Un altro ricordo commosso, quello di Vincenzo Cerracchio
Ragazzì, di che squadra sei?”
“Della Lazio…”, risposi col mio sorriso migliore. Sapendo benissimo di avere davanti un romanista di ferro.
“Che te devo dì? Peggio pe’ te”. Mi fece lui, stringendomi la mano quasi distrattamente, senza enfasi.
“Mo’ va, mettiti laggiù, quella scrivania là che è di un laziale come te. Sotto che c’è da lavorà…”
Poi, quella domenica pomeriggio, la mia prima domenica “di rinforzo” nella redazione sportiva del “Tempo”, per me che lavoravo in Cronaca di Roma tra buche stradali e delitti efferati, Lui si avvicinò spesso a quella scrivania. Il tono severo ma ogni frase una battuta. Capivo che mi studiava di sottecchi, voleva essere certo che non mi fossi offeso…
Scusate, dovrei parlare del derby. Ma non ne ho il cuore. Perché la notte scorsa ho perso un Amico, un Maestro, il primo in ordine di apparizione dei tanti che ho avuto nel settore del giornalismo sportivo: Giuseppe Presutti, per tutti noi semplicemente Peppe (altri, non io, lo chiamavano anche” Pepote”, ma gli si adattava male, perché prima che romanista, era un romano verace e lo è stato per 87 anni).
Peppe era così, un burbero buono, ma buono davvero. Quando la domenica mi toccavano i risultati e le classifiche di serie C – cioè si trattava di telefonare ai corrispondenti uno per uno, alle redazioni locali, ai colleghi di altri giornali per avere i tabellini, non è che comparivano magicamente sullo schermo come ora – mi lasciava ogni volta la sua scrivania di capo, il telefono diretto a disposizione, senza passare dal centralino. Un padre premuroso. E in quella redazione al primo piano di Palazzo Wedekind, con un terrazzo che sembrava una piazza d’armi affacciata su Piazza Colonna, l’allegria, il disincanto, lo sfottò, grazie a lui non mancavano mai. Per vent’anni, dal ’68 all’87, Peppe Presutti fu lo Sport del Tempo. Poi, dopo un anno dal mio trasferimento definitivo in quel servizio, il direttore Gianni Letta decise di sostituirlo. Altri avrebbero trattato l’uscita, si sarebbero accomodati su una bella scrivania e avrebbero preteso e ottenuto di fare gli editorialisti a vita. Peppe chiese invece di tornare a scrivere sul campo e tutti ci aspettavamo che avrebbe seguito la sua Roma. Viceversa, dopo la prima partita in trasferta a Parma della Lazio dei -9 (che seguimmo io e Antonella Pirrottina, giovane e laziale come me), gli fu affidata proprio la squadra di Fascetti. E io fui dirottato sul Napoli di Maradona. Ebbene, come tutti avremmo scommesso, Peppe si affezionò a quel gruppo, instaurò con l’allenatore (che rispettava i giornalisti capaci quanto detestava i superficiali) un solido rapporto di amicizia e di confidenza, divenne sotto sotto anche lui un tifoso della Lazio, pur continuando a dispensare il suo bonario sarcasmo giallorosso. Credo che i lettori laziali del Tempo non abbiamo mai avuto davvero di che lamentarsi di quel grande esperto di calcio che Presutti era. Figlio di un pallone d’altri tempi ma non per questo meno moderno o meno aperto alle novità, dal gioco all’olandese, fino alla zona di Sacchi.
Quando io passai al Messaggero i contatti divennero più rari. Lui andò anche a Pescara a dirigerne l’ufficio stampa. Ma non mancava di telefonarmi, specie dopo essere andato in pensione, per congratularsi per un pezzo o, quando divenni responsabile dello Sport, per una pagina, un’idea, un servizio. Mi chiamava “colonnello” perché avevo fatto il servizio militare nei Carabinieri e lui aveva insito nella propria educazione il rispetto per le Istituzioni. E non ha mai smesso di darmi consigli, sempre utili, perché in questo mestiere non si smette mai d’imparare. Già nel ‘97 mi diceva “Avete una squadra fortissima, mi sa che prima o poi lo scudetto lo vincerete. Ma non me ne dispiaccio!”. Perché la passione per la squadra del cuore non l’ha mai barattata con la mancanza di obiettività.
Voglio pensare stasera, per consolarmi un po’, che qualcuno da Lassù (mi permetto perché Peppe era un credente) abbia acconsentito a onorarne la memoria con la vittoria della sua Roma nel derby. Lui se n’era andato nella notte, forse da molti dimenticato, per via dell’età, ma non certo da chi gli è stato un po’ “figlio”, sia pure da lontano, senza combinare negli ultimi tempi neanche una rimpatriata a cena. Domani alle 10 e mezza nella parrocchia di Sant’Angela Merici, al Nomentano, passerò a salutarlo come non ho fatto prima. Immaginandomi la scena col Padreterno che gli chiede “Ragazzì, di che squadra sei? Della Roma? Peggio per te…” Stringendoselo stretto, come si fa con gli uomini buoni.
Ora mi chiedo, per chiudere, cosa avrebbe scritto lui, a parti invertite, del derby di oggi. Tre righe, non di più, le avrebbe dedicate a Tagliavento: “Uno che dà un rigore così semplicemente non dovrebbe più arbitrare. Ma a ripeterlo gli si dà solo importanza”. Avrebbe applaudito i vincitori, badando a non offendere gli sconfitti. Ma alla sua squadra del cuore non avrebbe lesinato critiche, perché, diceva, criticare quando serve significa dare buoni consigli, aiutare a migliorarsi. E allora di questa Lazio non si può non sottolineare le contraddizioni: squadra non rafforzata in estate per lotitiana insipienza, imbottita di giovani promesse e poi schierata, nella partita più importante di questa prima parte di stagione, nella formazione dell’anno scorso, senza orgoglio né forza fisica. Senza i giovani, i rinforzi, i più in palla, Keita prima di tutto.
“Ma tant’è!”, avrebbe concluso il suo fondo il mio Maestro Presutti. Lo faceva spesso. Era il suo modo umile di dire: questa è la mia impressione. Dite la vostra, commentate pure. Quel “Tant’è” che non cancellava mai, ma proprio mai, la speranza in un domani migliore.