Autore Topic: Quel 4-3 alla Germania che cambiò la nostra storia  (Letto 1063 volte)

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Bill Kelso

Quel 4-3 alla Germania che cambiò la nostra storia
« : Mercoledì 2 Giugno 2010, 08:41:24 »
Oggi, nell'inserto R2 de La Repubblica, ci sono tre pagine dedicate a quella sfida memorabile.
C'è anche un'interessante intervista a Tarcisio Burnich. Vi posto intanto questo articolo che pubblicato nell'edizione on-line.



Quel 4-3 alla Germania che cambiò la nostra storia
L'hanno definita "la gara del secolo". E 40 anni dopo la semifinale dei mondiali 1970 non ha perso il suo fascino: è il simbolo di un'epoca e di un'epica del Paese. Che comincia coi Beatles e finisce con Albertosi.


di FRANCESCO MERLO


LA VERA storia è che l'Italia batté l'Italia e fece il suo vero ingresso in quella Europa che per noi era ancora un'altra galassia. Certo, Boninsegna non sapeva di essere l'angelo della storia quando, all'ottavo del primo tempo, con una fucilata di sinistro scaraventò in rete insieme alla palla dell'1-0 anche l'Italia dei poveri ma belli. E Albertosi, scattando di reni oltre la traversa non sapeva di respingere con la potenza di Muller anche l'autoironia compiaciuta del Rascel di "mamma ti ricordi quando ero piccoletto...". La vera storia è che, spezzando le reni ai crucchi, l'Italia si liberò dell'Italia quella notte di quarant'anni fa, quando finimmo tutti per strada, anche i solitari che, come me, hanno sempre odiato la folla.

Tutti a gridare dentro le Cinquecento come deficienti, come se davvero affidassimo il nostro destino al vento astrofisico della bandiera tricolore. E tuttavia solo nei tempi supplementari l'Italia si liberò del suo veleno spirituale e della sua antichità biologica assunta come vizio. I novanta minuti regolamentari visti oggi sono ancora più noiosi di allora. La solita Italia del "primo non prenderle" si accartoccia in difesa, il gioco è lento, c'è Facchetti secco e longilineo come un asparago, ci sono le fughe di Domenghini con la maglietta a sbrendolo, ci sono i baffetti da gatto di Mazzola e c'è Rivera con le sue gambette di pollo lesso...

Davanti alla tv gli italiani si erano già concessi gli spaghetti e attendevano il fischio finale, con la voluttà di autoproclamarsi figli di puttana e di vincere con quel gran gol Boninsegna che un catenaccio di ottanta minuti aveva però trasfigurato in un golletto di rapina. Ma ecco che invece, con il tempo scaduto, arriva quel goffo difensore del Milan, il biondo Schnellinger, il solo incustodito e dimenticato dai cerberi italiani, e segna, il traditore: 1-1. Oggi gli avrebbero mollato almeno una testata, uno sputo o un bel calcione. Allora si limitarono agli insulti perché avrebbero voluto che simpatizzasse con i compagni di scuderia piuttosto che con quelli della Nazionale, che stesse con lo stipendio piuttosto che con la patria e la bandiera. Ecco: deve essere stato a questo punto che in cielo si è sentito il clic che ha rimescolato il mondo, in quel paradosso dell'italiano che dà del traditore al tedesco che non ha mai tradito. La partita divenne "del secolo" perché capovolse il secolo affidando ai tedeschi la parte degli agili e fragili perdenti e a noi quella dei vittoriosi panzer dal vigoroso carattere.

