Visto da me: Lazio-Benevento 6-2

di Er Matador



Nella memoria di un tifoso vi sono momenti cui, in futuro, ci si appoggerà istintivamente per organizzare i propri ricordi.
Non si tratta solo di gol o risultati decisivi, ma anche di prestazioni, giocate, situazioni che, nel bene o nel male, diventano parametri di riferimento per un aspetto tecnico-tattico di questo gioco.
Ieri si è vissuto un momento del genere come paradigma dell’assurdo negativo, del troppo brutto per essere vero, dell’incancrenirsi di un andamento già delineato e a cui non si vuole colpevolmente porre rimedio.
Sotto 1-2 in casa; contro un’ultimissima in classifica, di quelle che rimarranno nelle statistiche; in superiorità numerica; di fronte a un avversario che – diversamente da altre provinciali transitate recentemente all’Olimpico – non ha neanche adottato la tattica più ostica per la banda Inzaghi, vale a dire il pullman parcheggiato davanti alla porta, e tutto sommato lasciava giocare.
Ovviamente, ma queste sono cose di Lazio, col contributo di due ex; ovviamente, alla loro migliore prova in una stagione tutt’altro che brillante.
Poi tutto è bene quel che finisce bene: ma quella sensazione, quello sguardo terrorizzato verso il basso sperando di non vedere immediatamente il fondo, rimangono sulla pelle.
Insieme a tante considerazioni – e già questo, in una gara che non doveva andare al di là di una partitella in allenamento, è un segnale inquietante – che proviamo, per mettere ordine, a organizzare in base ai reparti.

In porta, tanto per cominciare, c’è di nuovo un problema che sembrava archiviato con l’esplosione del giovane talento albanese.
C’è parecchio da ridire su reattività e piazzamento di Strakosha anche in occasione del secondo gol, dove pure Guilherme lo giustizia con un rigore in movimento.
Ma l’inconcepibile si consuma sulla punizione di Cataldi, noto tutt’al più come discreto crossatore da palla inattiva, con un posizionamento che non ha semplicemente senso qualunque fosse la soluzione scelta dal tiratore.
Da cosa derivino simili amnesie, oltre alla crescente insicurezza coi piedi che ha spinto la squadra a cercarlo assai meno del solito in questo fondamentale, è francamente un mistero.
O forse una costante, che vede ormai troppi giocatori – oltretutto in ruoli molto diversi fra loro – incapaci di consolidarsi dopo il decollo iniziale, quando gli alibi e la leggerezza di chi può sbagliare vengono sostituiti dalle prime aspettative e responsabilità.
C’è un lavoro fuori dal campo, sulle teste più che sui fondamentali, da ripensare per non lasciare a metà troppe storie di potenziali buoni giocatori.
E con esse patrimoni umani, tecnici ed economici che una società con la dimensione finanziaria della Lazio non può permettersi di sprecare.

In difesa si è arrivati a un altro parossismo, peraltro poco originale: tre immancabili centrali a marcare prima il solo Iemmello poi, dopo il suo sacrificio a favore del secondo portiere Brignoli, neppure quello.
Tre uomini e una mezzapunta ma, nonostante il verso a un titolo di Aldo, Giovanni e Giacomo, c’è poco da ridere.
Non si tratta di buttare alle ortiche un modulo cui si devono risultati e valorizzazione di tanti protagonisti della prima parte di stagione.
Si tratta di prendere atto che esiste una bibliografia, ormai altrettanto consistente, sull’inadeguatezza del 3-5-1-1 per le gare interne contro avversari che non vengono a fare la partita.
E che l’immutabilità dello schema, da Zeman a Sarri, appartiene nella migliore delle ipotesi agli eterni secondi.
Neppure le prestazioni individuali giustificano, poi, un simile affollamento al centro della terza linea.
Bastos è riuscito a complicare qualche situazione potenzialmente pericolosa anche contro il nulla, e non è un caso che proprio il suo avvicendamento abbia spezzato in due la partita.
De Vrij ha all’attivo un gol importante e un personale nell’insieme sufficiente, ma nelle immagini dei troppi gol subiti manca sempre più spesso qualche suo fotogramma.
Le uniche buone nuove vengono da Luiz Felipe: il difensore con meno errori al passivo, una fonte di gioco sempre più autorevole, ma soprattutto una fra le personalità di maggior spicco alle spalle del generale Leiva.
Non male per un ragazzo arrivato da non molto in doppia cifra quanto a gare fra i professionisti.

