Autore Topic: Fabrizio Barca  (Letto 910 volte)

0 Utenti e 2 Visitatori stanno visualizzando questo topic.

Offline AlenBoksic

  • Power Biancoceleste
  • *
  • Post: 13249
  • Karma: +184/-13
  • Belgrado: se non la ami, non ci sei mai stato
    • Mostra profilo
Fabrizio Barca
« : Venerdì 28 Giugno 2013, 17:01:02 »
Alla ricerca del partito perduto
di Sofia Basso


Gira l’Italia per discutere con la base. E proporre la sua idea di Pd: aperto al dibattito e alla partecipazione, senza correnti ma con una forte identità. Di sinistra. Parla Fabrizio Barca, l’uomo che vuole cambiare la politica italiana

Un po’ facilitatore, un po’ destabilizzatore. Fabrizio Barca, l’unico ministro del governo Monti ad aver avuto la tessera del Pci in tasca, non si candida a guidare il Pd, ma si è rimboccato le maniche per cambiarlo. Dal 22 aprile sta girando l’Italia per discutere il suo documento Un partito nuovo per un buon governo. Forte della bussola interiore ereditata dal padre, partigiano e collaboratore di Berlinguer, l’economista oggi direttore generale del ministero delle Finanze non ha dubbi: il Pd può tornare a essere un partito di sinistra. L’abbiamo incontrato in un bar di Roma, tra un intervento alla Sapienza e un aereo per Treviso, un panino e un bicchier d’acqua. E mentre la maggioranza dei suoi colleghi di partito si divide su nomi e correnti, lui si occupa di identità e “sperimentalismo democratico”.

Fabrizio Barca, ad aprile ha preso la tessera del Pd. Ma quando ha iniziato a far politica?

Ho cominciato nel 1967, a 13 anni, con il movimento degli studenti e il comitato di base del Mamiani, a Roma. Ci sono rimasto per tre anni, poi per due anni non ho fatto politica. All’ultimo anno di liceo, mi sono iscritto alla Fgci, “sdirazzando” rispetto ai miei amici che invece appartenevano al “Coco Marlene”, il comitato comunista marxista-leninista. Poi mi sono iscritto al Pci, dove sono rimasto sino alla svolta di Occhetto.

Il Pds non l’aveva convinta?

Avevo la sensazione – e pesa ancora oggi – che si stessero buttando le cose giuste e tenendo quelle sbagliate. In definitiva si è buttata l’analisi della società italiana. Con la svolta della Bolognina si è deciso di non fare più i conti con la propria tradizione. Rimuovendo il passato, tipico vizio italiano. È rimasta invece la logica di apparato, che è riemersa negli ultimi 2-3 anni. Nonostante questo, nel Pd, che ha dentro anche la tradizione della Dc e, in misura limitata, il pensiero liberalsocialista, è rimasto un senso di missione: voler cambiare il mondo è una condizione di un partito di sinistra. Di questo mi sono convinto intersecando il Pd nella mia attività di governo sul territorio.

Il Pd è ancora un partito di sinistra?

È un partito fondamentalmente di sinistra con pratiche confuse. Ha commesso errori di metodo, per un malinteso sorto proprio alla nascita del Pd: guardiamo in avanti, giusto; basta stare a riraccontarci com’eravamo, giusto anche se non è riuscito; quindi smettiamo di discutere delle nostre culture, sbagliato. Discutevano di più di principi e di identità i democristiani con gli azionisti, i socialisti e i comunisti di quanto non lo abbiano fatto quelle stesse persone quando si sono ritrovate nello stesso partito.

Però sono rimaste le correnti…

Quando smetti di discutere di contenuti, emergono solo le persone.

Quindi il Pd è di sinistra a sua insaputa?

Se graffi nelle scelte della larga parte dei suoi iscritti e anche dei suoi dirigenti locali, alla fine è di sinistra. Rifiutarsi di discuterne, aver addirittura negato la parola, ha pesato, producendo il partito dove stanno tutti. Un partito che va bene a tutti è un partito senza identità. Non è né di sinistra né di destra. C’è stata a un certo punto l’idea che per vincere un partito di sinistra debba aprire le porte a tutti. Invece deve avere idee molto forti, molto robuste, deve mandare un messaggio molto chiaro alla gente e convincerla che sei in grado di realizzarlo. La gente ti deve riconoscere. Essere di sinistra è nella pancia, ma è stato censurato.