Ma nessuno capì cosa si celebrava nella notte del 17 giugno 1970 quando ci ritrovammo a sventolare quei drappi che riempiono i vuoti e surrogano la vita. Nel suo bel libro La partita del secolo Nando Dalla Chiesa sostiene appassionatamente che fu la vittoria della generazione del 68. Ma la verità è che ciascuno sventola una sua vittoria personale e la minoranza politico-ideologica del '68 non disprezzava solo il tricolore ma anche il calcio e non solo perché Mao non giocava e Togliatti, che era stato juventino, "era solo un revisionista". Gli intellettuali italiani, tutti testa, testi e testosterone, tutti panza e cervello, tradizionalmente odiavano lo sport e lo maltrattavano come "instupidimento delle famiglie", "sedimento dell'odio universale", "caserma dello spirito", esibendo a destra da Croce a Longanesi e Maccari, e a sinistra da Marx ad Adorno, a Musil, e su tutti il solito Karl Kraus, il Beckenbauer dell'aforisma.

E poi sul ponte del 1970 non sventolava il tricolore, ma la minigonna. E veneravamo ben altri feticci, noi italiani, di sinistra e di destra e di niente: il cappello dei Beatles per esempio, o le canzoni di Lucio Battisti o, per i matusa più reazionari, c'era Celentano che aveva vinto a Sanremo con una litania contro gli scioperi, "chi non lavora, non fa l'amore", come se le donne non scioperassero anche loro. Tra i feticci c'erano i porno fumetti di Isabella e le foto dei militanti italiani accanto a Mao...

Forse solo l'esile ma intelligente Rivera capì al 6' del secondo tempo supplementare che era per noi che girava la storia, che potevamo mostrare al mondo di non essere più i micragnosi e denutriti che solo in contropiede avevano preso Porta Pia, gli individualisti esalatati con l'aviere Baracca a centrocampo, e la stampella di Enrico Toti per centravanti. Dunque l'abatino, che sulla linea della porta si era fatto passare tra il palo e le gambette il gol del pareggio tedesco (3-3) ed era stato coperto di insulti da Albertosi, trovò la forza pesante del selvaggio e l'intelligenza veloce del siluro beffando il portiere con una finta di corpo e una pedata di piatto: 4-3 perché non è vero che l'Italia sarà sempre fatta di abatini allenati dal Badoglio di turno! E mentre calciava la palla in basso, Rivera lanciava in alto quelle sue pupille accese, che oggi sono circondate da una bella foresta di rughe, ma quella notte misurarono la profondità di una nuova speranza italiana, di un'idea di vittoria non più affidata allo stellone, alla classifiche degli altri e alle corna dell'arbitro. Italia-Germania 4-3 perché non è vero che sappiamo solo scappare e vendere agli americani la Fontana di Trevi!

A riguardare le immagini di quella notte sembra quasi che ci sia l'impronta divertita di Claude Lévi-Strauss già nella foggia dei "calzoncini" che erano molto più corti e diciamo così più "insolenti" dei "calzoncioni" molli di oggi. E quando suonarono gli inni, che anche i giocatori avevano ritrosia a cantare, nello stadio Azteca di Città del Messico sotto un cielo fresco di temporale, i primi piani di Beckenbauer, elegante come un italiano scuro di capelli, e di Gigi Riva, potente nel fisico come un ostrogoto di Varese, segnalavano al mondo la fine delle razze e, nel bianco e nero della tv, il rimescolamento di antropologia, etica ed estetica nell'Occidente.

Di sicuro è nei tempi supplementari che Boninsegna e Burgnich e Riva e tutti gli altri che sono finiti nella canzone di Mina ("Ossessione 70") presero il passo di carica della Wehrmacht e l'intrepidezza dei marinai inglesi, e dinanzi al particolare che si ricongiungeva con l'universale sembrava che persino l'erba del campo ridesse ogni volta che i nostri calciatori la calpestavano, così per manifestare la gioia per quel gioco di piedi.

