Visto da me: Bologna-Lazio 1-0

di Er Matador



La migliore sintesi della partita è nel filmato di Sky coi “migliori momenti”: cosa propone del secondo tempo? Il gol e il fischio finale.
In mezzo un paio di incursioni del Bologna, non culminate in occasioni da rete, e la Lazio della ripresa: il nulla, appunto.

Una squadra sparita; non rientrata in campo dopo l’intervallo; immediatamente trafitta, causa una disposizione difensiva che neanche nella serie C delle Isole Tonga (nella foto, ndr); incapace – panchina compresa, ovviamente – di qualsiasi reazione a livello tecnico, tattico, di nervi.

Lo sconcerto del dopo gara si focalizza come ovvio sui secondi quarantacinque minuti, inclusi gli indecenti spezzoni di Immobile e Pellegrini: ma è la prima frazione a fornire le indicazioni più interessanti.
Perché la Lazio, prima di sparire dal campo, è apparsa ben disposta e forte di una certa supremazia territoriale.
Il Sarriball, almeno nella prima metà della gara, ha dunque funzionato: con quali risultati? Presto detto: una traversa colpita quasi per sbaglio e ZERO tiri nello specchio.

Per il semplice fatto che il Risiko del Valdarno si perde in millemila passaggini e in astruse trigonometrie, con l’aggravante di voler entrare in porta col pallone.
Ma per concretizzare necessita dello spunto individuale, esattamente come accadeva coi predecessori dell’attuale: e, se gli elementi più qualitativi trovano tutti insieme una giornata di modesta ispirazione, a tirare in porta neanche ci si prova.
È la definitiva confutazione di un gioco non solo complicatissimo e dai tempi di apprendimento ingestibili, ma inutile, inutilmente dispendioso e inconcludente anche quando viene applicato alla lettera.

E che è stato puntualmente impacchettato e rispedito al mittente da Thiago Motta.
Il quale, si badi, non è un truce italianista bensì un tecnico moderno dall’impeccabile organizzazione tattica, cucita sugli elementi a disposizione e in grado di valorizzare nomi da Ufficio Scomparsi.
Solo che per l’italo-brasiliano la tattica rimane un mezzo; mentre per il nostro diventa un fine, interno alla realtà onanistica e parallela in cui vive.

Detta in maniera meno curiale, paghiamo un tizio quattro milioni all’anno per farsi le seghe: roba che neppure Rocco Siffredi, pur divertendosi di più, appare così ben retribuito.
Sembra il caso di chiudere, e prima di subito, quest’esperienza ormai priva di senso.

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