Il 4 novembre è una festa che personalmente sento molto.
Ma, proprio per questo, mi mette regolarmente a confronto con due domande.
Prima. Molti di quanti si arruolarono in quella circostanza ambivano a partecipare alla Quarta Guerra di Indipendenza, che avrebbe completato l'unificazione del territorio nazionale e un Risorgimento il cui principale avversario fu la Chiesa: sicuro che celebrare una "Messa per i caduti", rinchiudendo a forza la commemorazione in una dimensione religiosa, sia il modo migliore per ricordarli?
Seconda. Quanti di loro sono morti per la Patria? E quanti per il menefreghismo, la disorganizzazione, l'inadeguatezza assassina dei loro superiori?
Quella rimane l'unica guerra che abbiamo vinto come Stato - ovviamente venendo ricompensati a pesci in faccia dai soliti "alleati" -, e in questo senso guai a chi la tocca.
Ma dico come Stato, e non come Nazione: perché quest'ultima la guerra l'ha persa, partendo con entusiasmi convinti e finendo a penare nelle trincee senza neppure più capire per cosa combatteva.
Per molti, partire volontario era un modo di esprimere un patriottismo magari ingenuo ma convinto.
Dietro il quale c'era anche una volontà complessiva e ideologicamente trasversale di partecipare alla vita del Paese, di sporgere il naso al di fuori del proprio particulare familista.
Un'occasione epocale, stroncata da una presa per il culo altrettanto epocale.
E dalla volontà, almeno in parte consapevole, di abbrutire per ricacciare a forza nella propria dimensione chi aveva anche solo pensato di uscirne.
Fra i Paesi partecipanti alla Grande Guerra, sconfitti compresi, solo la Germania ne è uscita più gravemente lacerata nel tessuto sociale e culturale.
Con la differenza che sui tedeschi pesarono in maniera determinante le scriteriate decisioni di Versailles, coi soliti tromboni d'Oltralpe e la loro ridicola grandeur come principali ispiratori.
Mentre da noi, fermi restando i torti subiti in quella sede, il regolamento di conti avvenne soprattutto all'interno.
Poi ci si meraviglia per il consenso tributato, negli anni successivi, a uno che "faceva tutto lui".
Quando l'interessato incarnò, casomai, meglio di altri le istanze generate da quel disastro: con un'indubbia componente di fiuto opportunistico, ma dimostrando un reale contatto con gli umori popolari e dando loro una rappresentanza, cose che mai avrebbero ottenuto da parte di una democrazia.
A quest'ultima si deve, piuttosto, l'aver ridotto - temo definitivamente - gli Italiani in quelle condizioni.