CP 4.0

Re:Palmira
« Risposta #14 : Lunedì 6 Luglio 2015, 12:08:55 »
...che è reale solo nelle architetture ideologico-politiche di qualche teorico islamista e nelle non innocenti “ricostruzioni” esegetico-pubblicistiche di quelli che da noi fantasticano di musulmani che vorrebbero portarci via “la vita o l’anima”...

da notare i colpi di pennello

da un lato il teorico dall'altra in non innocenti tra noi.