Visto da me: Atalanta-Lazio 1-3

di Er Matador


Mai come in questo caso, due partite dall’esito antitetico sono state decise in larga misura dallo stesso protagonista: la gran bella persona – Modalità Sarcasmo ON, sia chiaro – che siede sulla panchina dell’Atalanta.

Mercoledì ne era uscito da trionfatore per la gestione dell’inferiorità numerica; oggi ha sfregiato quel capolavoro fraintendendone il senso.
Schierando, cioè, più o meno la formazione che aveva concluso la gara di Coppa Italia.
E senza capire che quella mezzora abbondante in dieci dipendeva anche da fattori contestuali: la rabbia per un’espulsione controversa; il potersi limitare a una porzione di gara, nella quale è più semplice serrare le fila, e a difendere un vantaggio già accumulato.
Al fischio d’inizio, con un orizzonte mentale e temporale diverso, il marchingegno ha smesso di funzionare.

Decisiva, in particolare, una scelta nella formazione di partenza: la presenza di Iličić, e non solo per l’opaca prestazione comprensibile dopo un periodo problematico.
Per fare spazio allo sloveno, Gasperini ha smontato il duo Mirančuk-Malinovs'kyj: quello  che alle spalle dell’unico attaccante gli aveva garantito supremazia e spessore a centrocampo, oltre a soluzioni (tiri, assist, pressing) dalla media distanza.
A quel tipo di impostazione, che la Lazio aveva sofferto oltremodo anche per errori di schieramento propri, è subentrato il tentativo di entrare in porta col pallone.

Il che ha reso particolarmente infelice l’idea di iniziare con Zapata, anziché Muriel, al centro del reparto avanzato.
Una scelta funzionale per una gara “diesel” in cui si cerca di uscire alla distanza, col centravanti fisico a lavorare ai fianchi l’avversario e quello veloce e tecnico in campo nel finale, per sfruttare spazi e ritmi maggiormente congeniali.
Impostazione comunque vanificata dallo svantaggio iniziale, ma che non sembrava in ogni caso leggibile nello schieramento dal primo minuto: in particolare per l’inserimento in mediana di De Roon che, giocando più basso rispetto a Pessina, allungava inevitabilmente la squadra.

Di fronte a un assetto così incoerente, la Lazio ha rispolverato la “metà bassa” della prestazione epocale nel derby.
Offrendo la stessa densità in fase di non possesso, con Milinković-Savić e Luis Alberto inesorabili nel chiudere spazi e linee di passaggio, ma dispensandoli in gran parte dal contributo offensivo.
Che infatti hanno fornito soprattutto come base di lancio, con l’assist del serbo per il 3-1 come massima espressione di tale modalità, lasciando al tridente di fatto Lazzari-Immobile-Correa il compito di far male.
In tal modo i biancocelesti hanno rubato la parte all’avversario: del quale, privandolo delle verticalizzazioni e del gioco fra le linee, è rimasta solamente una postura troppo sbilanciata.
Le assenze in massa fra gli esterni bergamaschi (che hanno ulteriormente imbottigliato il loro gioco nella fascia centrale) e la desuetudine alla tattica del fuorigioco (in una difesa mal comandata da Palomino) hanno fatto il resto, aprendo praterie a una possibile goleada.

E qui emergono lacune croniche, che costituiscono le uniche note negative di una giornata trionfale:


1) la difficoltà nel chiudere la partite, sprecando a più riprese situazioni clamorose per il 3-0 che avrebbe mandato i ventidue sotto la doccia con una mezzora d’anticipo

2) Nel dettaglio, gli errori inammissibili nei contropiede a due.
In uno di questi, Ciro rimprovera Lazzari per aver tentato la conclusione anziché l’assist a suo favore: peccato che fra i due vi fossero un paio di difensori atalantini, che potevano essere tagliati fuori con movimenti più efficaci.
Lo stesso ex spallino aumenterebbe in maniera decisiva la propria pericolosità se trovasse qualche alternativa, ad esempio decelerare e rientrare, alla modalità unica con testa bassa e acceleratore a tavoletta

3) L’errore di schieramento sull’1-2 che rischiava di compromettere tre punti strameritati.
D’accordo che Muriel disponga di dribbling e finte da top player, ma per fronteggiare la sua percussione sarebbe servito disporre due uomini fra lui e la porta, con un marcatore che lo attacca in prima battuta e un compagno che scala come libero per intervenire in seconda istanza.
Acerbi ha guidato invece all’assalto una linea completamente appiattita, sprecando sui fianchi la nettissima superiorità numerica, e al colombiano è bastato un movimento col corpo per ritrovarsi a tu per tu con Reina


Per il resto, ancora qualche notazione individuale:


a) protagonista assoluta la catena di sinistra Radu-Marušić, forse alla sua migliore prestazione di sempre.
Meritatissima, per il montenegrino, la soddisfazione personale

b) Pereira mai così in partita come nello spezzone di oggi: due, probabilmente, le coordinate che lo hanno favorito.
La possibilità di spaziare liberamente in un contesto tatticamente anarchico, quindi perfetto per il suo modo di intendere il calcio.
Il fatto di essere lanciato in velocità, togliendogli il tempo per gli arabeschi in cui si incarta quando parte da fermo

c) Altro gol di Muriqi, peraltro entrato all’istante in partita a dispetto del fisico.
Gol a porta vuota, si dirà, ma a calciare in quel modo bisogna arrivarci, e lo si capisce riavvolgendo il nastro dell’azione.
Nel momento in cui Milinković-Savić pennella l’assist per Pereira, il muflone coglie al volo gli sviluppi, identifica in Palomino l’avversario diretto e, lontano dal pallone, piazza lo scatto alle sue spalle guadagnando un vantaggio destinato a diventare irrecuperabile.
Con riflessi meno felini, e giocando di seconda intenzione rispetto al marcatore, non avrebbe concluso a colpo sicuro: e per un centravanti non è proprio un dettaglio

d) Akpa-Akpro, protagonista di un discreto spezzone, più dinamico che ordinato, e di un tiro dal limite che mette i brividi: corpo all’indietro, totale mancanza di esplosività nel movimento, pallone inesorabilmente lento e altissimo.
Un’esecuzione che evidenzia una totale mancanza in quei fondamentali, e che verrebbe censurata anche a livelli molto più bassi.
Lavorare su questo aspetto: il ragazzo ha una notevole propensione a liberarsi per la conclusione dei venti metri, che può diventare un’arma tattica non banale, ma così la vanifica del tutto

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