E invece furono i tedeschi al sesto minuto del primo tempo supplementare a passare in vantaggio (2-1) perché Müller, furbo e maligno come un italiano, intrufolò la punta del piede tra Albertosi e Poletti, per l'occasione imbranato e macchinoso come un tedesco. "Tutto facile per la Germania adesso" commentò Nando Martellini. Ma all'ottavo del primo tempo supplementare Burgnich, inaspettato difensore, arrivò puntuale all'appuntamento con il pallonetto di Rivera: 2-2. Ecco: gol, perché non è vero che siamo i geni della truffa! Ma niente gesti plateali, niente corse con il dito in bocca o mostrando il sedere: Burgnich, "la roccia" italiana, era fatto così, come un tedesco appunto. Poi alla fine del primo tempo supplementare fu Gigi Riva ad arrivare sul cross di Domenghini e fu una delle pedate più eleganti e potenti della storia del calcio, di collo sinistro, precisa, angolatissima: gol perché non è vero che vinciamo solo quando tradiamo!

Senza che nessuno allora se ne rendesse conto, quei quattro gol segnarono da un lato il definitivo ingresso dell'Italia in Europa, dove i tedeschi erano la locomotiva alla quale eravamo attaccati ma con la quale avevamo dei conti da regolare. Dall'altro lato la partita consegnò almeno per una notte la Germania all'aristocrazia dei simpatici perdenti, che era invece il nostro territorio incantato, il nostro stemma nobiliare.

Diciamo la verità: sino alla fine degli anni Sessanta l'Europa per noi era un mondo di sogno, andarci in aereo era ancora un privilegio, vi avevamo esportato contadini immusoniti dalla batosta della riforma agraria e nonostante la crescita vertiginosa del prodotto interno lordo, non riuscivamo a liberarci dal ruolo di "straccioni geniali". Insomma per sentirsi uguale e occidentale, l'Italia aveva bisogno di una grande affermazione e la ebbe con il calcio, battendo lo squadrone dei panzer del football, della solidità di Borsa e banche, della disciplina e della rinascita vera. Un'impresa storica dunque e non solo un raro evento gioioso nel Paese che meno di sei mesi prima, con la bomba di Piazza Fontana, era precipitato nella violenza e nella paura. Ma quella notte no, forse perché allora il calcio era un valore positivo e popolare, come solo Pasolini aveva capito; gli stadi non erano ancora i luoghi dell'impunità, lo sport non era in mano alla finanza vaporosa e alla politica truffaldina. Ecco perché oggi, anche quando vinciamo bene e forte, sappiamo che mai più la nostra gioia sarà la stessa di allora.

 (02 giugno 2010)

Bill Kelso

Re:Quel 4-3 alla Germania che cambiò la nostra storia
« Risposta #1 : Mercoledì 2 Giugno 2010, 08:58:02 »
Evvai!
Ho trovato anche l'intervista a Tarcisio Burnich, è molto interessante.



"Addio mezze calzette fu il nostro Risorgimento"

Italia-Germania 4-3 nel ricordo di Tarcisio Burgnich: "I tedeschi pensavano che fossimo fannulloni e invece, finalmente, gliele suonammo. Solo a distanza di due anni capimmo cosa avevamo combinato. Anche perché al ritorno ci presero a insulti"


dal nostro inviato EMANUELA AUDISIO


Burgnich, ma lei si rese conto di quell'Italia-Germania 4-3?
"Di giocare una semifinale mondiale sì, del resto no. Eravamo un gruppo di amici, si dava quello che si poteva. E il dottor Franchi non ci aveva fatto pressioni, anzi ci aveva detto che dal '38 l'Italia non andava così avanti. Eravamo sereni".

Davvero?

"Davvero. Era il '70, mica l'Italia isterica di oggi con i politici che vanno in tv a sbraitare sul calcio e a mettere altri problemi ad un Paese già nei guai. La federazione ci passava solo l'acqua, le altre bibite ce la dovevamo pagare noi. Si telefonava a casa una o due volte a settimana".

Però la Germania non vi stava proprio simpatica?

