www.lalaziosiamonoi.itUna vita, perché 34 anni sono più di quanto è stato concesso di vivere a Vincenzo Paparelli. 34 anni sono tanti, abbastanza per accorgersi dello scempio che si perpetra ogni giorno. Una vergogna che – alla faccia del progresso- ha ripreso vigore negli ultimi tempi. Scritte, adesivi, cori e chi più ne ha più ne metta. Il bersaglio? Uno solo: infangare e sporcare la memoria di Vincenzo Paparelli. Lui, tifoso Laziale, morto il 28 ottobre 1979, in Curva Nord, colpito in pieno volto da un razzo partito dalla sud. Un razzo segnalatore, di quelli che si usavano sulle navi. Un gesto folle, costato la vita a un padre di famiglia che era allo stadio come sempre, per poi tornare alla vita di tutti i giorni occupata dalla famiglia e dall’officina che gestiva con il fratello. L’assassino si chiamava Giovanni Fiorillo, anche lui non c’è più, viveva da latitante, è morto nel 1993 pure lui a 33 anni. Non ha mai scontato i 6 anni di carcere ai quali era stato condannato per omicidio preterintenzionale. Il problema è grave e va enfatizzato, oltre che analizzato. Perché Roma, che un tempo era caput mundi, deve fare i conti con una piaga che non fa notizia come i cori di discriminazione territoriale o i buu razzisti, ma esiste ed è sintomo di un’inciviltà tutt’altro che latente. Cosa spinge un essere umano a comprare una bomboletta e imbrattare un muro con scritte insultanti la memoria di un uomo morto 34 anni fa? Cosa spinge decine di persone a intonare cori infami la domenica allo stadio? La questione non è semplice. Parliamo d’inciviltà e ci siamo. Ma se questo è un problema così diffuso, perché allora non accade lo stesso dall’altra parte? Perché i Laziali non infangano la memoria dei vari De Falchi, Di Bartolomei e dello stesso Fiorillo? Questione di valori. Forse. Perché sembrerà una scemenza, ai più incomprensibile, ma essere Laziale è anche e soprattutto questo. Distinzione. Un valore che hai, che ti cresce dentro vivendo in una città difficile, dove il branco è giallorosso e se sei Laziale devi farci i conti. Distinguersi, essere diverso, non appiattirsi alla massa, ripudiare l’omologazione anche mass-mediatica. Crescere sulle orme dei propri padri, rispettando alcuni precetti basilari, tra i quali c’è quello di rispettare chi non c’è più. Perché se vivi di Lazio, in una città come Roma vivi d’amor puro, antitesi di morte. A-mors, per i latini l’amore era la negazione dell’estinzione. Un sentimento eterno, immortale che, però, porta a rispettare quel “rivale” che c’è e a volte tocca e segna la storia. Rispettare la morte, vuol dire soprattutto rispettare chi è non c’è più, preda di un nemico che, a volte, appare in maniera improvvisa, ferisce e lascia cicatrici a chi rimane e quei segni stanno lì a ricordare che mai è ammesso il vilipendio a chi non è più qui. E chi se ne frega dei colori e delle differenze. Questo è. Così vedere che, dall’altra parte, questo “codice etico” non da tutti viene rispettato fa ancora più male. Inutile dire che la maggioranza dei tifosi romanisti è da escludere dal discorso perché generalizzare è ingiusto e pericoloso, ma indigna vedere scritte che compaiono puntuali nel giorno che dovrebbe essere del ricordo e del silenzio. Un giorno di riflessione che permetta anche ai meno dotati di intelligenza e sensibilità di fermarsi e pensare. Perché Vincenzo Paparelli merita che la sua memoria venga preservata e non sporcata e i suoi figli meritano silenzio e rispetto. Perché Vincenzo è morto giovane, allo stadio, giovane e curvarolo, proprio come te, imbecille, che canti cori e scrivi sui muri senza che i tromboni che si scandalizzano di tutto, si indignino per i tuoi beceri gesti. Quello che devono sopportare i parenti di Vincenzo, da 34 anni, è sì discriminante, perché sono insulti ad personam, fatti con il fine di affondare in una ferita mai chiusa. Una viltà della quale stanno diventando complici anche le Istituzioni che, mai, abbiamo sentito schierarsi con forza dalla parte della famiglia Paparelli. Sarebbe bello se il sindaco di Roma prendesse parola su questo tema e rivolgesse solidarietà alla famiglia di Vincenzo. Sarebbe bello e ce lo aspettiamo. Magari già oggi. Perché oggi, ancor più di ogni giorno, Vincenzo da lassù ci guarda, magari un po’ schifato, ma pronto –con quel suo cuore grande- anche a perdonarci.
Marco Valerio Bava