www,laziopolis.itUn giorno da Stefano Pioli dovremo farci raccontare per bene quel suo unico gol in A, con la maglia della Fiorentina a Cremona. In 202 partite giocate. Ma vanno bene anche quelli segnati col Parma e con la Pistoiese in serie C. Perché il suo bottino è 3, numero perfetto ma fino a un certo punto.
Ce lo dovremo far raccontare perché se di gol ne ha fatti pochi, Stefano ora ne fa fare tanti. Alla Lazio, tanto per dire, non si segnava così dal 2001, ultimi refoli della stagione scudetto, campioni in campo, bomber alla Crespo per intenderci, gente che non si vede più alle nostre latitudini. Ora il meglio del meglio dei goleador sono Tevez e Higuain, comunque scarti di altri campionati.
Pioli non ha villaggio e non ha chiesa. Per nostra fortuna non ha spocchia. E’ stato e resta un bravo ragazzo del calcio, con i suoi allori importanti (scudetto e Intercontinentale con la Juve), la sua onesta carriera, costellata di miriadi d’infortuni (quattro metatarsi fratturati, una spalla e i consueti legamenti del ginocchio), quell’umiltà di fondo che l’ha portato a chiudere la carriera, scendendo di serie fino a chiudere nel Colorno accanto al fratello. E a ripartire, da allenatore, nelle giovanili del Bologna, con un titolo nazionale Allievi che non è di poco conto per chi conosce la categoria.
A ottobre compirà 50 anni, dunque lasciamo perdere la favola del “giovane Pioli”. Lui è stato un uomo di lotta e mai di governo: ha guidato squadre provinciali, se tali possono essere il Parma e il Bologna, ha trovato uno Zamparini qualunque a cercare di rovinargli la reputazione, chissà perché, visto che esonerare un allenatore prima che inizi il campionato è pura e insensata cattiveria. Ha vissuto promozioni ed esoneri ma ha sempre lasciato un’impressione univoca: la signorilità, la compostezza e l’idea di calcio. Che vanno a braccetto, non sono in contrapposizione, come insegnò per tutti il Maestro, seduto e abbracciato in panchina al fischio scudetto, ma come replicò in fondo anche Sven, che però nel non tradire emozioni aveva il vantaggio della nordicità.
A braccia conserte, Pioli segue, vede, urla, sorride. A volte di gusto, a volte amaro, se i suoi sbagliano, se li vede soffrire. Ma tutto è preparato, la partita (lo dicono i giocatori) sempre tatticamente apparecchiata. Pioli abbraccia gli avversari e parla con gli arbitri, spesso col quarto uomo, ma senza mai eccedere, senza scomporsi più di tanto, né nell’eccitazione né nella disperazione: da uomo di calcio sa di vivere in un gioco grande ma che resta un gioco, uno sport prima di tutto. Non ha bisogno di villaggi, si diceva, perché il calcio è questo e lui ne ha imparato a conoscere gli alti e i bassi. E non ha chiese, perché la sua è la squadra che allena in campo, non quella spinta dal fervore mediatico. Si è avvicinato in punta di piedi, cominciando col cantare l’inno, con l’esaltare i colori della maglia. Ha capito che il pubblico biancoceleste aveva prima di tutto bisogno di tornare a sognare e quindi a divertirsi. Maglia, inno e bandiere ci sono sempre stati, serviva un altro passo, quello decisivo. La carezza di un gioco che nobilitasse l’identità