Visto da me: Pescara - Lazio 2-6

di Er Matador



In questo ormai ampio scorcio di stagione, Inzaghi aveva abituato a una tendenza ben delineata: partite preparate spesso assai bene, ma gestite in corso d’opera fra errori e omissioni. Oggi, a sorpresa, inverte i fattori e il risultato cambia in meglio.

Tutto ruota attorno alla celebre “catena”, nel caso quella di sinistra, imperniata nel suo vertice basso su un Lukaku decisamente non ancora pronto.
Se l’idea è quella di mettere minuti nel suo motore, in vista del derby di Coppa Italia e approfittando dell’avversario più debole nel torneo, come non essere d’accordo.
Ma un elemento così indietro nell’inserimento, e con una fase difensiva assai aleatoria per le incombenze di una difesa a quattro, andrebbe protetto sulla corsia di competenza.
Invece a centrocampo rispunta un Milinković-Savić improvvisamente appannato, e del quale si è capito – o si dovrebbe capire, quantomeno – che non sarà mai una mezzala.
In attacco riecco Keita, i cui limiti di tenuta e in fase di non possesso si confermano difficilmente sostenibili, relegandolo a un precocissimo ruolo alla Altafini.

Ciliegine sulla torta, un terzino che arranca in copertura – in quel caso per limiti atletici sopraggiunti, e ormai difficilmente recuperabili – a indebolire anche l’altra fascia e un centrocampo inefficiente nel proteggere la linea difensiva.
Requisito senza il quale, ad esempio, la presenza di Hoedt diventa una cattiveria nei confronti dell’olandese.

Il Pescara e un avvio a razzo sembrano mascherare il tutto, ma appena si alza il piede dall’acceleratore lo spettacolo di una difesa praticamente smantellata diventa da brividi.
Indiziati principali non tanto le prestazioni individuali nel reparto arretrato, che ne sono piuttosto la conseguenza, quanto le sconcertanti distanze fra le due linee basse.
Il bimbo serbo, come detto, si limita a una presenza fra il nominale e l’indisponente.
Biglia tenta di mettere qualche pezza ma getta quasi subito la spugna, confermando la personalità di una sogliola morta quando la partita si mette male.
Lo stesso superpokerista di giornata, fra una doppietta e l’altra, non si dimostra esente da pecche sotto questo profilo.
L’arbitro tanto per cambiare ci mette del suo, inventandosi un tiro dal dischetto per gli abruzzesi, ma la vera notizia è che una squadra da SEI punti sul campo in VENTITRÉ partite – il record del Lecce di “Gaucho” Toffoli, con 11 punti in 34 partite, è a portata di mano – arrivi in area come mai le è capitato nella Via Crucis del torneo in corso.

E qui diventa protagonista Marchetti. Coi limiti di sempre, nella respinta che lascia il pallone a ristagnare nell’area piccola (2-1) e nel piazzamento che concede tre quarti di porta alla conclusione di Brugman (2-2). Con un’ormai consolidata vena da pararigori cui aggiungerà un intervento decisivo su Caprari a inizio ripresa, quando la Lazio è già tornata in vantaggio ma di una sola lunghezza.

L’intervallo è un imbrunire di cattivi pensieri. Si rimane sgomenti di fronte alla totale incapacità di gestire la partita quando arriva il momento di tirare il fiato, interrogandosi sulla non facile distribuzione delle responsabilità fra la componente tattica e quella mentale.
Pensando al derby di Coppa Italia, si scomoda il fantasma della stagione culminata nel 26 maggio ma anche in un girone di ritorno da esercito italiano dopo l’8 settembre.

Poi Inzaghi vara quella che per lui è una prima assoluta, vale a dire una risistemazione intelligente degli uomini in campo: che non cambiano neppure di un’unità, mettendo gli undici di fronte alle proprie responsabilità per un quarto d’ora da allucinazione perversa. Le mosse del tecnico, tattiche e psicologiche, riescono alla perfezione facendo emergere all’istante i valori tecnici. Un Milinković-Savić finalmente avanzato prepara il tap-in che porta a quota tre il giorno perfetto di Parolo, Marchetti ci mette del suo con un intervento determinante e da lì in poi è tutta discesa. Meritato il gol di Immobile nel “suo” stadio dopo l’apprezzabilissimo altruismo con cui, ormai chiuso da Bizzarri, aveva delegato a Keita il 2-4 che chiudeva il discorso.

Cosa rimane di un salutare pomeriggio tennistico, oltre all’ingresso di Parolo nell’eternità statistica?
Intanto una non banale prova di forza. Il Pescara è un simbolo della formula a 20 squadre e della sua strutturale irregolarità tecnica. Ha deciso per giunta di rimanerlo, nonostante il girone d’andata avesse evidenziato l’assenza di un centravanti vero al posto di Lapadula e la negatività di pesi morti come Pepe e Aquilani, oltre all’impraticabilità nella massima serie di un calcio bello ma utopistico. Come non detto: l’ormai decotto Gilardino e il troppo acerbo Cerri – peraltro già passato per un devastante infortunio al ginocchio – in avanti, Muntari a infoltire il settore previdenziale e nessuna rettifica nell’approccio alle partite.

Rimane un però: pur spuntandola più o meno in extremis, quante tra le formazioni di medio-alta classifica hanno maramaldeggiato con tanta facilità ai danni degli uomini di Oddo? In secondo luogo, purtroppo, una non banale prova di debolezza. Nessuna squadra al mondo può rimanere novanta minuti con l’acceleratore a tavoletta, e la totale assenza di un piano B per gestire la gara nei momenti di riflusso sta diventando una spada di Damocle.

Lo si è visto contro l’Inter, sfiorando l’impresa al contrario dopo settanta minuti buoni di supremazia schiacciante, e gli avversari di livello si dimostrano tali anche per la spietatezza nell’approfittare di simili occasioni. Si spera, inoltre, di aver chiuso con certe e già citate soluzioni dal primo minuto – Milinković-Savić mezzala, Keita titolare – dopo averne dimostrato in maniera persino pitagorica l’incompatibilità con le esigenze del collettivo.
E comincia a preoccupare la dipendenza da  Lulić – al terzo assist in fotocopia, con cross a tagliare da sinistra –, senza il quale l’assetto tattico si sgretola in mattoni non più legati dal cemento.

Ne esce una squadra a tratti davvero bella, ma di una fragilità quasi infantile che rischia di rovinare tutto da un momento all’altro.
Occorre intervenire sul secondo aspetto, emendando innanzitutto la gestione del gruppo dal perseverare in errori evitabili.

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