I suoi riferimenti politico-culturali?

Ho in testa cinque parole: concorrenza, merito, lavoro, giustizia e persone, che sono per me riassuntive delle tre matrici confluite nel Pd. Certo, le parole sono rischiose, perché dipende come le declini: merito non è meritocrazia. Concorrenza è una parola molto di sinistra se usata bene: vuol dire rompere i monopoli. Anche nella selezione dei gruppi dirigenti. La parola persona si coniuga bene con giustizia: per uno di sinistra l’art. 3 della Costituzione sulle pari opportunità deve essere disegnato non solo per collettività ma anche per singoli individui. Su queste parole nel mio viaggio ho trovato corrispondenza. E poi c’è lo “sperimentalismo democratico”, che è di sinistra perché è l’attenzione al come si arriva a decidere. Fare il facilitatore richiede un po’ d’istinto: non lo fai se sei convinto di sapere già tutto. Però richiede anche professionalità. E in questo Paese ce ne sono molte: c’è una pattuglia di ricercatori e intellettuali in giro per l’Italia che potrebbe aiutare a formare una nuova leva, se il partito lo volesse. Un’organizzazione dove i giovani vanno non per far carriera, ma anche perché imparano il mestiere di facilitatore.

Molti si chiedono qual è il suo ruolo oggi nel partito? Il facilitatore?

Sì ma, come capitata in tutti i consessi partecipativi, prima della ricomposizione deve emergere il conflitto. Quindi in questa fase sono soprattutto un destabilizzatore. Ecco perché non ci penso affatto a candidarmi alla segreteria. La sintesi deve venire da un conflitto. Non ci potrà essere trasformazione del Pd senza passare per un conflitto interno. Se non lo si vedrà, vuol dire che non è successo niente. Un dibattito culturale, ingaggiato, arrabbiato, che si lasci influenzare anche dai mondi culturali esterni, richiede tempi lunghi. L’obiettivo che ci si può dare in 3-4 mesi è avere un partito che riconosca il dibattito come uno dei suoi compiti fondamentali.

Difficile contestare nel merito la sua memoria. Però metterla in pratica non sarà facile.

A livello nazionale ci sarà uno spazio legittimato di confronto, in cui queste cose vengano discusse. Ci vuole un segno credibile che si avvii un processo di ridefinizione dell’identità, della visione, del metodo. Il segretario nazionale potrebbe impegnarsi a costruire uno spazio apposito, dedicando adeguate risorse economiche e umane. A livello territoriale, invece, ci si può muovere subito: ci sono cento tentativi solitari, vanno messi in rete. Non si deve partire solo dall’alto: si può iniziare da chi sta già lavorando.

C’è chi le contesta di aver scritto un documento di non facile lettura.

È vero, è un documento acerbo, però le cose vanne fatte quando ce n’è bisogno. Comunque lo hanno letto in tanti e l’hanno capito tutti. Quindi tanto incomprensibile non deve essere. È dichiaratamente incompiuto: non ha la pretesa di essere un punto di arrivo, ma di partenza. Già i numerosi report dei circoli e i contributi che stanno arrivando al mio blog dimostrano che questa memoria viene letta, rimasticata e reinterpretata con il linguaggio del partito. Io stesso “scribacchierò” qualcos’altro già durante l’estate.

Cambierebbe qualcosa della sua memoria? Ad esempio il famoso “catobleplismo”?

No, quello non lo cambierei. Perversamente, è servito a farne parlare, in questa Italia terrificante. Cambierei il punto 10 dell’addendum sui diritti civili perché non è sufficientemente coraggioso.

La sua memoria è ancorata alla Costituzione, che però molti vogliono cambiare.

Per fortuna non la prima parte, di cui parlo io. Il cambiamento della seconda risponde alla visione di chi sostiene che da 20 anni non governiamo perché non ci sarebbe sufficiente concentrazione dei poteri. Io ritengo, invece, che non governiamo perché non c’è sufficiente partecipazione.

Quella che lei chiama «conoscenza diffusa».

