Dal Corriere della Sera di oggi, mercoledì 16 giugno, a firma Gaia Piccardi
ITALIA, LAZIO, TOTTI E DIEGO: IL VIRUS CALCIO DI NAPOLITANO
"Sono tifoso laziale dalla culla. Da bambino mi piaceva smarcare l’uomo e crossare. Oggi vorrei un calcio più attento ai vivai"
Sfinito da un pressing (soave) sulla fascia Roma-Milano, finalmente bloccato da una marcatura (lasca) a uomo davanti a una crostata in pasticceria, il professore ordinario di Istituzioni di diritto pubblico all’Università di Roma Tre Giulio Napolitano, leva calcistica 1969, sta raccontando la sua insensata passione per la S.S. Lazio («Sono patologicamente laziale dai primi mesi di vita»), irrorata da quel sano scetticismo che l’ha spinto a sorridere con indulgenza davanti all’anticalcio di quel Lazio-Inter, 2 maggio 2010, che ha avvicinato un po’ di più i nerazzurri allo scudetto («Il romanista è fideista; il laziale è laico e moderno: a proposito, l’ha letto quel bel saggio sul tema...?»), svariando a centrocampo tra Lionello Manfredonia («Il mio primo idolo: andai a vederlo al debutto in nazionale, un’Italia-Lussemburgo a Roma, veniva dalla Primavera, era un adolescente, fu un evento...») e Daniele De Rossi («Meno male che ha segnato, ancorché della Roma, lunedì sera contro il Paraguay: dell’Italia di Lippi mi è piaciuta la capacità di essere squadra contro le difficoltà»), perché con un appassionato vero si può buttarla in mezzo e poi vedere dove rotola, dal campionato al Mondiale sudafricano, con la ragionevole certezza che molti di quei palloni diventino buoni, a volte pregiati, assist.
E pazienza se il padre del professore— «calcisticamente agnostico e non certo per dovere di ruolo, mio fratello Giovanni ha fatto la brutta fine di quegli uomini sposati che apprendono i risultati delle partite il lunedì mattina, quello che ha innestato il virus in famiglia sono io, mia madre prevalentemente mi compatisce» —, che di mestiere dal 15 maggio 2006 fa l’undicesimo Presidente della Repubblica, in questo colloquio resta in panchina. La sua presenza sarebbe stato il virtuosismo dentro un gol di rara maestria, come quel colpo di tacco del Mancio in biancoceleste contro il Parma. Lì per restare, a prescindere.
Prescindiamo, dunque, dalle parentele e dalle voci di corridoio («Che mi abbiano offerto la presidenza di Roma olimpica 2020? Falso. Che mi avessero chiesto di fare il vice-commissario di Guido Rossi alla Figc? Vero: mio padre era stato eletto da pochi mesi, mi sembrò inappropriato»), per scoprire che il professor Napolitano ha partecipato «con gran divertimento» alla scrittura del primo statuto Coni nel ’99, ha giudicato i ricorsi di Calciopoli in quanto componente della Camera di conciliazione e arbitrato, che da uomo di legge ha una passione per le regole e, di conseguenza, per chi le infrange («Ringrazio l’Argentina che ci ha offerto lo spettacolo di Maradona in panchina al Mondiale...»), che l’anima gli si colorò irrimediabilmente d’azzurro nel ’74, anno del primo dei due scudetti, «il titolo tornava nella Capitale dopo trent’anni però abbia la compiacenza di non chiedermi se sarei diventato giallorosso in caso di campionato alla Roma perché a quell’età, avevo 5 anni, si è talmente incoscienti che non si possono fare affermazioni così impegnative... Comunque nel ’75 la Lazio finì di nuovo dietro la Roma e io fui tra i pochi bambini a restare biancoceleste».
Capitolo Francesco Totti. Vent’anni di storia romanista, e ottantatré di stracittadine densissime, liquidati in otto righe: «Totti èmolto simpatico quando fa gli spot del telefono, è apprezzabile quando fa le campagne umanitarie, è un campione quando segna reti meravigliose, ma sarebbe bene rinunciasse ad alcuni gesti provocatori e, soprattutto, agli atti di violenza in campo. Ricorda Facchetti? Una sola espulsione in carriera. Ed era un terzino!».
Segue sempre la Lazio a Firenze («Dove ho degli amici e ci si sente particolarmente in minorità: il tifoso, quindi, si esalta!») e a Genova («Stadio bellissimo e grande simpatia per Garrone»), ma la trasferta che gli è rimasta nel cuore fu quella, a Berlino, del 9 luglio 2006. Non ci sono gustosi dietro le quinte presidenziali da raccontare oggi che l’Italia di Lippi («Una squadra che rappresenta bene il momento del paese, una nazionale senza fuoriclasse che si affida molto alla voglia di rischiare di persone che si sono fatte da sé anche in formazioni di secondo piano, perché spesso ci dimentichiamo del nostro più grande talento: fare gruppo e dare il meglio quando tutto sembra perduto») tenta un rocambolesco bis in Sudafrica. Niente a che vedere con lo scopone scientifico tra Pertini e Bearzot, insomma. Restano, quattro anni, dopo, una sensazione, una faccia e un colore.
«Andammo, con papà e le altre istituzioni, a trovare la squadra alla vigilia della finale con la Francia. C’era un bel sole, il campo d’allenamento era verdissimo. Temevo che gli azzurri, tesi in vista di una partita così importante, mal tollerassero la nostra intrusione. Trovammo, al contrario, belle facce sorridenti e gente che aveva voglia di parlare, fummo accolti benissimo, da Cannavaro, Lippi, Abete. Non dimenticherò mai il clima di serenità che traspariva da quell’ambiente e l’espressione felice e candida di Fabio Grosso, che segnò il rigore decisivo».
Calcio e politica, la marcatura più stretta. In questo ambiente di cui, è evidente, da vecchia ala destra all’asilo («Mi piaceva smarcare l’uomo e crossare, oppure tagliare e inserirmi per andare al tiro») e da eterno bambino, gli piace quasi tutto («Però vorrei un calcio più attento ai vivai, alle bandiere, all’equilibrio economico: il modello padronale-famigliare delle società va superato, dev’essere una nuova generazione di manager a gestire i club e a costruire gli stadi, pensando ai tifosi che amano davvero lo sport»), la contaminazione pare inevitabile, «e invece la distinzione dei ruoli è importante, quegli inviti moralistici ai calciatori perché prendano meno di premi mi sembrano un modo facile di cercare consenso, se il Governo vuole mettere una super-aliquota sui super-redditi può farlo ma la risposta degli azzurri è stata geniale, una bella idea di polemica con Calderoli e una cosa giusta nel merito. La nazionale, di cui si celebra il centenario, è stata un valore aggregante della nostra identità popolare». Sarebbe bellissimo, l’11 luglio, rivedere quelle facce.