A centrocampo non si può non iniziare dal già citato brasiliano, sempre più leader e sempre più tentato dal vizio del gol: ieri con una prodezza che, realizzata con un’altra maglia, avrebbe portato all’interruzione dell’Angelus per mostrare il replay da una dozzina di angolazioni.
Quello che poteva diventare l’erede di Albertini si sta imponendo come la seconda migliore intelligenza calcistica, dopo Jugović, transitata da Formello negli ultimi decenni.
Peccato che attorno a lui non siano tutte rose e fiori.
A cominciare dalla presenza di Parolo, depotenziato da una gara in cui le sue mansioni di collegamento e copertura servono fino a un certo punto, nonché dal doppio stress azzurro-biancazzurro.
Domanda molto concreta, posto che un ultratrentenne col contachilometri fuso dovrà pur tirare il fiato ogni tanto: se non contro il Benevento, quando?
Precipita definitivamente la situazione degli esterni, sui quali si basano equilibri ed efficacia del modulo-totem.
Marušić non va né colpevolizzato né additato come capro espiatorio: va solo tenuto fuori finché non è materialmente in condizione di giocare a calcio.
Sull’altra fascia debutta Patric, e con lui si passa dalla padella alla brace.
A dire il vero, il solo dubbio sul piede con cui intende calciare smuove un minimo le acque rispetto all’ultimo Lukaku, che aveva trasformato la fascia in una sorta di porto delle nebbie per la manovra offensiva.
E almeno un paio di inserimenti, quando evita la tagliola del fuorigioco avversario, risultano tatticamente efficaci.
Peccato che, sul piano squisitamente tecnico, gli riesca poco o nulla.
Peccato che, sul piano difensivo, sia forse il peggiore fra i colleghi alternatisi sulle due corsie.
Convince maggiormente, anche se andrà rivisto quando occorre un pacchetto di mischia più solido, Luis Alberto come mezzala ibrida al posto di Milinković-Savić.
Oltre a tamponare un’assenza altrimenti incolmabile come quella del serbo, tale assetto ha il pregio di mettere in campo più qualità grazie alla compresenza con Felipe Anderson.
Ma questo richiede o un semaforo o uno schieramento più logico per evitare che i due si pestino i piedi.
La gara di entrambi passa infatti per un prima, in cui figurano tra i peggiori in campo, e un dopo in cui esplodono facendo decollare all’istante gioco e risultato.
Confine cronologico e tattico della svolta, in tutti e due i casi? Il cambio di modulo, che consolida lo spagnolo in cabina di regia e il brasiliano sulla fascia.
Uno spazio personale a disposizione dei solisti e un fronte offensivo allargato da una minaccia costante lungo la corsia esterna, che toglie Luis Alberto dall’asfissia di marcature e raddoppi a bersaglio unico, liberano energie e idee sin lì compresse da uno schieramento nonsense.
Era proprio necessario buttare un tempo, e vedere in faccia lo spettro di un risultato ammazza-stagione, per capirlo?

L’altra componente dello switch tattico di cui sopra è la presenza di una seconda punta, nella fattispecie Caicedo.
Che oggi risulta decisivo, proponendosi con un recupero di condizione fisica e motivazioni dopo un periodo in cui sembrava aver gettato la spugna.
Dati all’ecuadoregno tutti i meriti del caso, rimangono parecchi dubbi non solo sul suo effettivo livello ma sulla sua effettiva utilità per l’assortimento del reparto.
Non è – per caratteristiche, al di là della bravura – un vice Immobile; non è complementare a Immobile, nei confronti del quale si è limitato a raddoppiare le bocche da fuoco ma senza interagire più di tanto: a cosa serve esattamente?
E a cosa si pensava dovesse servire, data la scarsa aderenza fra il suo profilo – innanzitutto per l’anagrafe – e i criteri di mercato degli ultimi anni?
Senza contare che la ricchissima varietà di giornata nel tabellino dei marcatori – cui ha rischiato di aggiungersi persino il redivivo Nani – necessita di ben altre conferme per spostare il vero macigno: se si blocca Ciro, finalizzare diventa un problema indipendentemente dalla qualità del gioco.

In ultimo il reparto che sta mostrando i cedimenti più netti: la panchina, e non in riferimento alle seconde linee insufficienti sul piano sia quantitativo sia qualitativo.
Tra le righe delle precedenti considerazioni si legge senza sforzo un Inzaghi perduto nelle sue doti di coraggio e duttilità, amminchiato – per dirla col commissario Montalbano – anche di fronte all’evidenza su un assetto che va semplicemente rimesso nel mazzo insieme a qualche alternativa concreta.
La formazione del secondo tempo può valere come proof of concept per le tante partite contro avversari chiusi, e che conoscono il 3-5-1-1 meglio ancora di chi lo mette in campo? Sì e no.
In primo luogo va considerato l’avversario di giornata: il Benevento giocherà anche meglio di quanto dica la sua spaventosa classifica, ma rimane una formazione sostanzialmente rassegnata e che, alla fine, concede troppo a chiunque.
In secondo luogo, pesano i dubbi già accennati sulla sostenibilità quando si deve anche difendere: basterebbe una maggiore propensione bifase degli elementi meno votati alla corsa, con un minimo contributo nella fase di non possesso palla, ma sembra tanto la storia delle cinque palle e del flipper.
In terzo luogo, non si è avuta la sensazione di meccanismi oliati bensì di esperimenti quasi a caso, non collaudati in allenamento, trasformati in oro solo dalla vena e dal maggiore agio tattico di un paio di singoli.
Se il 3-5-1-1 si era basato sullo stato di grazia di Luis Alberto e Immobile, il 4-4-2 spurio e le sue varianti rischiano di basarsi sullo stato di grazia di Luis Alberto e Felipe Anderson.
Non si esce, insomma, dalla logica dei “due buoni” e speriamo bene: che può andare per uno scalcinato torneo di paese, non per la serie A e tantomeno per i tre fronti.
In un gruppo che lavora insieme da mesi, troppi elementi non si cercano e non si trovano come se giocassero insieme per la prima volta.
A queste condizioni, inutile attendersi miracoli da una variante tattica, se mancano alle sue spalle un lavoro specifico e consegne precise ai singoli su cosa fare con e senza palla.

Buona Pasqua a tutti, comunque: ma stavolta si è davvero rischiato che il pranzo della festa andasse di traverso.

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