Visto da me: Atalanta-Lazio 2-2

di Er Matador



La migliore Lazio della stagione, si legge da più parti: col massimo rispetto per le opinioni altrui, a chi scrive è sembrata piuttosto la peggiore.

Perché ha sprofondato nuovamente la squadra nelle miserie delle gestioni Reja e Inzaghi: vale a dire un nemico mortale di qualsiasi idea di futuro, una Cartagine sulle cui rovine spargere non solo il sale ma anche l’oblio.
Verona è stata una Caporetto che poteva innalzarci, indicando con chiarezza i tanti problemi e ciò che bisogna assolutamente lasciarsi alle spalle.
Bergamo rischia di diventare una Vittorio Veneto di plastica, un’ubriacatura di malinteso trionfalismo propedeutica al riaffiorare di antichi vizi.

A partire dall’atteggiamento tattico, con due linee basse schiacciate sulla trequarti e la metacampo superata giusto un paio di volte nel primo tempo: concetto assai diverso dal lasciare l’iniziativa all’avversario per colpire di rimessa.
Può essere dignitoso per lo Sheriff al Bernabeu, non per la Lazio contro una rivale diretta.
Un approccio così passivo al match si è puntualmente tradotto in un disinvestimento sul piano della mentalità.
Col meritato contrappasso di sprecare due volte il vantaggio: nelle fasi finali delle due frazioni, quando testa e personalità fanno la differenza; con svarioni imbarazzanti nel reparto arretrato, protagonisti Reina e Hysaj, dopo aver inscenato una caricatura del Catanzaro pensando quasi esclusivamente a difendersi.

Sull’1-1, portiere colpevole molto più della difesa: poiché Marušić, dopo l’errore iniziale, aveva comunque concesso a Zapata una luce della porta limitata e sfavorevole, che una sedia avrebbe presidiato assai meglio.
Quanto all’albanese, nei movimenti difensivi di un esterno a quattro è semplicemente il peggiore dai tempi di De Silvestri.
Fermo restando che senza schiacciarsi tutti nei propri sedici metri, e senza il calo di tensione collettivo sulla rimessa laterale da cui è iniziata l’azione, quel cross non sarebbe neanche arrivato in area.

Quanto a limiti di personalità, notevole anche la condotta – dell’estremo difensore spagnolo, e non solo lui – sul tentativo di lapidazione dagli spalti.
Non si dice di scadere ai livelli della monetina di Alemão, sconcezza perpetrata proprio in quel di Bergamo, ma limitarsi a raccogliere gli oggetti lanciati come una colf è francamente troppo.
E questo da parte di Reina, uno fra gli elementi con più carisma ed esperienza internazionale. Figuriamoci gli altri.

Parlando di rigurgiti di inzaghismo, è riemerso uno fra gli aspetti più cialtroni e caratterizzanti della sua conduzione, vale a dire la propensione a recitare a soggetto.
Contro gli orobici la Lazio non ha schierato un centrocampo ma solo un Cataldi monumentale, la cui prestazione andrebbe proiettata nelle scuole calcio.
Via lui il reparto si è sciolto come neve al sole, in quanto non supportato da alcuna logica organizzativa.
Altrettanto vale per la fase difensiva, tenuta insieme unicamente dalla densità: al primo spazio lasciato libero, ciascuno per sé. E questo sarebbe il celeberrimo “avere un gioco”?

O ancora la dipendenza, appena scalfita, della pericolosità offensiva da contributi individuali.
Anche ieri Pedro ha fatto la differenza, confermandosi un marziano rispetto al calcio italiano di oggi.
Prima piazzando l’ennesimo colpo da biliardo, perché ci vogliono freddezza e classe per togliere la ragnatela dall’angolino, con portiere e difensori ancora pienamente in gioco.
Il tutto, si badi, partito da una splendida iniziativa personale del buon Danilo, omologa a quelle di Luis Alberto fino all’anno scorso.
Poi con l’accelerazione sul secondo gol, che ha inventato dal nulla una ripartenza devastante.
Senza le sue prodezze, la Lazio avrebbe segnato?

Preoccupante anche la coesistenza di simili tare (con la minuscola) ereditarie col peggio del nuovo corso.
Ad esempio l’utilizzo di Immobile, sfiancato in un lavoro da centroboa per compagni che non arrivavano, quando il trend tattico del match gli avrebbe spalancato praterie in verticale.

Tornando agli svarioni sui gol, che a siglarli siano stati due pupilli di Sarri è simbolico della sua condizione di corpo estraneo rispetto al contesto.
Come un Luigi Enrico coi suoi Bojan Krkić, in una xxxx che ricordiamo con affetto ma da avversari.
Da cui un bivio, dopo il flagrante ammutinamento del Bentegodi.

Andare avanti per la propria strada, con una stagione difficile ma decisiva per fare chiarezza e selezionare gli utili alla causa: tra i quali figura Bašić, che ha firmato il proprio ingresso con la puntuale partecipazione al contropiede del 2-1.
Oppure adeguarsi all’andazzo delle ultime stagioni, accettando di essere normalizzato come un governo gialloverde qualsiasi.
Al che il suo ingaggio avrebbe avuto senso quanto quello di Valentina Nappi per un ruolo da suora.

Con l’auspicio che, nella malaugurata seconda ipotesi, si distingua dai predecessori almeno per un gesto di dignità: quello delle dimissioni, per lasciare cotanta rassegnazione a un collega direttamente proporzionale.
Magari salutando con una citazione del faraone Ramesse II de I dieci comandamenti: "Questo è lavoro per un beccaio, non per un re".

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