Visto da me: Lazio-Lecce 2-2

di Er Matador



Immaginate che una persona abbia mangiato una di quelle pastasciutte alla contadina con soffritto, pancetta, peperoni e ogni prodotto commestibile.
Che il suo stomaco non abbia retto e che tocchi a voi, rovistando fra quelle emissioni antiperistaltiche, ricostruire nel dettaglio gli ingredienti.
Analizzare la partita col Lecce, cercando di mettere ordine negli spunti (troppi e nessuno di nuovo al tempo stesso) che ha offerto, equivale a un’esperienza del genere.
Metafora ripugnante? Beh, mai come i novanta minuti più recupero di ieri sera.

Tentando di procedere in ordine cronologico, l’avvio vede una Lazio flebile e alle corde con un arbitraggio criminale che la colpisce più ancora dell’avversario stesso.
Fino al rigore, concesso ai salentini per un fallo non commesso ma subito da Hysaj: un assurdo da mettere nell’album di famiglia insieme al pallone calciato dal giocatore dello Zaire quando la punizione era per il Brasile.
Joseph Mwepu Ilunga, questo il suo nome, raccontò anni dopo di aver agito per bloccare i verdeoro sul 3-0, massimo scarto concesso dal regime di Mobutu pena gravi ritorsioni: chissà se anche il criminoso Maresca ha agito sulla base di simili sollecitazioni.

Sull’esecuzione del rigore è il caso di dilungarsi per analizzare il comportamento del portiere (nella foto, ndr).
L’omone rimane in piedi fino all’ultimo, battezza l’angolo giusto, lo copre con una velocità e un’estensione impressionanti, costringendo Strefezza – che aveva puntato dritto da quella parte – ad allargare o alzare all’ultimo momento.
Soluzione che, se non si è molto freddi e tecnici, porta a mancare il bersaglio come puntualmente accade.
Errore, ma indotto direttamente dall’estremo difensore per il quale vale più di un penalty parato: bravissimo Provedel, davvero.

Passano pochi minuti e Luis Alberto inventa dal nulla la prima azione biancoceleste mandando in porta Immobile, che suggella un duetto sul filo dei millesimi di secondo tenendo il pallone incollato al piede.
Sì, proprio quell’Immobile che “non sa stoppare una palla”, mantra di certa critica con le mutande giallorosse (e sporche) che ha ridotto la Nazionale a scarico del cesso di trigoria.
A una squadra neppure grande ma appena concreta – e alle merde, spiace dirlo – un giro di boa del genere basterebbe per gestire fino ai tre punti una serata di sofferenza: e invece la sofferenza della Lazio è appena iniziata.

Milinković-Savić sfiora il raddoppio trovando una parata di piede alla Garella da parte di Falcone, poi arriva la doppietta di tale Oudin: nome troppo simile a Oudinot, e si vede che a Roma porta male.
In entrambi i casi gli ospiti – che, al netto dell’arbitraggio, hanno preso a pallate gli uomini di Sarri – lo riforniscono guadagnando incontrastati la trequarti avversaria.
Sul pari Marcos Antônio ci sarebbe anche, ma in fase di contrasto rimane improponibile; sul raddoppio la voragine è aperta e raggiunge l’interno dei sedici metri.
Il problema è la chiave del concetto stesso di fase difensiva: le distanze.
Fra i reparti, con un centrocampo impalpabile che non rientra e non contrasta e una difesa che non sale per accorciare, anzi rincula a ridosso del portiere.
Fra difendenti e avversari, perché grazie al sacchismo non si insegna più a marcare: come se il pressing, bandiera della scuola di Fusignano, non fosse una marcatura dinamica.

A quel punto, soliti cambi scolastici – Luca Pellegrini dall’inizio, anziché i soliti adattati a sinistra, proprio no? – e palloni buttati in mezzo senza movimenti in area che diano l’idea di cosa farne: come nell’era dei miracolati, solo con più parole e il doppio dell’ingaggio.
Un colpo di sfortuna (il palo di Pedro) e un colpo di fortuna (la carambola finale del serbo) plasmano il risultato finale, dettato anche da situazioni dubbie in area leccese su cui il killer col fischietto ha completamente sorvolato.

Di questo scempio rimane una squadra che ha smesso di giocare, in coincidenza con un poco precisato e tempestivo lavoro di richiamo atletico (o della volata per la CL?).
Un 8 settembre nelle Coppe, per potersi concentrare su una gara a settimana, e poi ci si presenta in queste condizioni psicofisiche.
Unito ai problemi cronici cui non tenta di porre rimedio, dovrebbe valere per Sarri la radiazione dall’albo.

Anche se il pesce puzza dalla testa, vale a dire dalla dirigenza: che, anche di fronte a una stagione definitivamente fallimentare col mancato ingresso nella competizione principale, proseguirà col solito tran tran.
Come accadrà puntualmente finché saranno in carica i soliti noti, il che impone la rimozione di Kim Il-sung ed Enver Hoxha.
Se necessario, rimozione forzata.

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