Visto da me: Lazio-Empoli 3-3
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di Er Matador
Con la partita di ieri, Sarri era atteso a una prova impegnativa già per i suoi predecessori: il rientro dalla pausa natalizia. Una situazione che ad esempio, a un’edizione stellare come quella di Cragnotti, era costata un poker nella stracittadina. Ebbene, la sua Lazio è riuscita a fare peggio anche in questo, proponendo in avvio un livello di concentrazione e presenza mentale che sarebbe risultato eccessivamente basso in un rave party.
Di certo non gli si può attribuire l’uscita di Strakosha sullo svantaggio iniziale, una sconsideratezza degna del peggior Cavanda, ma testa e tattica nel modo di difendere rimangono anche farina del suo sacco. Nel fondamentale errore di valutazione sull’avversario, perché persino l’Empoli è troppo forte per affrontarlo con quel centrocampo. Nell’ottusità con cui ha evitato di intervenire su un assetto tattico che, anche dopo cinque secondi e osservandolo da Marte, appariva del tutto squilibrato. Nell’insistenza demoniaca sulla titolarità del nuovo Marchetti, tale Francesco Acerbi, ancora una volta il migliore della squadra avversaria.
Si veda la disposizione difensiva sul 2-0, coi quattro in linea a ridosso del portiere che vanificano la superiorità numerica evitando di creare densità sulla verticale. Situazione concepibile – e chi scrive lo fa per presa visione – nelle qualificazioni Mondiali asiatiche, neppure ai massimi livelli. Quanto al portiere, precisato che nessuno dei due titolari lo è, gli si può casomai rimproverare la mancanza del coraggio necessario per dare una possibilità a Furlanetto e Adamonis: riguardo ai quali, perlomeno, c’è il dubbio.
Dopo l’imbarcata iniziale, la partita della Lazio comincia proprio con l’uscita di Acerbi (buona guarigione, naturalmente. E soprattutto con calma). Senza un autentico sabotatore tattico, basta la presenza del mediocre ma diligente Patric per far sì che la difesa accorci razionalmente la distanza dalle altre linee, restituendo consistenza alla manovra. Che produce una mole di gioco impressionante: il cui unico esito rimane però il titic-titoc con scarico del pallone sugli esterni, nella speranza che estraggano qualcosa dal cilindro. Persino Berti Vogts, e si parla di un autentico fabbro della panchina, dimostrava un’organizzazione offensiva meno abbandonata al caso e ai singoli.
Di una piattezza inzaghiana anche i cambi: Zaccagni per un Pedro meno ispirato del solito, alla disperata ricerca dell’invenzione individuale; Leiva per un Cataldi sottotono, mossa scolastica, già rivelatasi fallimentare, puntualmente ripetuta. Non a caso l’ex giocatore brasiliano si fa trovare a farfalle in un paio di circostanze, compresa quella del 2-3. Dove il peggio lo danno comunque Luiz Felipe e Milinković-Savić, lasciandosi saltare da tale Marchizza (chi cazz’è?, per dirla con Felice Caccamo) come l’interista Brechet in un lontano pomeriggio, e sempre contro l’Empoli.
Quanto ai due interni adattati, Luis Alberto riesce a coniugare la perdita di ispirazione con la persistenza dei suoi irresponsabili personalismi: dove il vezzo di giornata si rivela la ricerca della soluzione da fuori, con mira immancabilmente approssimativa e compagni liberi puntualmente ignorati. Mentre il Sergente, non un granché nella prima frazione, ritrova smalto e incisività quando si butta in avanti al di fuori di qualsiasi logica tattica.
La negazione del gioco d’insieme, la cui origine va cercata in panchina e nei dettagli: a partire da quelle reazioni blande, stanche, per dovere d’ufficio, tipiche di chi farebbe a meno di trovarsi lì. Bisogna scomodare un lugubre paragone, già evocato in precedenti circostanze: Luigi Enrico alla xxxx. Un alieno pieno di cose teoriche, vincente altrove ma rapidamente ridotto dal gruppo a una sorta di spartitraffico.
Col contributo degli ospiti, non meno generosi nel concedere spazi e palleggi troppo confidenziali sulla propria trequarti, ne è venuta fuori una partita da Terza Lega tedesca, magari senza quel clima di allegria tutto birra e salsicce: e più ancora una Stalingrado del sarrismo, rivelatosi fin qui una presa in giro. Peccato, perché la Lazio aveva bisogno di un allenatore così. Solo calcisticamente ancora vivo.
P.S. In tutto questo è rimasta sullo sfondo la figura di Giua. Chi scrive è solito insistere sulla malafede organizzata e progettuale che sottende a simili designazioni: ma mai come oggi si è avuta la sensazione che l’inadeguatezza facesse aggio persino sul pur flagrante incarico da killer. A un certo punto, in corrispondenza di un’interminabile attesa del verdetto dagli addetti al VAR (per una curiosità: stavano procedendo al riconteggio delle schede?), in campo è comprensibilmente salita la tensione fra i giocatori: ma senza andare al di là di qualche strattone, roba da asilo in confronto a una caccia all’uomo come OM-Galatasaray. Il primo piano ha inquadrato questo povero piumino, patetico e infantile anche nell’aspetto: il quale, senza neanche coprirsi la bocca per impedire la lettura del labiale, implorava i giocatori di non creargli altri grattacapi mentre impiegava mezz’ora per annotare un paio di ammonizioni. Come se i ventidue in campo e la partita dovessero aspettare la sua inesistente personalità, i suoi ritmi, la sua surreale presenza in un contesto per il quale gli mancano i requisiti minimi. Di gaglioffi, incapaci, autentici delinquenti col fischietto se ne sono visti a legioni in ormai qualche decennio di calcio: ma un quadretto così penoso mancava nella collezione. Quadretto che, come si diceva, è rimasto sullo sfondo rispetto all’analisi tecnica. Perché la Lazio, senza questo bimbo abbandonato nell’aeroporto, avrebbe quasi sicuramente vinto. Ma a Giua, pur col suo grottesco contributo, non si può rimproverare il fatto di allenare questa squadra.
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