È quello “il” punto dell’intera memoria. E attorno a questo ci deve essere il massimo della discussione: se non sei d’accordo su questo è inutile parlare della forma partito. Chi ritiene che non si riesce a governare perché non c’è concentrazione dei poteri, ha un’idea del partito che serve solo a eleggere Cesare. Se la risposta invece è: non riusciamo a governare perché lo Stato è arcaico, poco interattivo, non usa lo sperimentalismo democratico, non fa monitoraggio, non fa valutazione, allora il partito che serve è quello che consente alla società di interagire con lo Stato. Un partito-palestra che incalza lo Stato vive anche tra un voto e l’altro. Se apprendi chi sono i candidati che dovrai scegliere alle primarie solo pochi giorni prima del voto, finisci per chiedere suggerimenti su chi votare. E a chi lo chiedi? A quelli della tua corrente…

Cosa pensa del governo Letta?

È un governo di compromesso: per definizione deve fare un po’ dell’agenda di un partito e un po’ di quella dell’altro. Le cosa importante per il Pd è che la lista delle cose fatte sia significativa rispetto ai propri impegni elettorali.

Non corre il rischio di fare la fine del governo Monti?

Se ne stanno dimenticando tutti, ma il governo Monti ha salvato il Paese dal baratro. Dopodiché non gli si poteva chiedere di fare sviluppo, perché questo avrebbe presupposto una visione e un rapporto con la società che noi non potevamo avere. Nel governo Letta l’impedimento è un altro: le visioni non coincidono. Nel nostro caso, le visioni erano precluse ontologicamente.

E il Pd ce l’ha una visione?

Ha grande difficoltà ad avere una visione complessiva, tanto è vero che non ha vinto le elezioni perché non ha saputo indicare il cambiamento. Però alcune priorità dovrebbe averle, ad esempio nel momento in cui fa scelte di politica economica, ha obiettivi più egualitari del Pdl.

Cosa pensa di Berlusconi e di Grillo?

L’elemento in comune è che tutti e due sono afflitti dall’idea che si possa fare a meno della forma partito e che sia possibile un rapporto diretto con la società civile, non partigiano, quindi apparentemente esente da rischi particolaristici, ma in realtà totalizzante. L’idea che le singole persone dialoghino direttamente con le istituzioni è sbagliata. I risultati li abbiamo visti negli ultimi 20 anni.

Nei suoi studi tratteggia i peccati originali del capitalismo italiano: pesano ancora?

Uno dei due fattori di blocco di questo Paese è lo Stato autoreferenziale e arcaico, autoritario e non autorevole, figlio della mancata riforma dell’amministrazione nel dopoguerra. Anche il capitalismo italiano ha eredità pesanti, come la difficoltà a far arrivare il denaro nelle mani adatte, che sappiano farlo rendere. Il problema fondamentale è far sì che i capitalisti siano abbastanza liberi di esplicare i loro “spiriti animali”, come li chiamava Keynes, e al tempo stesso i risparmiatori siano abbastanza tutelati da fidarsi. In Germania lo si affronta soprattutto con le banche, negli Usa essenzialmente con la Borsa, noi fatichiamo a costruire un sistema che consenta di far arrivare capitali alle imprese capaci. Questo determina il nanismo delle nostre aziende: abbiamo tante piccole imprese, ma poche diventano medie o grandi.

Come si esce dalla crisi?

Questo è il problema più difficile dell’Italia: ci abbiamo provato in tanti senza esiti. Quando c’è una crisi bisogna avere sempre un punto d’attacco. Io penso che siano due: una profonda riforma dello Stato, che deve diventare moderno e interloquire con i cittadini. Questo lo si fa attraverso revisioni di spesa, che però non devono essere modi accelerati per tagliare i fondi, ma strumenti per ridisegnare il funzionamento di filiera: quella della scuola, della salute, della difesa, della sicurezza. Vuol dire partire dal bilancio zero. La spending review richiede una grande collaborazione tra ministeri e un’ampia partecipazione di popolo. Quindi servono partiti che la presidino. Il metodo deve essere quello del dibattito pubblico, non delle decisioni prese in una stanza. Il secondo punto non è niente di più di quanto già auspicato dal governatore della Banca d’Italia ma anche dal Piano della Cgil: un grande piano di manutenzione del territorio e del patrimonio culturale e artistico. Perché siamo seduti su questa ricchezza come dei rentier: la consumiamo invece di valorizzarla.

Lei parla spesso di freni al cambiamento. Ci sono anche all’interno del Pd?