"Diciamo che Beckenbauer era una prima donna, uno che dirigeva l'orchestra, il pallone doveva sempre passare da lui. Si comportava da eroe: scorrazzava, ordinava, distribuiva. Anche con il braccio incerottato. Tutti a dire: poverino, con quella fasciatura. A molti faceva pena".

Brera scrisse: "A mì nanca un po'".

"Concordo. Dopo l'1-0 di Boninsegna la Germania ci mise sotto di brutto, anzi ci dominò, ma noi cercammo di sfruttare ogni piccola occasione. Si sa, l'italiano ha estro, fantasia, furbizia. C'erano 103 mila spettatori, 50 gradi di caldo, i loro tifosi erano delusi, Beckenbauer ci guardava e non capiva. Perché per i tedeschi noi italiani siamo sempre stati molli, deboli, fannulloni. Mezze cartucce. Non era un luogo comune, loro ci vedevano proprio così, senza attributi".

Ma se lei è nato a Ruda e il suo soprannome era Roccia.
"Infatti a me giravano, anche se mio padre la guerra l'ha fatta con gli austro-ungarici. Venivo da una vita di fatica, a 20 anni ero l'unico giocatore di serie A che giocava e lavorava. Alle sette di mattina ero in cantiere, poi con la bici e con il pullman andavo ad allenarmi nell'Udinese. Allora il difensore doveva soprattutto essere umile ed annullarsi. Ce l'avevamo quasi fatta, mancava una manciata di secondi".

Al 90', erano le due del mattino in Italia, la tv era in bianconero.
"Schnellinger si avvia verso lo spogliatoio che era proprio dietro alla porta dell'Italia. Voleva risparmiarsi un po' dei fischi dei tifosi tedeschi. L'ha detto lui e ci credo. Intercetta un pallone e segna. Colpa nostra che l'abbiamo lasciato libero, visto che non era un attaccante".

Lui ha detto che quella partita è stata la croce della sua vita.

"Credo anche a questo. Per noi fu un Risorgimento. Ma io l'ho capito due anni dopo, dopo la targa all'Atzeca, dopo che quella partita smise di essere solo un gioco a pallone per diventare altro, una rivincita di carattere, una prova di unità e d'identità. Finalmente un'Italia che le suonava ai tedeschi. Anche se, al rientro, venimmo insultati: contava più la sconfitta con il Brasile, i tifosi si erano già dimenticati della Germania".

Sette gol segnati, tre su azione, gli altri rimediati.

"E io, terzino, che a un minuto dalla fine del primo supplementare faccio il gol del 2 a 2, del momentaneo pareggio. In tutta la mia vita ho segnato solo due gol con la nazionale, quello fu l'ultimo"

Di sinistro, su un rimpallo.

"Sì. Mi presero tutti in giro. Riva soprattutto, mi disse: "Ma dove vai con quegli zoccoli". Mi chiamava "il montanaro". Niente baci, pochi abbracci. Io non gradivo. Le sceneggiate di oggi non le capisco. Segni? Accontentati. Ma non mancare di rispetto ai tuoi avversari con gesti e scritte. Perché ci sono i ragazzini che ti guardano e che poi sui campetti ti imitano. Io darei un cazzotto a chi mi si mette a ballare davanti dopo una rete".

Il 3-2 lo fece proprio Riva.

"Ripetendo lo stesso gol che aveva fatto al Messico. Ma al minuto 110, angolo per la Germania, Muller colpisce di testa, Albertosi grida tua a Rivera che è sul secondo palo, ma c'è un malinteso".

Bè, Albertosi ebbe una mezza crisi isterica.

