Visto da me: Atalanta-Lazio 3-2 (CI)

di Er Matador


Una sconfitta inaccettabile, perché dettata da troppe situazioni senza dubbio evitabili.

A partire dall’avvio, nel quale la Lazio ancora una volta entra con un quarto d’ora di ritardo, come la curva in alcune manifestazioni di protesta.
I biancocelesti si lasciano schiacciare nella loro area e cedono di schianto al centro, sulla verticale Hoedt-Escalante.
Proprio i due che #ildiessepiùbravodelmondo ha gabellato rispettivamente per un titolare-titolare in difesa e per il vice-Leiva, ruoli con cui hanno poco a che spartire anche sul piano delle caratteristiche.
In quale altro settore continuerebbe tranquillamente a lavorare dopo una simile prodezza?

Ad aiutare la malasorte sull’1-0 contribuiscono due fattori.
Il ripiegamento troppo in profondità di Muriqi, pericoloso nella propria area come capita a chi è abituato a giocare in quella avversaria.
Una disposizione tattica scellerata, coi giocatori che perdono terreno e fanno blocco su un’unica linea, costruendo un vero e proprio muro umano sotto il naso di Reina.

Chi reagisce meglio è proprio il muflone, rimediando al rinvio su Djimsiti con una quasi doppietta.
Sull’1-1 replica quanto ammirato nel finale col Parma, riuscendo a imprimere forza e precisione al colpo di testa a dispetto di una coordinazione sfavorevole – giovedì scorso da fermo e senza spinta sulle gambe, ieri indietreggiando per trovare l’equilibrio – e di cross non particolarmente tesi.
Una dote specifica, quella di imprimere al pallone una frustata col collo, che ricorda David Trezeguet: e, in materia di soluzioni aeree, non è un paragone banale.
Sul provvisorio vantaggio è decisivo nel portare via l’uomo ad Acerbi, che può involarsi con un taglio verso il centro alla Ryan Giggs.

Quel momento di buon gioco, sufficiente per ribaltare il risultato contro un avversario non al meglio, si rivela una parentesi che si chiude subito.
Il pari ripropone in peggio quanto messo in atto sulla prima segnatura dei bergamaschi, con una linea troppo bassa che lascia a Malinovs'kyj una prateria per il rigore in movimento.

Anche in questo caso – era già capitato sul primo gol – gli ospiti vanificano una superiorità numerica, confermando il filo conduttore di una partita sciagurata e anticipando l’autentico giro di boa rappresentato dall’espulsione di Palomino.
Nella quale confliggono due elementi di valutazione: Djimsiti entra nell’inquadratura solo a cose fatte, quindi senza altri difendenti fra Lazzari e la porta; lo status di chiara occasione da gol, seguendo la traiettoria di corsa dell’ex spallino, non sembra inequivocabile.

La possibile svolta a favore della Lazio diventa la peggiore gestione della superiorità numerica nella Storia di questo sport, perché entrano in gioco le panchine.
E qui, fermo restando l’osceno profilo umano del tecnico nerazzurro, emergono le reali proporzioni nei confronti di Inzaghi sul piano della competenza: un docente universitario contro un bimbo con problemi di apprendimento.

Gasperini non stravolge subito la squadra, lasciandole la pericolosità offensiva che permette – con la graziosa collaborazione di una difesa laziale apocalittica, tanto nei singoli quanto nei movimenti di reparto – di ripassare in vantaggio.
Quindi sceglie un approccio conservativo per la terza linea, mantenendone l’assetto di base con Toloi a riempire il vuoto lasciato dal cartellino rosso, mentre sacrifica il duo dietro alla prima punta aggiungendo un centrocampista.
Pessina si sdoppia fra mediana e attacco, mentre il pimpante Zapata fa reparto da solo giocando sul mismatch in velocità con Hoedt: il quale trova il modo di regalargli un penalty scellerato con un’entrata degna di Mauricio in giornata no, e buon per la Lazio che Reina scelga di non battezzare l’angolo con troppo anticipo.

Dall’altra parte, Inzaghi scaraventa in campo senza criterio tutte le risorse offensive disponibili, intasando gli spazi al centro con l’unica conseguenza di rinforzare le barricate atalantine.
Ne nascono palloni persi e difficili da recuperare per uno sbilanciamento del tutto disordinato: ma soprattutto una caricatura del peggior calcio portoghese, con un’alternanza di passaggi sul perimetro e all’indietro.
Senza costrutto, senza un’idea che sia una, senza la minima logica di squadra.
Eppure, in mancanza di meglio, basterebbe piazzare un paio di torri in area e rifornirle di lancioni.
Una situazione del genere, che tende a strutturarsi per duelli individuali nei sedici metri, può davvero valorizzare una supremazia numerica facendo saltare qualche marcatura.
Peccato che, a certi livelli di incapacità, non vengano in mente neppure tentativi così elementari.

L’unico tiro nello specchio dopo l’espulsione di Palomino giunge così da fermo: il piede del deludentissimo Correa – ormai simile a Pereira per inconcludenza – a innescare Acerbi, ispiratissimo nel ruolo di attaccante aggiunto; Gollini che firma una vittoria strameritata, togliendo letteralmente dalla porta il colpo di testa dell’ex Milan e Sassuolo.

Un obiettivo stagionale saltato, quindi, e domenica si replica: stesso campo stesso avversario, seguendo un calendario stilato dal Mago Zurlì e con una sequenza al limite della regolarità tecnica.
Per un risultato diverso dovranno cambiare tante cose in pochi giorni. Forse troppe.

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