Esistono in tutti gruppi dirigenti: dei mass media, dei partiti, dei sindacati. Ci sono due modi in cui i cambiamenti avvengono, quando non sono traumatici: se sei un’organizzazione, possono avvenire attraverso i tuoi associati, quindi attraverso una spinta, che è quella che in parte io raccolgo. L’altro modo è il ravvedimento di una parte del gruppo dirigente. Non per buonismo ma per interesse, perché capiscono che giocando la vecchia partita non reggono più. E decidono di trasformarsi da conservatori a innovatori. Bisogna farlo prima che il cambiamento avvenga in maniera caotica. È importante che non ci si sieda sui risultati delle amministrative: hanno solo descritto che quando gli elettori del M5s si astengono aumentano le percentuali degli altri partiti. È un effetto automatico. Le amministrative ci ricordano anche che, pur con tutti i suoi difetti, il Pd ha candidati migliori del centrodestra. Ma questo lo sapevamo già. Alle elezioni nazionali non si può vincere per ritiro degli avversari.

In questo suo viaggio nel Pd la figura di suo padre ha un ruolo?

Ce l’ha in maniera molto forte sul senso di responsabilità, che è maggiore quando fai politica. Perché quando dirigi un’amministrazione sei ancora misurabile, mentre quando fai politica perdi un po’ la briglia e quindi è bene avere un bel metro dentro. Lui me l’ha regalato. Non so quanto sarebbe stato d’accordo con questa mia scelta: è un elemento di follia rispetto alla mia storia personale. Ho fatto sempre scelte rischiose, ma questa lo è particolarmente.

Riuscirà a cambiarlo, questo partito?

Mantengo la percentuale con la quale ho iniziato questo viaggio: è molto difficile ma è possibile.

http://www.left.it/2013/06/21/alla-ricerca-del-partito-perduto/11010/
Voglio 11 Scaloni

Offline Reflexblue

  • Power Biancoceleste
  • *
  • Post: 6248
  • Karma: +269/-22
    • Mostra profilo
Re:Fabrizio Barca
« Risposta #1 : Venerdì 28 Giugno 2013, 17:13:48 »
Un ottimo progetto di Barca quando era Ministro.

http://www.opencoesione.gov.it

Pomata

Re:Fabrizio Barca
« Risposta #2 : Sabato 29 Giugno 2013, 01:15:49 »
Forse cambierà il partito ma essere una sinistra vera significa stare dalla parte contraria al capitalismo selvaggio e vicino al popolo.

Quindi potrebbe, al massimo, ri-ingannare i votanti di sinistra.


Offline Frusta

  • Power Biancoceleste
  • *
  • Post: 10017
  • Karma: +286/-20
  • Laziale credente e praticante.
    • Mostra profilo
Re:Fabrizio Barca
« Risposta #3 : Domenica 30 Giugno 2013, 09:24:24 »
Della serie sunt saepe nomina fata rerum.
Il nostro Fabrizio potrebbe essere un lontano parente di Annibale, che faceva Barca di cognome pure isso, anzi, faceva Barak, che in punico vordì fulmine. E che magari potrebbe anche essere stato un ascendente di Barak Obama, lo quale di questi tempi sta facendo poco onore al significato cartaginese del suo cognomen rincorrendo con passi da bradipo il signor Snowden e non acchiappandolo per niente; o magari anche un lontano zio di "zio" Mubarak chepperò davanti al barak ha lo stesso prefisso "mu" di Muhammad, eccheqquindi gli va a cambiare il significato trasformandolo da "fulmine" in "benedetto", ergo un fulmine benedetto esattamente come quello che ci vorrebbe per infondere un po' di vita nel cadavere inerte del piddì.
Per farlo diventare non dico una cosa vivente, ma almeno una cosa come la Creatura di Frankestein, che viva, se non lo era, almeno lo sembrava. Il che sarebbe già tanto.
Mah, per me quando una cosa muore è morta e via. ;D
P.s.
E non fa nemmeno troppo caldo  :D
Lazio, ti amo con tutta la feniletilamina, l’ossitocina, la dopamina e la serotonina che mi circolano nel cervello, che rendono il mio pensiero poco logico e che mi procurano strane sensazioni in tutta l’anatomia e battiti sconclusionati nell’organo principale del mio apparato circolatorio.