"Cose che capitano. Ma eravamo un gruppo, chi andava in panchina non faceva la vittima. I terzini stavano lì, a marcare, una volta che con l'Inter a San Siro contro il Benfica, io e Bolchi ci scambiammo l'uomo, che purtroppo segnò, Herrera mi chiese: lei dov'era? E aggiunse: lei ci deve andare anche al gabinetto con quello. E mi mise fuori squadra. Altra mentalità. Adesso piacciono quelli che escono dalla difesa con eleganza e vanno avanti: ma dove vai, stai lì, a fare il tuo lavoro. Cannavaro ha ritrovato qualità alla Juve quando Capello gli ha imposto di non superare la riga. Lo stesso Facchetti avanzava perché imponeva il suo gioco, ma tornava sempre a marcare".

Poi Rivera si fece perdonare. Chissà che feste.

"Mica un granché. Nella piscina dell'albergo a mangiare bistecche alla brace. E sempre pagando le bibite. Poi tutti in camera mia, che era sempre la più affollata, a fare scherzi".

Nessun segnale dall'Italia?

"No. Era l'alba. Non c'erano né fax né stampa. Anche se i giornalisti che vennero a trovarci dissero che in Italia c'era un clima euforico. Io, ripeto, non mi sarei mai immaginato che quarant'anni dopo sarei stato ricordato per quella partita. Mi hanno chiamato ad un bel festival a Pavia il 18-19 giugno, se mi vogliono è perché abbiamo significato qualcosa".

Anche perché nella foto sotto Pelè che salta di testa, c'è lei, Tarciso.

"Una finale senza storia quel 4-1 con il Brasile. Eravamo cotti. Venne Franchi a chiederci come stavamo. Risposi sinceramente: le gambe sono molli. Bisognava avere coraggio e cambiare squadra, buttarci tutti fuori. Ma su quella foto voglio dire una cosa: Pelè mi prese in controtempo. Ero in ritardo, non l'ho nemmeno ostacolato. Pelè valeva Di Stefano. Maradona lo metto più in basso".

Per via dell'orecchino e dei tatuaggi?

"Perché non è stato un buon esempio. Prendete Materazzi, è un padre, ha tre bambini, ma può mettersi quelle magliette e quelle scritte? No. Oggi ci sono giocatori che non firmano autografi ai bambini, lo dico perché quando porto qualche pallone non li firmano nemmeno a me. Vergogna".

Però Beckenbauer ha continuato a fare strada.

"Noi no. Ho 71 anni, dal 2001 non alleno più. Quarant'anni dopo continuo a non leccare il sedere ai presidenti. Quando ero al Como il dottor Berlusconi mi chiamava per lamentarsi che non facevo giocare Borghi. Gli risposi: io devo salvare la squadra. Nel Bologna ho fatto debuttare Mancini in serie A a 16 anni, oggi chi li vede più i giovani? La verità è che dopo quell'Italiagermania il calcio non è più finito ai calciatori".

 (02 giugno 2010)

geddy

Re:Quel 4-3 alla Germania che cambiò la nostra storia
« Risposta #2 : Mercoledì 2 Giugno 2010, 11:36:32 »
Può essere vero. Ma i tedeschi a pallone li suoniamo spesso. Pure quando li affrontiamo con i croati, brasiliani e argentini. Ce li facciamo credere e gli segniamo in contropiede, oppure uno dei nostri vede uno spiraglio dove fare passare il pallone che non ha visto nessuno. Pirlo in germania, il tocco per Grosso vale da solo il titolo mondiale. Meno male succedono ancora ste cose.

Bill Kelso

Re:Quel 4-3 alla Germania che cambiò la nostra storia
« Risposta #3 : Mercoledì 2 Giugno 2010, 17:54:35 »

Qui ci sono i gol dell'emozionante sfida raccontati da un monumentale Nando Martellini.

http://tv.repubblica.it/copertina/italia-germania-4-3-la-partita-che-cambio-la-nostra-storia/48155?video&ref=HREC2-13

Notare la voce fuori campo che si sente al quarto gol, quello segnato da Rivera; si tratta, molto probabilmente, di un giornalista che sedeva vicino allo stesso Nando, ebbene questi urla: "Vinciamo, vinciamo...!"  ;D